Cento anni di storia della musica e di storia italiana sono sintetizzati in un solo personaggio: il musicista e senatore del Regno Giuseppe Verdi, di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita. La storia ci insegna che le carriere artistiche e politiche non vanno sempre di pari passo, ma, il Maestro di Busseto è l’eccezione che conferma la regola. La sua vita può anzi essere considerata come esempio delle vicissitudini nonché dell’evoluzione propria dell’ottocento. Il caso è molto intrigante e dal punto di vista musicologico è di quelli che ci spingono ad un ricercare sempre più vasto e profondo.
Considerando la vita e le opere del Maestro non si può fare a meno di notare come queste abbiano influito sull’evoluzione storico-sociale dell’Unità d’Italia. È altresì noto quanto alcune produzioni del musicista siano risultate spesso invise alla dominazione degli Asburgo che in quegli anni tenevano sotto stretta sorveglianza tutte le opere artistiche possibilmente nocive all’Impero, censurando senza appello tutte le produzioni vagamente non gradite, arrivando persino a bloccare rappresentazioni già preparate nei minimi dettagli. Così Verdi divenne ben presto un mito risorgimentale, ed il suo nome usato come acrostico dai rivoluzionari patriottici. Infatti, quando si ascoltava il celeberrimo coro del Nabucco veniva spontaneo gridare “Viva Verdi!” sottointendendo con ciò “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”.
Inoltre tutta la forza e lo sviluppo dell’opera italiana del XIX secolo si riflettono nella musicalità del Maestro di Busseto che riprende quel carattere così intensamente e intrinsecamente popolare. d’altronde egli stesso era di origini contadine e mai perderà il suo amore per la campagna. Opere serie come il Nabucco o il Falstaf dipingono in tutte le sue sfaccettature, e con un dinamismo che gli è proprio, quei caratteri peculiari delle genti Italiche, della patria di Mazzini, Garibaldi e Mameli, autore dell’inno italiano.
La vita e la leggenda
Secondo l’uso dell’impero napoleonico che voleva i nomi latini e i documenti ufficiali tradotti in francese, l’oste Carlo Verdi registrò all’anagrafe che il 10 ottobre 1813 era nato il figlio Joseph Fortuninus Franciscus Verdi a Le Roncole, un paesino adiacente a Busseto, in provincia di Parma chiamato dai contadini del luogo in dialetto parmigiano, Roncal. La madre di Giuseppe, Luigia Uttini, era una filatrice locale. La famiglia quindi, sebbene di umili origini, potevadisporre su un certo quantitativo di contanti. Forse più per vocazione paterna che per ispirazione personale, Giuseppe ottenne dal padre una spinetta riparata gratuitamente nel 1821 dall’accordatore Stefano Cavalletti per amore della “buona disposizione” dimostrata dal “giovinetto Giuseppe Verdi d’imparare a suonare questo istrumento”.
Anticipando di gran lunga i tempi moderni il Maestro, ormai affermato, fu un attento PR della propria immagine e molti eventi della sua vita vennero modificati per rispondere alle esigenze auto-pubblicitarie del famoso compositore. Non possiamo quindi delineare precisamente i contorni tra storia e leggenda di molti aneddoti che ci sono giunti.
Tra i più strani e addirittura inquietanti vi è il racconto del prete manesco. Così come in uso per i bimbi, anche Giuseppe era solito servire messa. Un giorno però tardò a consegnare al prete le ampolle di vino e di acqua, distratto dal dolce suono dell’organo. Il celebrante lo spintonò facendolo ruzzolare dai gradini dell’altare. Sbattuta la testa il giovane compositore svenne. Rianimato non pianse ma chiese che gli venisse insegnata musica. Verdi raccontò l’aneddoto aggiungendo di aver gridato al prete, mentre ruzzolava “Dio t’manda ‘na sajetta”. E caso volle che di lì a pochi mesi due dei tre preti presenti sull’altare morissero fulminati mentre celebravano i vespri in una chiesa isolata di campagna.
Di sicuro invece l’organista locale, Pietro Baistrocchi, lo prese sotto la sua ala protettiva e così come era consuetudine nei piccoli centri, fu il suo primo maestro e sostenitore.
