Workshop al Teatro Sociale di Brescia

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Il Centro Teatrale Bresciano, in collaborazione con Somebody Teatro delle Diversità, presenta “L’Altro – Masterclass” con la Compagnia Balletto Civile, Compagnia internazionale di ricerca nell’ambito del teatro-danza e teatro fisico. Un appuntamento diretto da Michela Lucenti che rientra nell’iniziativa della programmazione delle giornate FuoriNorma Formazione, che si terrà sabato 18 marzo al Teatro Sociale di Brescia.

“Ripartiamo dal corpo. Il corpo al centro di tutto. Il lavoro sulla relazione, respiro ed intenzione, saranno il trampolino su cui poggiare i propri piedi e svelare una diversità creativa, tentando di rispondere ad un’unica vera urgenza generatrice dell’atto teatrale: chi siamo ora, che cosa stiamo facendo. Trasmettere una consapevolezza dell’agire scenico semplice ed artigianale per far nascere attraverso l’urgenza dell’incontro e della relazione un Teatro autentico dove si incontrano virtuosamente motivazioni e bisogni personali. Sulla base di un percorso collettivo, indagheremo i mezzi espressivi del corpo e della voce come materiale sacro e profano al tempo stesso, come materia tangibile, attraverso cui conoscere sé stessi ed incontrare il proprio straniero, l’altro”, afferma Balletto Civile

Il masterclass si terrà dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 16.00, con un numero massimo di 30 partecipanti; le domande di iscrizione sono aperte fino a lunedì 13 marzo telefonando a SomebodyTeatro 3393818207. Il costo dell’iscrizione è di 20,00 euro, ridotto a 15,00 per gli associati a SomebodyTeatro.

 

Silvia Vittoriano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Giuliano” al debutto a Brescia

SPETTACOLI CENTRO TEATRALE BRESCIANO GIULIANO NELLA FOTO SCENA 21/02/2017 REPORTER FAVRETTO

“Giuliano” nella foto di scena del 21 febbraio 2017, reporter Favretto

Ignota la storia di Giuliano fino al lavoro messo in scena dal CTB, Teatro Stabile di Brescia. Ignota almeno a chi non avesse letto Gustave Flaubert nel suo “La leggenda di San Giuliano Ospitaliere” del 1877, narrata a partire dall’analisi delle vetrate della sua chiesa, la cattedrale di Rouen. Lì sono raccontate le gesta di un giovane medievale, assassino involontario e, come già altre storie raccontano, destinato ad un percorso di espiazione che lo porterà all’onore degli altari. La leggenda è narrata su due fasi temporali da Alessandro Mor e Alessandro Quattro, entrambi impegnati anche nella drammaturgia. Mor e Quattro hanno disposto la storia, infatti, sia nel presente della voce narrante, l’Ottocento non scevro di ricerche in documenti e archivi di tutto ciò che poteva diventare romanzo o trama teatrale, soprattutto se raccontava di uccisioni, di spettri, di quell’altro da sé che era il sé stesso, e il Medioevo del protagonista. E allora ecco, un novello Flaubert, che ci accompagna per le pieghe di una storia al limite del malato: Giuliano, addestrato alla caccia, scopre ben presto il piacere di uccidere e comprende, ragazzo disciplinato e originale, sveglio e riflessivo, che potrebbe uccidere anche chi ama. Fugge allora dalle sue pulsioni e scappa di casa, per diventare soldato. Dopo un lungo sonno sui suoi progetti di vita, eccolo a capo di schiere di militi ed eccolo capace di difendere chi ha bisogno del suo cuore e della sua spada. Riceve elogi e terre, potere e favori per la sua capacità di fare del nemico polvere. Poi sposerà la figlia di un sultano e capirà che potrà vivere, forse, una vita serena. Ma ecco, il destino è di nuovo dietro l’angolo.

