Ravello, perla della Costiera amalfitana

Inizio con questo, una serie di articoli sulle località italiane che si prestano ad una vacanza primaverile o estiva, quando di solito maggiore è il tempo a disposizione per visitarle, ma che sempre costituiscono un vanto per l’Italia. Ottima la recente pubblicità che sostiene il turismo interno, non tanto per questioni di campanilismo, quanto perché, a fronte del previsto aumento del 40% di turismo estero che arriverà nei prossimi mesi nel Belpaese, molti italiani non lo conoscono altrettanto bene.

Così ecco Ravello, che ricordo come ridente cittadina che raggiungi da un posto cartolina come Positano, ad esempio, o Amalfi. Ci si inerpica per una strada panoramica su coltivazioni che sembrano dipinte, e poi si arriva dove non ti aspetti. Già gli antichi Romani avevano trovato ameno questo bellissimo posto, patrimonio UNESCO dal 1997 e nota come “Città della musica”, grazie anche al “Ravello Festival” che ogni anno fa accorrere nella città ballerini e musicisti di prim’ordine a livello mondiale.

A 350 metri sul livello del mare, sopra Maiori e Minori, Ravello gode di una buona ventilazione soprattutto durante le calde estati, e permette una vista panoramica unica sul Golfo di Salerno e il Mar Tirreno in genere.

La leggenda vuole che i patrizi romani che giunsero a Ravello fossero i naufraghi dell’affondamento della loro imbarcazione lungo le coste dalmate, anche se probabilmente qualche villa romana era già presente in loco. Sono molti i belvedere di ville attualmente visitabili o tramutate in alberghi e ristoranti nel corso degli anni.

Sicuramente il palazzo più famoso è “Villa Rufolo”, del 1270 e citata nel “Decameron” di Giovanni Boccaccio, con bellissimi giardini e dimora della famiglia più importante di Ravello, sede del “Ravello Festival”. Sempre duecentesco è il convento fondato da San Francesco, mentre il Convento di Santa Chiara è stato chiuso nel 2021.

Nota è anche “Villa Cimbrone”, ottocentesca, che presenta molti rilievi antichi e bei giardini, con il belvedere “dell’Infinito” a picco sul mare. Ravello è famosa per le sue cento chiese che sottolineano l’importanza della cittadina soprattutto a partire dalla costituzione della Repubblica marinara di Amalfi, avvenuta nell’839, con la costituzione del territorio in Ducato. Intensi erano i commerci con Bisanzio fino a quando i Normanni giunsero a proteggere le famiglie ravellesi per ottenere il controllo di Amalfi. Per volere del figlio di Roberto il Guiscardo, Ravello divenne sede vescovile nel 1086, dipendente direttamente dalla Santa Sede, sempre in contrasto della Repubblica di Amalfi. I contrasti dei Normanni con i Pisani posero Ravello a ferro e fuoco nel 1137, traghettandola per l’epoca sveva e poi angioina, durante la quale l’episodio più noto è la “guerra del Vespro”, del 1282, che minò i commerci sul Mediterraneo per la sua lunga durata. La crisi economica e le lotte interne portarono la popolazione, giunta introno alle venticinquemila persone, a trasferirsi verso la Puglia, mentre iniziavano i contrasti con la vicina cittadina di Scala.

Nel tempo, molti nobili si trasferirono a Napoli, anche se i potenti banchieri del Regno di Napoli, i Rufolo, rimasero a Ravello. Interessante l’azione dei nobili ravellesi intorno al 1583, quando pagarono il Ducato messo in vendita da Maria d’Avalos, vedova di Giovanni Piccolomini, per diventarne possessori e portando quella zona a diventare demanio reale. Durante il dominio dei Borbone, Ravello ebbe un altro momento di splendore, fino alla contestazione dell’unificazione nazionale che portò anche qui qualche fenomeno di brigantaggio. Tuttavia, grazie alla fortunata posizione geografica, Ravello ottenne sempre il consenso e l’interesse dei viaggiatori, come Richard Wagner che proprio a Ravello compose il suo lavoro “Parsifal”, e lo stesso re Vittorio Emanuele III.