Venne ben presto stabilito che Verdi continuasse gli studi a Busseto, presso il canonico Pietro Seletti e l’organista Ferdinando Provesi, sempre seguito dal suo mecenate Antonio Barezzi, proprietario di una distilleria che riforniva l’osteria del padre. Barezzi, da grande appassionato di musica, nonché socio della Filarmonica cittadina, sperava di fare di Giuseppe un buon professionista. Il giovane compositore divenne infatti organista di Le Roncole (oggi Roncole Verdi) e intensificò gli studi.
Nel 1831 andò a vivere a casa del suo mecenate e lì si innamorò perdutamente della figlia Margherita. Proprio per tentare la fortuna e dimostrare le sue capacità, nel 1832 cercò di entrare al conservatorio di Milano ma venne respinto. Aveva superato i limiti d’età e non era cittadino dello stato, così come risulta dagli atti ufficiali; particolari che si sarebbero potuti ignorare comunque in caso di eccezionale talento. Ma Verdi non lo dimostrò, presentando invece lacune tecniche come una “errata posizione della mano” e un deficit di studi contrappuntistici.
Soprattutto con il passare degli anni e con l’acquisizione di un enorme prestigio e ricchezza il ricordo di quell’avvenimento dovette rappresentare per il musicista una sorta di “affronto”, il peggiore che avesse mai ricevuto. Verdi conserverà infatti per tutta la vita il fascicolo riguardante la sua richiesta di ammissione, legato con una fascetta, sulla quale aveva scritto di suo pugno: “fu respinta!“. E l’affermato compositore rese pan per focaccia quando nel 1900 il Ministro della pubblica istruzione, Guido Baccelli, chiese il permesso di intitolare con il suo nome il Conservatorio milanese, ricevendone un gentile ma netto rifiuto: “Non mi hanno voluto da giovane, non mi avranno da vecchio!”
Nonostante fosse stato respinto dall’istituto il buon patron Barezzi si offrì di pagare i suoi studi privati a Milano presso Lavigna, concertatore della Scala. Grazie alla posizione del proprio insegnante all’interno del teatro milanese Giuseppe poté entrare in contatto con il suo grande amore.
Gli anni della formazione di Verdi caddero nel decennio tra il ’30 e il ’40, epoca in cui il teatro musicale italiano si stava emancipando dalla incombente presenza di Rossini. Nel frattempo Bellini e Donizetti avevano dato alla luce i loro capolavori. Abbandonata l’opera seria settecentesca si erano aperte le danze del romanticismo, sia nei libretti che nella struttura delle opere, nel canto legato all’azione impetuosa, alla narrazione, all’emozione. Mentre si assisteva al declino politico dell’Italia e la Lombardia tornava sotto il dominio austro-ungarico terminati gli eccitanti anni napoleonici, il melodramma rappresentava una sorta di transfert nella sfera degli affetti e delle avventure pubbliche, deviando verso la sfera privata, la passione amorosa e le sue trasgressioni, secondo il codice delle convinzioni borghesi.
Verdi inizia a farsi conoscere e ha modo, fortuitamente, di eseguire La creazione di Haydn di fronte alla Società Filarmonica di Milano.
Il teatro e la grande città lo avevano ammaliato e gli avevano dato grandi speranze di successo tanto che non partecipò attivamente ad una enorme disputa politico/sociale partita dalla assegnazione del posto di organista nella chiesa collegiata e di maestro di cappella presso il municipio di Busseto che divise i suoi coincittadini in due fazioni: una che lo appoggiava e una che voleva dare le cariche a Giovanni Ferrari. Alla finevennero divise le paghe e gli impegni e Verdi assunse la nomina di maestro di cappella di Busseto.
Intanto, coronando i suoi sogni, Giuseppe sposa nel 1836 Margherita Barezzi e nei due anni successivi nascono Virginia e Icilio che sfortunatamente muoiono appena compiuto un anno, rispettivamente nel 1838 e 1839.
Nonostante Verdi ne cancellasse ogni traccia per aumentare la propria personale leggenda, pare che la prima opera compiuta fosse Rocester, proposta al Teatro ducale di Parma nel 1837 senza successo.Ma, rielaborato e riscritto ex novo Rocester si trasformò nel grandioso successo, nonché prima opera ufficiale, di Oberto conte di San Bonifacio, presentato alla Scala nel 1839, grazie anche alla spinta di Giuseppina Strepponi, cantante molto in voga al momento.