SPETTACOLI CENTRO TEATRALE BRESCIANO GIULIANO NELLA FOTO SCENA 21/02/2017 REPORTER FAVRETTO

Gli appaiono i vecchi genitori in un contesto ai limiti tra l’onirico e il reale e, per un equivoco, li uccide. Sarà questo compimento di un timore o forse la sublimazione del complesso edipico, che porteranno Giuliano a scegliere di camminare ancora, verso altre strade. Bravissimi gli attori in una performance che porta lo spettatore a riflettere su uccisioni odierne e, soprattutto, su quella strana voglia di sangue che ci troviamo appiccicata addosso grazie a serie di film, a giochi elettronici, a fatti sempre più efferati di cronaca. Lo spettacolo, che ha debuttato in prima nazionale lo scorso 25 febbraio a Brescia, al Teatro Santa Chiara-Mina Mezzadri, fa parte della rassegna teatrale “La palestra del teatro – Drammaturgie del presente”, promossa dal CTB allo scopo di lasciare il palcoscenico a giovani artisti talentuosi e di coinvolgere nuovo pubblico, creando occasioni di crescita civile. Scene e costumi, particolarmente adatti e interessanti, sono di Katya Santoro; il video, utile per la chiusa in modo particolare, di Enzo Ranzanici (luci di Sergio Martinelli e suoni di Edoardo Chiaf).

Lo spettacolo si è rivelato interessante, molto ben recitato, e capace di catalizzare l’attenzione del pubblico su un argomento storico e un percorso introverso ed esistenziale di spessore.

Da vedere.

(“Giuliano” nella foto di scena del 21 febbraio 2017, reporter Favretto)

Alessia Biasiolo

 

L’aperitivo di tendenza a Milano

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C’è il “Grappa Mule” con Ginger Beer, Succo di Lime, Menta, Zucchero e il tocco ricco ed ampio della Grappa di Arneis. Ma anche il “Lady Violet” con Liquore alla Violetta, Zucchero, Succo di Limone e le calde note fruttate della Grappa di Moscato Invecchiata. E ancora il “Milano 7.0”, con Bitter al Cioccolato, Liquore alla Vaniglia, Soda, Zucchero e i profumi intensi di rosa e viola della Grappa Riserva di Ruchè 7.0, il distillato di nuova generazione.

L’elenco potrebbe continuare ancora. Tanti drink diversi con sfaccettature differenti… ma un ingrediente immancabile: la Grappa. A Milano, infatti, l’aperitivo modaiolo è “cool” se si sorseggiano accattivanti drink a base del distillato italiano per eccellenza. Dove? Al neonato Grappa Store di via Marghera 14, il salotto buono dei Distillati “made in Italy” creato dalle tre giovani sorelle distillatrici Chiara, Silvia ed Elisa Belvedere Mazzetti, rappresentanti della settima generazione di Mazzetti d’Altavilla – Distillatori dal 1846.

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Qui è arrivato un appuntamento imperdibile per gli amanti delle nuove proposte e del beverage “made in Italy”: il “mercoledì di tendenza” con la possibilità di gustare l’aperitivo accompagnato da cocktail con l’uso dei distillati piemontesi.

Ogni mercoledì vi sarà dunque un’occasione gustosa ma anche formativa per la Grappa che viene “raccontata” nel suo accostamento a sapori e nella sua riscoperta versatilità nei drink. Già, perché, da tempo, di uso della Grappa nella mixability se ne parla assai… ma scarseggiano ancora le occasioni per la “prova” pratica e tangibile.

Ed è così che nella Milano mai sazia di nuovi stimoli arriva anche il “Grappa meeting”.

La gradazione alcolica dei drink? “Assolutamente non eccessiva”, confermano dal Grappa Store Milano rimarcando il buon equilibrio dei drink (con un occhio al “bere responsabile”) che si preparano a stupire il pubblico per intensità di profumi e vivacità di aromi.

Il consiglio è quello di vivere l’“Aperigrappa” all’insegna della convivialità, con amici e colleghi, per facilitare il confronto fra cocktail diversi che rispecchiano gusti e personalità disparati

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L’appuntamento con l’aperitivo alla Grappa è dunque per ogni mercoledì, al Grappa Store Milano, in via Marghera 14, dalle 18 alle 20.

Il Grappa Store Milano è aperto il Lunedì (ore 15-20) e dal Martedì al Sabato (orario continuato, dalle 10 alle 20).