Insomma, non mancano motivi di interesse per visitare Ravello. Attendo i commenti dei visitatori che confermino la bellezza di questo autentico gioiello italiano, davvero un Patrimonio.

Alessia Biasiolo

I pastori andarono senza indugio

ANNO A – LUCA 2, 16-21
In quel tempo, [i pastori] 16. andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. Le letture proposte per il primo giorno dell’anno, nella solennità di Maria Santissima Madre di Dio, che, quest’anno, cade di domenica, ci ricordano che la nascita di Gesù ha inaugurato la pienezza dei tempi.
L’Eterno è entrato nel tempo, l’Infinito è entrato nello spazio limitato della nostra terra e nel grembo di una Madre Vergine. Grazie alla disponibilità di Maria Santissima l’incontro tra la divinità e l’umanità viene reso possibile. Grazie al sì di Cristo al Padre e al sì di Maria anche noi possiamo divenire figli nel Figlio.
Nel Vangelo si parla dei pastori che vanno senza indugio a incontrare il Bambino, insieme con Maria e Giuseppe. L’umiltà di Dio che si fa bambino smonta la superbia umana. La povertà del Figlio di Dio spinge a ricercare l’essenziale e a condividere con tutti le ricchezze affinché non ci siano più poveri. La tenerezza infinita del Dio fatto uomo smuove l’insensibilità dei cuori induriti. Il testo scelto per la solennità della Madre di Dio ricorda il rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al Bambino. Viene fatto il collegamento al vangelo proposto nella Messa della Notte di Natale e il rimando implicito a quello dell’annunciazione (Luca 1,31). Pastori: gente del popolo, emarginata, che viveva a contatto con gli animali, loro sopravvivenza. Gente disponibile alla novità del Regno, senza condizionamenti ideologici. Senza indugio: i pastori si affrettano, obbedienti all’annuncio degli angeli che li invitano a rallegrarsi per la nascita del Salvatore. Gli angeli stessi li avevano sollecitati a recarsi a verificare il segno. La stessa sollecitudine dei pastori ricalca la sollecitudine di Maria, che fa visita alla cugina Elisabetta,
partendo “in fretta”. Maria e Giuseppe e il bambino: come segno di rispetto, Luca cita Maria per prima tra i personaggi che i pastori incontrano, segno della sua stima per la Madre di Gesù.
17. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. I pastori ascoltano l’annuncio degli angeli, successivamente si recano sul posto, trovano il segno, lo
vedono, quindi lo annunciano a tutti. ASCOLTARE, ANDARE, TROVARE, VEDERE,
ANNUNCIARE. Cinque verbi della testimonianza. Anche i discepoli di ogni tempo, fatta
l’esperienza, sono chiamati a diffonderla.
“Si stupirono”: quando Dio interviene nella storia l’uomo prova stupore, cioè una meraviglia tanto grande che non si può esprimere, perché dettata da un evento straordinario, che supera l’umana comprensione.

19. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
L’attenzione di Luca si sposta dai pastori a Maria. Maria custodisce gli avvenimenti cercando il senso di quanto avviene e interpretandolo alla luce di Dio. Medita, cioè rimane in silenzio senza ragionamenti, solo lasciandosi penetrare dal Mistero e dalla Grandezza di quanto Dio opera in lei e nel Bambino. Maria ascolta e mette in pratica: lei è il prototipo di ogni discepolo che si mette alla scuola di Dio, senza mai smettere di essere discepolo. ASCOLTARE, OBBEDIRE E AGIRE: chiavi di lettura dell’insegnamento di Maria.

20. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. I pastori tornano indietro, ma la loro vita è cambiata dall’Incontro. Ora sanno di non essere più soli. Hanno un punto di riferimento: il Cristo Salvatore. Per questo danno lode a Dio e lo benedicono perché Egli è vicino a quanti sono semplici, poveri, umili ed emarginati dalla società. La lode è la caratteristica di quanti incontrano Dio e si lasciano attirare dalla sua condiscendenza e dal suo amore.
21. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Secondo la Legge, ogni maschio deve essere circonciso dopo gli otto giorni dalla nascita, come segno di appartenenza al popolo eletto di Dio. In quel momento, viene anche imposto il nome, che costituisce un programma di vita. L’evangelista Luca non si sofferma sulla circoncisione, ma sul valore del nome. Il nome non viene scelto da Maria e da Giuseppe, ma direttamente da Dio e comunicato dall’angelo al momento dell’annunciazione. Impariamo da Maria e Giuseppe l’obbedienza a Dio, anche quando agisce in modo molto diverso dai ragionamenti umani; l’osservanza alle Leggi, quando sono secondo Dio; il silenzio adorante di fronte a ciò che non si comprende; l’adesione concreta e sollecita a compiere la volontà di Dio. Cristo che viene nel mondo è la vera Benedizione di Dio fatta persona. È Lui che ci rivela il Padre e ci fa conoscere il Suo Amore. Ognuno di noi è benedetto da Dio in Cristo. Questa consapevolezza sia
il conforto delle nostre giornate, la luce nel buio, la forza nelle fatiche del cammino, il gaudio del raggiungimento, un giorno, della Patria celeste.
Suor Emanuela Biasiolo