Nel giugno del 1840 si spegne anche la moglie di Verdi, Margherita, lasciandolo completamente solo. Di lì a poco la sua prima opera comica Un giorno di regno, fu un vero insuccesso. Il sempre attento Giuseppe, divenuto famoso, si raccontò per la sua biografia ufficiale giustificando il fiasco clamoroso con le sciagure familiari che gli erano occorse e racchiudendole nell’arco di soli due mesi luttuosi.
In effetti cadde in crisi creativa e in un completo blocco da cui ne uscì quasi d’incanto quando ascoltò un solo verso, capace di accendere tutta la sua fantasia musicale:
Va’ pensiero sull’ali dorate
una sola frase del libretto Nabucco di Merelli e l’opera diventa leggenda. Anche in questo il Maestro di Busseto si dimostra artefice e allo stesso tempo schiavo del suo tempo dimostrando come nel melodramma italiano i librettisti siano sempre stati di fondamentale importanza per il successo o il fallimento dell’opera.
Distaccandosi dalla rigida struttura compositiva di Donizetti e Bellini, Verdi trova un suo stile, pur nella ristretta libertà data dal pubblico e dal gusto italiano, sempre legato all’accademismo e alieno alla sperimentazione, al quale Giuseppe si piega suo malgrado. La storia della carriera del grande musicista italiano sta tutta in questa dialettica tra la volontà di accettare i modelli e la ricerca di una nuova verità da quegli schemi. Tanto lunga e ricca di esiti alterni questa lotta che lo stesso Verdi chiamerà i 16 anni trascorsi dal Nabucco a I vespri Siciliani gli “anni di galera”, anni di opere scritte ad un ritmo vorticoso rispondendo alle varie esigenze contrattualistiche con i vari teatri. E la prigionia negli schemi finirà proprio quando l’autore si sentirà libero e avrà realizzato esattamente quanto col Nabucco, era soltanto una imprecisa ma irrevocabile intenzione.
Dal 1842 al 1848 il Maestro compone a ritmo serratissimo e a 34 anni ha ormai raggiunto fama internazionale; le sue opere si rappresentano con frequenza ovunque e gli vengono commissionate dai principali direttori artistici italiani. Sebbene non ancora pronto per manifestare la sua idea di teatro, completamente improntata al dogma shakesperiano di “inventare il vero” saggiò, osò, arretrò, ipotizzò l’incomprensione temporanea degli spettatori conciliando la sua drammaturgia alla convenzione e al gusto del popolo.
Il Nabucco fu la prima opera che conquistò tutti perché nata con tono popolare e corale, sostituendo alle passioni melodrammatiche care alla borghesia, una visione monumentale, semplice e austera, profondamente radicata nelle genti italiche. I cori dell’opera, e in particolar modo il “Va pensiero” sono in stile omofono, quando non all’unisono, non rispondono infatti ad una sinfonia teatrale ma riprendono i toni di una canzone. E in quel popolo ebreo, colto nei suoi vari atteggiamenti, dalla pietas all’atterrimento, dall’orrore alla nostalgia ci si rispecchieranno tutti gli italiani oppressi e stanchi. Eppure gli inizi dell’opera furono incerti. L’impresario della Scala, Merelli, accettò l’opera ma a condizione che vi cantasse la Strepponi, ormai in declino ma legata da profonda amicizia a lui, e che si usassero scenografie vecchie per poter risparmiare sui costi. Il pubblico invece fu da subito entusiasta e non apprezzò tanto gli esecutori dell’opera ma la produzione nella sua globalità, cosa rara per l’epoca.
Verdi divenne quindi di moda e salottiero, richiesto da tutti i teatri nazionali e non, sfornando opere non sempre di livello eccelso. Dopo il Nabucco fu l’ora de I Lombardi alla Prima Crociata (che celebra il manierismo verdiano prima che esso abbia modo di formarsi e in cui l’autore concede un bis facendo ripetere nel libretto “Va pensiero” e “O signore dal tetto natio”), anch’essa ritenuta di rilievo nella coscienza risorgimentale in Italia.
Ma di nuovo la leggenda si sovrappone alla storia reale. Va certo detto che Verdi dedicò le opere del Nabucco e dei Lombardi a personaggi di spicco della nobiltà locale come l’Arciduchessa Adelaide d’Austria e la granduchessa Maria Luigia di Parma e che nel 1842 e 1843 i fuochi dell’irredentismo covavano, ma senza fiammeggiare, mentre Verdi era troppoimpegnato nella ricerca musicale per lasciarsene coinvolgere.