 

Claudio Galletto

Il nazismo e l’alimentazione

Le teorie alimentari tedesche relativamente al cancro, consideravano che si trattasse di una malattia dovuta meno a germi o agenti chimici (gli studi venivano comunque condotti lo stesso per cercare di trovare, o di escludere, qualche possibile causa patogena) che a processi disfunzionali dell’organismo. L’insorgenza del cancro, infatti, era messa in relazione allo stress e alla cattiva alimentazione, qualcosa cioè che, indebolendo l’organismo, favoriva l’insorgenza della terribile malattia. Per molti scienziati, come Liek, il cancro era una malattia del corpo nel suo complesso: le cause potevano allora essere genetiche, alimentari, appunto, stressogene, eccetera. Chi sosteneva, con Liek, questa teoria, ed erano in molti, caldeggiavano un’alimentazione povera in proteine e zuccheri e ricca di fibre e frutta. Il timore più grande, infatti, era evidenziare come il cancro colpisse persone in buona salute, pertanto venivano consigliati periodi di digiuno e la riduzione del consumo di carne. Anche per la gioventù hitleriana era stato prodotto un manuale dal titolo “La salute attraverso una corretta alimentazione” e, tra i vari consigli, quello più interessante proponeva l’uso della soia come sostituto della carne. Altro interesse riguardava la lotta alla stitichezza, condotta con l’utilizzo soprattutto di pane integrale. L’uso della carne era stato ripetutamente demonizzato, soprattutto alla luce dell’alto consumo che si praticava nella Germania nazista e del fatto che Hitler fosse vegetariano. Si pensava che la carne fosse causa di aggressività, di golosità pericolosa e lesiva della salute fisica e morale, tanto come alla generazione precedente di tedeschi era stato insegnato che l’utilizzo di frutta e verdura fosse dannoso. Allo stesso tempo, la campagna di Hermann Göring contro la vivisezione, aveva portato al maggiore rispetto degli animali: annunciata nell’agosto 1933, la fine della pratica della vivisezione aveva condotto ad un’intensa campagna a favore della posizione salutistica del maresciallo, che minacciava di inviare ai campi di concentramento quanti avessero ancora torturato gli animali per studi ed esperimenti scientifici. Il dibattito alimentarista, però, non si quietò, anzi. Da un lato la scuola di pensiero che aveva sostenuto come frutta e verdura portassero al cancro, opinione controbattuta da quanti analizzavano come popolazioni asiatiche come quella indiana avessero una bassissima percentuale di cancro, malgrado il forte uso di verdura; dall’altra parte c’era chi considerava, ancora nel 1942, che la popolazione “pura” della Groenlandia avesse una bassissima incidenza di cancro malgrado il consumo quasi esclusivo di carne. A questo si affiancavano studi effettuati in Francia, secondo i quali i macellai, che maneggiavano costantemente la carne, non era quasi mai malati di cancro, quasi che (come per il vaccino) diventassero immuni alla malattia grazie al proprio lavoro. Naturalmente, queste considerazioni andavano di pari passo all’approvvigionamento tedesco di derrate alimentari. Infatti, negli anni Trenta veniva deplorato l’utilizzo di tanto terreno per produrre cereali adatti all’alimentazione del bestiame, quando si sarebbero potuti utilizzare i campi per l’alimentazione umana. E c’era anche chi denunciava questa politica, e la relativa campagna pubblicitaria per la popolazione, alla luce della scarsità di cibo circolante, dovuto alla necessità di scorte per i militari e alla politica di autosufficienza agricola che aveva notevolmente ridotto le scorte della Germania.