In principio era il Verbo

NATALE DEL SIGNORE – ANNO A – GIOVANNI 1,1-18
1. In principio era il Verbo,
Il Vangelo di Giovanni, proposto in questa domenica, è una delle pagine più belle della Bibbia. È il Prologo che presenta l’origine divina di Gesù, facendo risalire la genealogia alla sua preesistenza presso Dio, diversamente dagli altri Vangeli sinottici.
Nella versione italiana si parla di Verbo, che traduce il greco Logos. Il significato del termine, però, è molto più pregnante rispetto a quello della filosofia greca. È da ricercare in Siracide 24 e Proverbi 8. In questi testi si parla della Sapienza personificata, che è discesa dal Cielo sulla terra. In questo senso, Cristo, Sapienza eterna, ha lasciato la sua dimora nei cieli ed è venuto sulla terra. È al principio di tutto, non creato, esistente prima dell’universo. Egli non è una creatura, ma è la stessa sostanza del Padre Creatore. Gesù è la Parola che è presso il Padre, Dio stesso, Vita e Luce, che ha posto la sua tenda in
mezzo a noi. È il Figlio unigenito, diventato “carne” per narrarci il Padre e restituirci, nel suo, il nostro volto di figli. Gli Ebrei attendevano un Messia liberatore, non il Figlio di Dio. Cristo, invece, viene nel mondo mandato dal Padre, come vero Figlio, Messia secondo il cuore del Padre. e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Questo versetto ci fa comprendere che il Verbo è Dio, ma distinto da Dio. Con l’Incarnazione, la relazione tra Dio e il Verbo diverrà relazione tra Padre e Figlio.
2. Egli era, in principio, presso Dio: Si parla del luogo dove abitava il Verbo. Egli era presso Dio prima che il mondo fosse. Chi accoglie il Verbo si inserisce nel mistero di Dio e nella comunione di amore che intercorre tra le due Persone Divine. “All’origine di tutto non sta la necessità o il caso, la costrizione o la fatalità, l’azione o la produttività: c’è la Parola, che è volontà e razionalità, amore e libertà, comunicazione e ascolto, domanda e risposta”.
3. tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
Il Padre è l’autore di tutto ciò che esiste, ma quanto esiste è stato creato per mezzo del Verbo, senza il quale nulla esisterebbe. La relazione che intercorre all’interno di Dio si esplicita all’esterno, perché l’Amore sboccia al di fuori, è diffusivo, desidera comunicare la sua pienezza ad altri.
4. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; Il Verbo è la Vita e dona la vita, sia quella nel tempo sia quella divina, perché ci rende figli del Padre. Possiamo dire di essere veramente vivi se la nostra esistenza è legata a Dio. Siamo chiamati a vivere in
comunione con Dio fin da questa vita. Per farlo occorre avere la fede, che produce un comportamento coerente con la legge che Egli inserisce nel cuore. “La vita era la luce degli uomini”: la Sapienza è detta riflesso della luce eterna (Sapienza 7,26). Gesù
stesso nel vangelo di Giovanni si definirà in questi termini: “Io sono la luce del mondo chi segue me… avrà la luce della vita (Giovanni 8,12)”.
5. la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Il versetto riporta la contrapposizione tra luce e tenebre, fra bene e male. Gesù ha attraversato la morte, ma non è stato vinto dalla morte. Ha vinto la morte con la sua morte. Noi sappiamo che uniti a Dio nessuna forza contraria ci potrà distogliere da Lui.
6. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Viene presentato Giovanni, che è stato testimone della Luce e che non si è piegato al male. Egli non ha agito in prima persona, ma in forza del mandato di Dio di preparare la strada al Cristo Signore.
7. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo sono chiamati a credere e a riconoscere in Cristo la Luce della Vita. La salvezza è universale. Giovanni apre al superamento dell’esclusivismo della salvezza, ritenuta erroneamente riservata solo al popolo di Israele.
8. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Mentre Giovanni esprime grande stima verso il Battista, ci tiene a precisare che non è lui il Messia, che non è lui la Luce. Addita, invece, in Cristo il vero Salvatore.
9. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. La salvezza portata da Cristo riguarda ogni singolo uomo di ogni epoca e di ogni luogo. Egli è la Luce vera, in contrapposizione ai falsi idoli, ai falsi poteri, alle false illusioni che non appagano l’intima
esigenza dell’uomo di sentirsi amato, di avere uno scopo nell’esistenza, di sapere quale meta lo attende.
10. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Inizia la constatazione amara del rifiuto di Dio da parte del mondo. Le creature non riconoscono il loro Creatore. Le tenebre sembrano vincere sulla luce, ma il male non ha l’ultima parola.
11. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. Giovanni sottolinea che Dio è venuto nel popolo da Lui stesso scelto, il suo eletto, la sua proprietà; ma proprio Israele, suo popolo scelto, lo ha rifiutato.
12. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome. Questo versetto apre alla gioia: qualcuno c’è che ha accolto Dio, che lo ha scelto come il proprio Tutto, che ha sete della Sua Parola. Chi si è aperto alla venuta di Dio e gli ha spalancato il proprio cuore è diventato figlio di Dio, cioè è entrato in una profonda relazione con Dio Padre. Il Dio che Gesù ci rivela è Padre per antonomasia. Dio è Padre che genera per amore creature da amare, non da assoggettare, non da opprimere. Egli ci crea liberi, a sua immagine e somiglianza.
Apriamoci con stupore a considerare la grande grazia che abbiamo: siamo assunti alla dignità di figli, noi che siamo solo polvere e cenere: “Abramo riprese e disse: «Ecco, prendo l’ardire di parlare al Signore, benché io non sia che polvere e cenere” (Genesi 18,27). Chi ha il coraggio di approfondire questa dimensione diventa invulnerabile, pronto ad affrontare ogni prova della vita. La consapevolezza di sentirci amati è il punto di forza del nostro spenderci, a prescindere dai risultati. Dio è con noi, nessuno è più solo.
13. i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. Se accogliamo il Logos, il Cristo, diventiamo figli di Dio. Non siamo più appartenenti ad un particolare popolo, non siamo soggetti alle leggi della natura, ma proveniamo da Dio.
14. E il Verbo si fece carne. Ecco il versetto centrale che parla dell’incarnazione di Cristo. Dio si comunica a noi uomini, a noi creature, e ci rende figli non usando un intervento magico, ma incarnandosi realmente nella nostra natura, così da sperimentare ciò che noi sperimentiamo. Nessuno di noi può dire di essere solo al mondo, nessuno può affermare di non sentirsi capito: Dio è con noi, Dio capisce perfettamente quello che noi proviamo perché l’ha sperimentato.
“Carne”: indica la condizione di debolezza, di fragilità, di miseria che caratterizza la condizione umana. Gesù proprio in questa situazione si incarna per sollevare a Dio tutta l’umanità. È questa nostra
umanità che è amata da Dio. Evitiamo, dunque, ogni presunzione e vanagloria.
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
Il significato letterale è: “e drizzò la propria tenda in mezzo a noi”, in riferimento all’arca
dell’alleanza, che veniva trasportata dal popolo nel suo lungo esodo dall’Egitto. Era la presenza di Dio che si manifestava nella Legge. Ora Dio si rende presente nella carne mortale di ogni uomo, non solo di Israele. Dio è in mezzo a noi in
modo permanente, non in una visita di passaggio. Siamo chiamati a lasciarci illuminare dalla Luce, accogliendo la presenza di Dio e facendo spazio a Lui nel nostro cuore, grazie alla lettura con fede dei segni che Egli ci dona. gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Cristo è la gloria del Padre perché da Lui è stato veramente generato come Figlio unico, irripetibile, unigenito, ricolmo di tutta la pienezza di grazia e di verità. Grazie a Cristo possiamo conoscere il Padre.
15. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me”. Viene chiaramente ripetuto che Giovanni Battista ha dato testimonianza alla Luce, ma non era la Luce, non era il Messia, non era il Salvatore. È al di sotto di Gesù e ne ha consapevolezza da sempre, fin da prima di incontrarlo. La sua testimonianza, però, è preziosa perché si fa garante della verità del Figlio.
16. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Tutti noi, discepoli del Signore di ogni tempo e di ogni luogo, abbiamo ricevuto la partecipazione alla
pienezza della grazia ottenuta da Cristo, una grazia che si sovrappone ad un’altra, un’eccedenza, un fuori misura! Il primo dono è stato la Legge ebraica, il secondo l’Incarnazione del Verbo.
17. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Vengono presentati in parallelo Mosè e Gesù: la Legge e la Verità. Non sono in contrapposizione, ma in progressione, in graduale crescendo, così come non c’è contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento.
18. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. La più grande aspirazione dell’uomo è vedere Dio; il più grande desiderio del credente è vivere in comunione con Lui.
Il Figlio ci ha manifestato l’amore del Padre e ci ha permesso di conoscerlo, fatto che non sarebbe stato possibile a creature umane, deboli e peccatrici.
Ora possiamo fare esperienza diretta del Dio vivente, anche qui sulla terra. Possiamo nutrirci di Lui grazie all’Eucaristia. Valorizziamo i sacramenti e accostiamoci con riconoscenza a questi mezzi della Grazia per poter incontrare veramente Dio, nostra Meta, nostra Pienezza, nostro Tutto, nostra Via, Verità e Vita. L’Inaccessibile è divenuto Accessibile; la Montagna impossibile da scalare, si è piegata alla nostra
piccolezza; l’Ignoto si è fatto conoscere. Possiamo accedere fin da ora nella fede alla comunione trinitaria in attesa di vedere Dio faccia a faccia.
Il nostro volto risplenderà della sua luce e saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è (cfr. 1Giovanni 3,2b). Allora “vedrò te nella tua bellezza e io mi vedrò in te nella tua bellezza. Che io appaia te nella tua bellezza e tu appaia me nella tua bellezza, e la mia bellezza sia la tua e la tua sia la mia; così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza, poiché la tua stessa bellezza sarà la mia” (S. Giovanni della Croce).
Suor Emanuela Biasiolo