Nel 1844 intanto esordisce alla Fenice di Venezia Ernani, tratto da Hugo e rielaborato dal librettista Piave, completamente assoggettato ai desideri del Maestro tanto da esserne l’autore preferito (lo stesso verseggerà anche Rigoletto e La Traviata). Ernani resta il capolavoro degli anni giovanili, poi vi fu un calo fino al 1851 con l’uscita della famosa trilogia. La routine, il ritmo stressante di questi anni di galera e la crisi stessa del melodramma nella sua forma ad episodi, della divisione della partitura tra protagonisti di ugual rilievo e la meccanica librettistica animata dalle passioni romanzesche portarono a opere di non eccelso valore o particolare originalità.
Volendosi allontanare dalla mondanità Giuseppe Verdi nel 1845 comprò a Busseto Palazzo Orlandi. Per concedersi una pausa dagli impegni e nel 1846 fece girare certificati medici per liberarsi dai suoi obblighi contrattuali e si riposò, sebbene non avesse molta fiducia nelle prescrizioni mediche e gli restasse quel complesso da malato immaginario per tutta la vita.
Intanto l’Italia inizia a destarsi. Verdi, a proposito delle Cinque Giornate di Milano nel marzo del 1848, scrive a Francesco Maria Piave: “Onore a questi prodi! Onore a tutta l’Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è suonata, siine pure persuaso, della sua liberazione. È il popolo che lo vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere. […] Sì, sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa ti passa in corpo? […] Non c’è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie delli Italiani del 1848. La musica del cannone!”. E… poco altro. Nonostante il mito creatosi intorno la figura del Verdi rivoluzionario egli non partecipò affatto, neppure in forme indiretta, alla Prima guerra d’indipendenza, e in gran parte del 1848 soggiornò all’estero, soprattutto a Parigi. Diversi, al contrario, sono gli atti di devozione al regime. Eppure molti versi delle sue opere piangono “la patria oppressa” ma , da buon vate, egli poeta e musica e inneggia e spera, guardando da lontano i moti che costruirono l’Italia.
Dopo vari anni passati insieme a Parigi, nel 1849 Giuseppina Strepponi si trasferì nel Palazzo dell’importante Maestro, destando scandalo sia per l’evento in sé che per il passato della cantante, che aveva già una figlia e una rinomata storia con un uomo sposato alle spalle. I due non si erano mai persi di vista, nonostante le diverse situazioni familiari e affettive. Non si sa quando tra i due scoccò la scintilla ma fu indissolubile. Come eterna fu la sua decisione di stabilirsi a Sant’Agata di Villanova d’Adda, in provincia di Piacenza, una residenza di campagna che curò fino alla fine dei suoi giorni, accrescendone le terre (fino a 1000 ettari) e curandole con amore di un contadino; qui trovando la pace per comporre le sue opere più fulgide, come Rigoletto e La Traviata.
Una pagina interessante della vita del compositore è occupata dalla cucina e dai buoni prodotti tipici che egli stesso produceva e di cui si vantava invitando i famosi e ricchi amici, lontano dai ristorantirinomati. La sua stessa Peppina si lamentava spesso di questa sua vita frugale e rustica, arrivando a scrivere a Leon Escudier, editore francese: “Il suo amore per la campagna è diventato mania, follia, rabbia, furore, tutto ciò che voi volete di più esagerato. Si alza quasi allo spuntar del giorno per andare ad esaminare il grano, il mais, la vigna. Rientra rotto di fatica.”
Nel 1850 Verdi si entusiasmò per il dramma di Hugo Le roi s’amuse, destinato a diventare Rigoletto e affidò al Piave il compito di mettere su libretto la storia della vendetta del buffone di corte per l’oltraggio inflitto dal duca libertino alla figlia; vendetta che ricade spaventosa su di lui tra lo scatenarsi degli elementi naturali in tempesta. Ma la censura veneziana non gradì l’opera considerandola immorale e oscenamente triviale. Il compositore sapeva che il dramma di Hugo aveva trovato uguali difficoltà in Francia ma contava di poter usare a proprio favore il suo nome e aveva già chiesto al suo librettista di mettersi letteralmente “a quattro zampe” per ottenere una intercessione da qualche potente dell’epoca: Il miracolo avvenne! Nel 1851, pochi mesi prima della messa in scena Verdi completa la partitura, tanto in ritardo che la “Donna è mobile” venne consegnata al tenore all’ultimo momento, con l’ingiunzione di cantarla solo a teatro per meglio conservare il segreto sull’effetto drammatico della melodia.