Tornando comunque alla necessità di imitare il capo, soprattutto fra coloro che gli volevano essere più vicini, era risaputo che Hitler fosse vegetariano e che non bevesse né fumasse. Il suo stile di vita era studiato anche prima del suo avvento al governo, ad imitazione del suo essere nazista da parte soprattutto degli adepti. I giornali del tempo, comunque, riportavano come talvolta il Führer si concedesse qualche fettina di prosciutto, degli gnocchetti di fegato bavaresi, del piccione, del caviale e dei cioccolatini, malgrado i suoi interessi, citati anche in conversazioni con amici e altri intimi, vertessero sulla possibilità di cibarsi solo di frutta, verdura e cereali crudi, perché la cottura, sterilizzando gli alimenti, li privava del loro naturale potere benefico. Si interessava dell’uso delle erbe e dei bagni terapeutici di acqua fredda; sosteneva la necessità di utilizzare olio d’oliva, molto salutare, limitando l’uso del grasso di balena, anche per evitare la decimazione dei cetacei. Sembra che la maggiore influenza sugli usi alimentari di Hitler l’avesse avuta Richard Wagner, sostenitore di come e quando la razza umana si fosse mescolata e contaminata proprio per l’utilizzo di carne. Le teorie sulle abitudini alimentari di Hitler sono molte: alcune sostengono che la motivazione vera alla rinuncia alla carne derivasse dall’aver preso alla lettera l’appello wagneriano; altri sostengono che avesse problemi digestivi derivanti dalla difficoltà di metabolizzare la carne, da cui il relativo privarsene; altri ancora sostengono che la propaganda contro l’uccisione degli animali a scopo di alimentare l’uomo, non fosse altro che una modalità per dipingere il capo supremo della Germania nazista come buono e premuroso, per sfatare l’idea del persecutore senza scrupoli. Non ci sono prove certe che Hitler temesse di contrarre il cancro, mentre è certo che altri gerarchi fossero fautori delle terapie naturali, come Himmler che sosteneva l’uso di verdure crude, la medicina naturale, il prendere esempio dalle diete orientali. Himmler odiava l’obesità e lanciò una campagna per combatterla tra le SS che dirigeva. Fu sua l’idea di piantumare nei campi di concentramento e in alcune caserme orti di erbe, così come si oppose alla distribuzione di miele artificiale alle SS, e all’adulterazione degli alimenti. Himmler era fautore di una pubblicità rivolta alle casalinghe affinché si abituassero a salvaguardare la salute partendo dal cibo che preparavano per i figli e in casa in genere. Anche Rudolf Hess sosteneva l’omeopatia e l’uso di erbe medicinali e sembra che fosse vegetariano, al punto di infastidire Hitler perché alle riunioni si portava il pasto da scaldare, disdicendo di consumare i pasti della cuoca dietologa di Hitler stesso. La risposta era relativa agli alimenti biodinamici del pasto di Hess che, comunque, ottenne di essere invitato più raramente a pranzo con Hitler. Le abitudini alimentari di Hitler divennero importanti perché egli incarnava gli ideali della Germania nazista, quindi egli rappresentava il tedesco ideale: a lui, dunque, bisognava rifarsi per essere, o diventare, bravi nazisti. Il corpo di Hitler divenne oggetto di venerazione ed emulazione, tanto che tantissimi uomini tedeschi del tempo portavano baffetti come il Führer il quale, secondo i detrattori, si era fatto crescere i baffi per nascondere delle narici “ebraiche”, mentre delle canzoncine inglesi scherzavano sulla malformazione dei suoi genitali. Hitler decise, quindi, con una deliberazione del 1937, di vietare l’attenzione sul suo corpo, forse anche perché le sue abitudini vegetariane erano diventate pretesto per la pubblicità di una fabbrica; molto più probabilmente per non essere messo in ridicolo.

L’astenersi dal bere alcol di Hitler diede forza a tutte le associazioni che già da tempo si battevano, in Germania e in Austria, contro l’abuso di alcol. Pertanto si approfittò della situazione per sostenere con i giovani che la loro virilità si sarebbe misurata non dalla capacità di bere birra, ma di rimanere sobri. Anche l’alcol venne imputato di causare il cancro, così come Lehmann aveva indicato in un suo studio del 1919, secondo il quale birrai, baristi e similari presentavano un’alta incidenza di cancro. Lo stesso Liek, astemio da prima della Grande Guerra, sosteneva che l’alcol fosse causa di gravi malattie, dai problemi ai nervi a molto altro. Per questo motivo, l’ascesa al potere di Hitler venne vista di buon occhio da tutti coloro che si battevano contro l’uso di alcolici, anche grazie alle esternazioni dello stesso pubblicate su molti periodici già dagli anni Venti. Egli sosteneva, infatti, che il popolo si dovesse liberare da quel veleno, in modo da poter essere il forte popolo tedesco che le sue teorie profetizzavano. Già nel 1933 venne vietato di bere durante la celebrazione della festa nazionale del lavoro, la festa che sostituiva le celebrazioni del primo maggio. Se era difficile sradicare dai tedeschi l’idea di bere birra, si doveva cercare di rafforzarne il carattere e anche di risparmiare miliardi di marchi l’anno, spesi in alcol anziché in altri acquisti. Varie leggi, sempre dal 1933 in avanti, vietavano le pubblicità di alcolici, e questo soprattutto per cercare di arginare un’altra piaga tedesca: il numero di incidenti stradali, i più dei quali erano da imputare proprio all’uso e abuso di alcolici. Nel 1940 venne lanciata “l’operazione tè” nei luoghi di lavoro: notevoli quantità di tè vennero distribuite in tutte le fabbriche in cui gli operai si trovassero a lavorare a temperature alte, per favorire il bere bevande meno pericolose della birra o di altri alcolici. Si incentivò anche la campagna a favore delle tisane, dei succhi di frutta, del succo di pomodoro e similari. Nel 1938, il sidro venne nominato ufficialmente “bevanda del popolo”, mentre nell’ottobre del 1939 venne vietata la vendita di alcol nelle osterie. Gli studi affermano, tuttavia, che se i tedeschi consumavano meno alcol era per l’effetto della contrazione del potere d’acquisto, più che per le campagne messe in atto, tanto che i livelli di consumo di alcolici furono praticamente costanti, se si considera flessioni e ripresa. Ad esempio, la produzione di vino aumentò dell’80% nei primi cinque anni di governo nazista, così come aumentò la produzione di spumanti; aumentarono anche le produzioni di alcolici (per quanto vietate) da prodotti succedanei.