Chi si umilia sarà esaltato

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C – LUCA 18,9-14

9. In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: In questa trentesima Domenica del Tempo Ordinario, anno C, meditiamo sulla parabola del fariseo e del pubblicano. L’evangelista Luca rivolge alla sua comunità cristiana di allora e di oggi
l’esortazione a pregare con profonda umiltà, cioè con la consapevolezza di essere poveri, deboli e peccatori davanti a Dio, evitando ogni ostentazione e, soprattutto, ogni giudizio negativo nei confronti degli altri.

10. “Due uomini salivano al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Gesù racconta una parabola incentrata su due personaggi contrapposti: il fariseo raffigura colui che ha eccessiva fiducia nella propria osservanza, che si appoggia alle Leggi minuziosamente osservate; il pubblicano è il modello di chi si affida alla sola misericordia di Dio, supplicato con confidenza. Da una parte c’è il “giusto” che ha un comportamento di vita conforme alla Scrittura, “pio israelita” per eccellenza; dall’altra un uomo disprezzato per la sua condotta riprovevole, amico dei Romani, disonesto e sfruttatore.
“Salivano al tempio a pregare”: al mattino alle nove e il pomeriggio alle quindici si svolgeva la preghiera ufficiale all’interno del Tempio, che rimaneva aperto, però, tutto il giorno per la preghiera privata.

11. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano.
Il fariseo giustamente e con verità manifesta il proprio comportamento corretto e onesto. Il suo errore consiste nell’atteggiamento di giudizio verso gli altri uomini, di cui elenca la miseria morale. Il suo sentirsi superiore a tutti lo rende ingiusto davanti a Dio.

12. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
“Digiuno due volte la settimana”: il fariseo faceva volontariamente due digiuni previsti per il
lunedì e il giovedì, ma non obbligatori, allo scopo di supplire a omissioni o trasgressioni non consapevoli o per espiare i peccati del popolo. Il fariseo si ritiene “bravo” perché non si attiene soltanto alla Legge, ma eccede anche nel compiere azioni meritevoli di plauso.
“Pago le decime”: il contadino aveva l’obbligo di pagare la decima parte del suo raccolto di
frumento, olio e vino, e la tassa sul primogenito del bestiame. Il fariseo era esente dal pagamento delle tasse sulle decime, ma le pagava ugualmente in più per il timore che l’agricoltore, da cui comperava gli alimenti, non avesse ottemperato ai propri obblighi. Questo era l’uso invalso presso i farisei per ritenersi veramente ligi alla Legge.
Purtroppo la scrupolosa e zelante osservanza del fariseo è inquinata dal giudizio negativo e dal disprezzo verso gli altri. Se non stiamo attenti, l’eccessiva fiducia nelle nostre buone opere finisce per emarginarci dai fratelli e dalle sorelle e alimentare il nostro orgoglio spirituale. Non c’è nulla che abbiamo che non ci sia stato dato. Davanti a Dio, è l’umiltà che conta, non l’orgoglioso accumulo di meriti. Impariamo a non condannare gli altri prendendo come criterio di misura la nostra presunta perfezione. Evitiamo di basare la nostra santità sull’osservanza impeccabile dei comandamenti: il legalismo ci impedisce di entrare in comunione e ci fa disprezzare il prossimo.

13. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. L’uomo che si ferma in fondo al tempio non osa nemmeno alzare lo sguardo. Davanti a Dio
riconosce tutta la sua povertà, ammette il suo stato di peccato (non elenca nemmeno le sue mancanze da quante sono numerose), riconosce il male commesso, si batte il petto in segno di confusione, vergogna, penitenza, confessione. L’atteggiamento esterno corrisponde a quello interiore. Supplica Dio perché abbia pietà di lui. Non si scusa, non adduce attenuanti, si rimette completamente alla Misericordia divina.