Fu un successo pieno. Mantenendo gli schemi il musicista aveva rivoluzionato il teatro intuendo che i personaggi non sono, bene o male , tout court, ma sempre una fusione complessa tra le varie caratteristiche. Lo stesso Rigoletto appare infatti ridicolo e deforme, appassionato e innamorato e il tutto quasi schizzofrenicamente. E sempre al centro della scena, protagonista assoluto, sebbene baritono, infrangendo la convenzionale importanza dei ruoli cantori; mentre gli altri personaggi si riducono a macchiette sceniche appena delineate. Il risultato è tanto drammatico che lo stesso Hugo si dispiacque di non aver la stessa potenzialità espressa dalla musica.
Dalla primavera del 1851 Verdi mette in stesura due opere quasi in contemporanea, sebbene fossero rappresentate , secondo disponibilità teatrali e di compagnia, entrambe nel 1853; in gennaio a Roma ebbe successo il Trovatore e in marzo a Venezia fu un fiasco la Traviata.
Di questo insuccesso lo stesso compositore non seppe dare giustificazione “La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo giudicherà”, scriveva dando la triste notizia del “fiascone e peggio, hanno riso”.
Quello che è sicuro è che gli anni di galera e le opere giovanili e embrionali di Verdi sono ormaiterminati. Certo del suo successo il Maestro può adeguare i suoi tempi e ritmi ai teatri, non viceversa e si sente ormai pronto per rivoluzionare il melodramma, inserendo nelle sue composizioni, invece che singoli episodi rossiniani una unità drammatica, sia di un singolo protagonista come Rigoletto e la Traviata.
Caso a sé il Trovatore che invece ricalca gli schemi del teatro musicale rossiniano come una azione di pregiato virtualismo d’alta classe in cui maturano nuovi equilibri. Risulta infatti una composizione bizzarra e sommaria. La trama presenta particolari a dir poco curiosi e poco razionali o verosimili e moltissime incongruenze. Ma lo stesso notare queste stranezze è indice del cambiamento ormai avvenuto nella concezione della critica e della stessa platea che chiede ad un autore verità e naturalismo.
Il 17 febbraio 1859 Un ballo in maschera andò in scena a Roma, passando il veto censore alla presenza del re umberto I e della regina Margerita nonostante fossero passati 10 anni dal Nabucco il pubblico pronto all’insurrezione riecheggiò le frasi dell’opera corale e usò la voce e il nome di Verdi per affermare la propria speranza in Vittorio Emanuele II, futuro re d’Italia. “Viva Verdi” gridavano dalla platea e scrivevano sui muri, inventando quel gioco di parole usato come simbolo di un sentimento popolare e unitario.
Proprio in quei primi anni di regno italiano Giuseppe Verdi fu deputato fedele di Cavour, dal 1861 al 1865 quando non volle riproporre la propria candidatura, sapendo che era stato troppe volte assente, perso nelle sue continue composizioni tra cui vale sicuramente la pena citare l’Aida, del 1871. Voluta come opera “nazionale” egiziana da Ismail Pascià, portò ad una originalissima interpretazione, in chiave italiana, delle esigenze spettacolari e drammatiche del grand opéra; ancora una volta in questo dramma in musica il conflitto tra il potere e l’individuo porta all’annientamento di quest’ultimo attraverso una caleidoscopica alternanza di esperienze stilistiche, musicali e spettacolari. Fu un successo al Cairo e ancor più a Milano, nella replica del 1872.
A 87 anni, in una stanza dell’Hotel de Milan, nella omonima città, Giuseppe Verdi si spense dopo 5 giorni di agonia. Volle umili esequie e ordinò alla sua unica erede, la cugina Maria Verdi una lunghissima serie di beneficenze.. “Ordino che i miei funerali sieno modestissimi e si facciano allo spuntar del giorno od all’Ave Maria di sera, senza canti e suoni. Basteranno due preti, due candele e una Croce”.
Articolo di Bruno Bertucci