Alessia Biasiolo

 

Al Sociale di Brescia “Le donne gelose” di Goldoni

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(foto di Attilio Marasco)

Il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa ha messo in scena, vista al Teatro Sociale di Brescia, la commedia di Carlo Goldoni, la prima totalmente in dialetto veneziano, “Le donne gelose”, per la regia di Giorgio Sangati.

Con l’affiatato cast composto da Fausto Cabra, Leonardo De Colle, Federica Fabiani, Elisa Fedrizzi, Ruggero Franceschini, Sara Lazzaro, Sergio Leone, David Meden, Daniele Molino, Nicolò Parodi, Valentina Picello, Marta Richeldi, Sandra Toffolatti, le scene noir di Marco Rossi, luci di Claudio De Pace e costumi di Gianluca Sbicca, è in scena il carnevale. Tradizione voleva che nel mese di gennaio o al massimo febbraio, a seconda della cadenza della Pasqua, le dame più o meno ricche potessero godersi le uscite pubbliche frequentando appunto il teatro, oppure le mascherate carnevalesche, che a Venezia assumevano il ruolo di un vero e proprio status simbol. Chi poteva andava alle feste, modo per incontrare uomini o donne, gli altri si accontentavano di vederle per la strada. Erano le maschere classiche veneziane, pertanto bianche, a coprire la metà faccia, ma erano i mantelli, i vestiti nuovi ad assumere l’importanza maggiore. Si potevano osservare i nuovi modelli e i tessuti più recenti, mentre ci si mascherava per celare sentimenti, curiosità o anche cattiverie. Qualcuno prendeva a nolo degli abiti per non farsi riconoscere, altri si indebitavano pur di comparire, di dare feste e dimostrare la ricchezza che talvolta non si aveva, o non si aveva più. Ecco allora ricorrere ai trucchi: farsi accompagnare da amici, servi, famigli pur di apparire. Le ragazze non vedevano l’ora di poter uscire, accompagnate da madri, madrine, zie, ma accompagnate sempre, perché le ragazze di buona famiglia non potevano uscire da sole. Se gli uomini, mariti o padri, ma anche padrini, zii e tutori, non permettevano le uscite, erano segnati a dito, non erano degni delle loro donne, erano “rusteghi”, come infatti Goldoni stesso sottolineerà in un’altra spassosa commedia. Adesso si mette in scena la gelosia delle donne, con il servo Arlecchino che parla veneziano pure lui, a differenza di altri testi in cui era marcato l’accento delle terre di dominio. Donne che, impotenti dinanzi alle busse dei mariti e alle loro decisioni, non potevano altro che sospettare, malignare, difendersi con le calunnie, mettere in atto le sottili arti del ricatto del pianto e del sospiro, pur di cercare di sapere la verità, alzarsi sopra altre loro simili, valere qualcosa, almeno tra le mura domestiche e sulla prole, propria o acquisita per vari motivi, come le nipoti. Allora eccoci in un interno in cui una zia sa che il marito frequenta la casa di una vedova. Le vedove avevano l’obbligo di comportarsi bene ma, allo stesso tempo, godevano di quel po’ di libertà data dal loro status. Nella commedia, la vedova di turno, Lugrezia, non pensa affatto di risposarsi, non ha figli, ma gestisce le vite di tutto il contado prestando denaro, prestando accessori e vestiario, giocando al lotto. Così ne nasce l’ennesimo grottesco quadro di incomprensioni, sottintesi e sotterfugi che sono divertentissimi per lo spettatore, meno per i personaggi che, a turno, impersonano le sfortune di una Venezia decadente. Soprattutto per la classe media che, ora, sta languendo. Goldoni ci lascia un quadretto divertente che fa, però, come sempre, anche riflettere sulla necessità di coesione sociale, di fare squadra e non di affossarsi l’uno l’altro; sulla genuinità dei rapporti che non devono essere basati sull’apparire e l’apparenza. Insomma, di nuovo il genio veneziano che esalta le scene e che viene esaltato, a secoli di distanza, dall’ottima messa in scena. Volutamente nere le scene, avrebbero tuttavia goduto di qualche squarcio di colore in più. Buona la recitazione in dialetto veneziano, che veniva compromessa dai “sopratitoli” che, per chi li necessitava, restavano troppo in alto rispetto alla scena, di cui pertanto veniva persa alcuna parte. Ho trovato perfettamente calzante la parte di tutti, ma soprattutto la caratterizzazione di Lugrezia, che sapeva agire bene sulla mimica facciale, transitando dalla perfida cupidigia agli slanci compassionevoli senza perdere lo smalto della sua simbologia. Aiutava il trucco di Aldo Signoretti, che ha curato anche le acconciature. Goldoni auspicava che la commedia avesse successo anche fuori città, come lo aveva avuto a Venezia, al suo debutto. Un successo assicurato e sottolineato da numerose uscite e tanti applausi.