14.a. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato,
Il peccatore viene “reso giusto”, “giustificato”, non per i suoi meriti, ma per la misericordia di Dio. Il “fariseo che si riteneva giusto” viene escluso dalla salvezza perché si è sforzato di salvarsi grazie alle sue opere, alle sue penitenze, alle sue osservanze. Si capovolgono le posizioni: il “perfetto” viene deplorato, il “peccatore” viene “reso giusto”. Il peccatore avrebbe dovuto fare una lunga penitenza pubblica e restituire molto di più di ciò che
aveva sottratto. Praticamente era impossibile salvarsi, secondo la Legge. Dio, invece, accoglie il suo pentimento sincero e lo “rende giusto”, lo “giustifica”.
“Io vi dico”: con queste parole solenni Gesù introduce la sentenza che proclama il giudizio di Dio.

14.b perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.
“Chiunque si esalta sarà umiliato”: chi enumera le sue opere meritorie e non si accorge del proprio egoistico narcisismo, chi si compiace della sua ligia osservanza, dichiara di non aver bisogno di Dio, perché fa di se stesso un idolo, un dio, un modello da imitare.
Il pubblicano confessa di dipendere dalla misericordia di Dio, che gliela riversa in sovrabbondanza. Scegliamo anche noi di porci nell’atteggiamento di umiltà del povero peccatore che torna a casa sua perdonato. Liberiamoci dall’autosufficienza e dalla ricerca del perfezionismo senza amore, evitiamo di pensare negativamente degli altri, asteniamoci dal condannare i fratelli e le sorelle, soprattutto non riteniamoci mai più santi di loro…
Con umile confidenza, davanti a Dio Padre riconosciamo la nostra fragilità e chiediamo umilmente la Sua Misericordia.


Suor Emanuela Biasiolo

Quando pregate dite “Padre”