 

Alessia Biasiolo

Blanco Tour per piccoli sciatori

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I bambini che imparano a sciare devono, prima di tutto, divertirsi e avere l’occasione di trascorrere giornate di gioia e spensieratezza sulla neve con la famiglia e gli amici. Per questo la Ski Area San Pellegrino ha creato Blanco World, una grande area tematica dove i più piccoli possono prendere confidenza, un po’ alla volta, con la neve e gli sci, alternando momenti di gioco alle lezioni con i maestri. Adesso, l’offerta di Blanco World si amplia ulteriormente. Ai 3 campi scuola dotati di lunghi tappeti mobili e facili discese con coni e archi e ai 3 parchi gioco con zone esterne ricche di giochi e sale interne riscaldate per le giornate più fredde, si aggiunge Blanco Tour: un innovativo percorso dedicato ai baby sciatori che vogliono vivere ogni giorno una nuova avventura affrontando divertenti sfide in compagnia della simpatica mascotte Blanco. Come funziona? Basta richiedere lo speciale “Taggy” presso l’ufficio della Scuola Sci e Snowboard Moena Dolomiti al Passo San Pellegrino e, seguendo la mappa, completare tutto il percorso correttamente. Mentre il bambino scia, Taggy registra ogni passaggio assegnando dei punti.

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Blanco Tour dura circa 2 ore e include 3 diversi impianti di risalita e 5 tracciati con gradi di difficoltà crescente, tra cui 2 ski cross, 2 crono run e un percorso a gobbe. Una volta terminato, si fa ritorno al Blanco Desk per verificare il percorso fatto ed essere premiati dalla mascotte Blanco!

 

Ski Area San Pellegrino

Le canzoni di Lennon e McCartney cantante dal Coro del Teatro Carlo Felice a Camogli

Questa sera, venerdì 24 febbraio alle ore 20.30, al Teatro Sociale di Camogli, il secondo appuntamento della preziosa collaborazione fra il nuovo Teatro Sociale ed il lirico genovese vedrà protagonista il Coro del Teatro Carlo Felice diretto da Franco Sebastiani, con Patrizia Priarone al pianoforte.

Un brillante programma di evergreen tratti dal repertorio “leggero” arrangiati per coro e pianoforte o per coro “a cappella”, che si apre con la cullante Moon River, una grande  musica da film di Henry Mancini, seguita da alcuni degli intramontabili brani dei Beatles, Eleanor Rigby, Hey Jude, Beatles Medley, Michelle e Yesterday di John Lennon /Paul McCartney. Il programma comprende anche un classico della canzone americana, portato al successo da Louis Armstrong, What a Wonderful World di Bob Thiele. Il concerto si chiude con A Little Jazz Mass di Bob Chilcott, in cui la tradizione della musica sacra si fonde con il jazz.

 

Teatro Sociale di Camogli

Secondo concerto

Direttore Franco SEBASTIANI

Pianoforte  Patrizia  PRIARONE

CORO DEL TEATRO CARLO FELICE

Henry Mancini

Moon River

John Lennon /Paul McCartney

Eleanor Rigby

John Lennon / Paul McCartney

Hey Jude

Bob Thiele

What a Wonderful World

John Lennon /Paul McCartney

Beatles Medley

John Lennon /Paul McCartney

Michelle

John Lennon /Paul McCartney

Yesterday

Bob Chilcott

A Little Jazz Mass

 Marina Chiappa

 

“Qualcuno volò sul nido del cuculo” a Brescia

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(foto di Francesco Squeglia)

La Fondazione Teatro di Napoli ha portato in scena al Teatro Sociale di Brescia il lavoro di Dale Wasserman tratto dal romanzo di Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, tradotto da Giovanni Lombardo Radice, adattato da Maurizio de Giovanni. Pubblicato nel 1962, il romanzo racconta l’esperienza dell’autore in un ospedale psichiatrico dove ha lavorato come volontario. Siamo in California e Randle McMurphy, delinquente condannato al carcere, riesce a farsi ricoverare in quel manicomio per sfuggire ad una dura pena. Si finge “matto”, si agita, attira l’attenzione, è pieno d’idee e iniziative e si diverte un sacco con i matterelli che girano per i reparti. Le scene convincono, in questo bello spettacolo di Alessandro Gassmann con Daniele Russo, Elisabetta Valgoi e con Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Emanuele Maria Basso, Davide Dolores, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Antimo Casertano, Gabriele Granito, Giulia Merelli. Convincono perché gli attori sembrano matti per davvero: uno con la camminata sincopata, i gesti plateali, la voglia di vita e di evasione; l’altro con i capelli in piedi e la faccia da scienziato pazzo, che gira per le sale dell’ospedale con una scatola di sua invenzione che crede una bomba pronta ad esplodere, ed ogni tanto lo fa, mettendosi, la sveglia che contiene, a suonare; l’altro ancora sordo e muto che però sente e parla e, forse, è ridotto così per le cure a cui è stato sottoposto. Ognuno è là per sua volontà, per farsi curare e sottostare a regole societarie che altrimenti non era in grado di seguire. E grazie a quei volti, Kesey racconta le coercizioni, l’uso e abuso di farmaci, l’uso dell’elettrochoc per fare in modo che le persone stiano tranquille e le cose possano essere comodamente gestite. Bravissima nel ruolo della suora direttrice del reparto Elisabetta Valgoi, intransigente e incapace di accettare altri modi oltre al suo di concepire la vita. Almeno tra quelle mura. L’adattamento del romanzo ambienta la storia ad Aversa, nell’ospedale psichiatrico, nel 1982.

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La forza narrativa dell’autore rimane, e forse prende respiro, grazie a de Giovanni e Gassmann che, ancora oggi, indagano la follia, la prigionia e la libertà, ma anche la solitudine, la malattia, la paura che qualsivoglia avvenimento ci tramuti in quel pazzo, in quel Randle. E che qualcuno ci impedisca di capire, di sentire, di esprimerci. Paure ataviche che vengono fermate, nella trama, da una lobotomia, cioè da qualsivoglia modo di bloccarci le ali e impedirci il nostro volo libero. Da parte di tutti coloro che non vogliono vedere, non hanno tempo per capire, non sono interessati a conoscere e a sentire se non loro stessi. Un lavoro bellissimo, che ha fatto molto ridere il pubblico in sala, quel ridere che soltanto può davvero penetrare ogni sorta di animo umano e arrivare alla riflessione profonda, vera. Tutto aiutato anche dalle videografie di Marco Schiavoni, molto interessanti e capaci di sottolineare la scena ancor più. Efficaci le scene di Gianluca Amodio, con costumi di Chiara Aversano e disegni luci di Marco Palmieri.

Belle le musiche originali di Pivio & Aldo De Scalzi.

Nessun rimpianto per l’adattamento cinematografico di Milos Forman con Jack Nicholson come interprete. Ancora un ottimo spettacolo inserito nella stagione del Sociale di Brescia.

 

Alessia Biasiolo

 

 

Giuseppe Albanese interpreta Beethoven, Schubert e Schumann

albanese-giuseppeLa stagione concertistica organizzata da Roma Sinfonietta presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” avrà uno dei suoi momenti culminanti mercoledì 22 febbraio alle 18.00 con il concerto di Giuseppe Albanese, uno dei pianisti della giovane generazione più richiesti dalle grandi istituzioni musicali di tutto il mondo (Auditorium “Ennio Morricone” della Macroarea di Lettere e Filosofia in via Columbia 1).

Sono in programma tre dei capolavori più famosi non solo dei primi anni dell’Ottocento ma di tutta la letteratura pianistica: la Fantasia in do maggiore op. 17 di Robert Schumann, la Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 2 “Al chiaro di luna” di Ludwig van Beethoven e la Fantasia “Wanderer” di Franz Schubert.

Per questo suo concerto Giuseppe Albanese ha scelto il titolo “Fantasia”, come il disco dallo stesso titolo e con lo stesso programma che nel 2014 ha segnato l’inizio della sua collaborazione con Deutsche Grammophon, l’etichetta più prestigiosa nel campo della musica classica. A questo primo cd è seguito nel 2015 l’album “Après une lecture de Liszt”, interamente dedicato al compositore ungherese. Nel marzo 2016 Decca Classics ha inserito nel box con l’opera omnia di Bartók la sua registrazione in prima mondiale del brano “Valtozatok”.

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Giuseppe Albanese, che ha ora trentasei anni, è nato a Reggio Calabria, ha studiato pianoforte al Conservatorio di Pesaro e all’Accademia Pianistica Internazionale di Imola e si è laureato anche in filosofia. Ha vinto nel 1997  il Premio Venezia e nel 2003 il primo premio al Concorso Internazionale “Vendome Prize”, definito da Le Figaro “il concorso più prestigioso del mondo attuale”. È invitato a dare recital e concerti con orchestra sulle più prestigiose ribalte internazionali e ha suonato in tutta l’Europa, nelle due Americhe ed in estremo oriente.

 

Mauro Mariani

A Sol d’Oro, in corso la sfida tra i migliori extravergine da 10 Paesi

Sfida aperta alla Fiera di Verona tra 300 oli extravergine di oliva provenienti da Italia, Spagna, Croazia, Slovenia, Turchia, Portogallo, Germania, Francia, Cile e per la prima volta Giappone, in gara a Sol d’Oro Emisfero Nord, il più prestigioso concorso internazionale dedicato alle produzioni di qualità.

Cinque le categorie in concorso: fruttato leggero, fruttato medio, fruttato intenso, monovarietale e biologico; tre i premi per ogni categoria: Sol d’oro; Sol d’argento e Sol di bronzo.

Gli oli extravergine, dopo essere stati resi anonimi, vengono giudicati in modalità “blind tasting” da una     commissione di 13 giudici internazionali provenienti quest’anno da Italia, Spagna, Turchia, Tunisia, Grecia, Slovenia. Sol d’Oro è l’unica competizione internazionale ad adottare la degustazione alla cieca; questa scelta operativa e la decisione di avere sempre il medesimo capo panel fin dalla prima edizione del 2002 per mantenere l’uniformità di giudizio rendono il premio particolarmente ambito da chi produce altissima qualità.

Proclamazione degli oli extravergine vincitori e, su invito, degustazione en primeur il 20 febbraio, nel corso della prima edizione degli EVOO Days, il nuovo progetto di Veronafiere-Sol&Agrifood per la formazione e il networking della filiera oleicola. Il forum, patrocinato dall’Accademia dei Georgofili e dall’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio, è realizzato in collaborazione con Teatro Naturale ed è rivolto agli operatori di tutta la filiera. Due i giorni di lavoro (Veronafiere, 20 e 21 febbraio 2017), quattro le sessioni con focus su: tecniche per aumentare la produzione nazionale, qualità degli oli, conoscenza dei mercati esteri e relazione con i buyer internazionali, marketing e comunicazione. Programma e iscrizioni su www.solagrifood.com.

 

Veronafiere