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO -ANNO C – LUCA 11,1-13
1. Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Il brano che la liturgia ci offre in questa domenica è un insegnamento sulla preghiera tratto dal capitolo undici del Vangelo di Luca. Gesù insegna a rivolgersi al Padre con fiducia filiale, ad essere insistenti nelle nostre richieste, fino ad essere importuni, ad implorare il dono dello Spirito Santo, senza del quale non possiamo fare nulla.
I discepoli sono attirati dal modo di pregare di Gesù e desiderano imparare a loro volta come pregare. Anche a quel tempo ogni gruppo religioso aveva le proprie preghiere. Sembra naturale che i discepoli di Gesù vogliano conoscere le preghiere specifiche che li identifichi come seguaci di Cristo. Come i discepoli, chiediamo anche noi di imparare a pregare, cioè ad entrare nel dialogo di Gesù con il Padre. La preghiera è un suo dono, non risultato del nostro sforzo. Chiediamo umilmente di imparare a pregare, così impareremo a vivere, perché il nostro modo di rapportarci con Dio si riflette nel modo di rapportarci con i fratelli. Per conoscere quanto una persona è in relazione con Dio, basta vedere come si relaziona con i fratelli. “uno dei suoi discepoli”: il discepolo è indeterminato, quindi ognuno di noi può identificarsi in colui che fa al Signore la domanda di insegnargli a pregare, a Lui che è il solo Maestro interiore.
2. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre, “Padre”: circa centottanta volte nei Vangeli viene riportato questo termine con il quale Gesù si riferisce a Dio. Indica l’importanza del rapporto di Cristo con Dio Padre, rapporto nel quale vuole che entriamo ciascuno di noi. La preghiera insegnata da Gesù ha radici ebraiche, tratte sia da preghiere sia dall’Antico Testamento. Dio era considerato “Padre” in quanto Creatore e Signore del suo popolo e per almeno quindici volte questo termine è presente. “Facci tornare, Padre nostro, alla tua Torah… Perdonaci, Padre nostro…” (quinta e sesta benedizione). “Tu hai avuto pietà di noi, nostro Padre, nostro Re…Padre nostro, Padre di misericordia, il Misericordioso, abbi pietà di noi! (seconda preghiera prima dello Shemà).
Così si esprime Isaia: “Tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (Isaia 63, 16). “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo” (Isaia 64, 7-8). Impariamo ad assaporare questo compendio orante che Gesù ci ha donato, evitando di ripeterlo come un automatismo. Riusciremo a nutrire il nostro spirito e a tradurre nella vita quotidiana nei
rapporti con i fratelli la relazione di amore con il nostro Padre dei Cieli. sia santificato il tuo nome, Il senso di questo versetto sta nel fatto che non chiediamo che l’uomo rispetti il nome di Dio, ma che Dio stesso agisca perché il suo nome venga riconosciuto santo presso gli uomini. Il “Nome” sta al posto di “Dio” perché nel linguaggio ebraico il nome è lo stesso che la persona. La caratteristica specifica di Dio è l’essere “Santo”, cioè Potenza, Vita piena, Amore che si comunica e si dilata. La santificazione del Nome del Padre trova le sue radici in Ezechiele in cui il profeta afferma che è Dio che agisce per la sua gloria e per amore del popolo: “Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati. Annunzia alla casa d’Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati.
Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore – parola del Signore Dio – quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (Ezechiele 36,20-28). Altri testi di preghiere ebraiche: “Santo e terribile è il suo Nome” (Salmo110,9). “Tu sei Santo e il tuo Nome è santo, e i santi ogni giorno ti loderanno. Benedetto sei tu, Signore, il Dio Santo! Noi santificheremo il tuo Nome nel mondo, come lo si santifica nelle altezze celesti (terza benedizione)”. “Sia magnificato e santificato il suo Nome grande nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà” (Qaddish). venga il tuo regno; Con queste parole siamo chiamati ad aderire al disegno di Dio che è sempre di salvezza. Il suo Regno sarà riconosciuto quando Dio realizzerà la sua promessa alla fine dei tempi. Desiderare che venga il regno di Dio significa conformarsi alla Sua volontà fin da ora. Così si legge nelle preghiere ebraiche, da dove ci è giunta questa espressione del Padre nostro: “Egli stabilisca il suo regno nella vostra vita e nei vostri giorni, e nella vita di tutta la stirpe d’Israele, ora e sempre” (Qaddish). “Dalla tua Dimora, Padre nostro, risplendi e regna su di noi, perché noi
attendiamo che tu regni in Sion” (terza benedizione di Shabbat). “Allora il tuo regno si manifesterà ad ogni creatura” (Assunzione di Mosè). “Ristabilisci i nostri Giudici… e regna su di noi, Tu solo Signore, con amore e misericordia… Benedetto sei tu Signore, Re, che ami la giustizia e il diritto” (undicesima benedizione).
3. dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, Dopo le prime tre richieste che riguardano Dio, iniziano le tre domande che riguardano l’uomo. Chiedere il pane significa domandare ciò che è necessario per la vita, per l’esistenza sulla terra. Dopo esserci uniformati alla volontà di Dio, gli chiediamo quello che ci è indispensabile per essere al suo servizio. Non pieghiamo Dio ai nostri bisogni, ma ci affidiamo con fiducia alla sua
Provvidenza: “Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete…” (Luca 12,22). La richiesta è al plurale perché vogliamo che tutti i nostri fratelli siano sazi.
“Ogni giorno”: chiediamo il pane per ogni giorno, e per pane si intende anche i mezzi fondamentali per esistere; non per accumulare ricchezza, ma quanto ci basta per sostentarci.
4. e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
Per essere in comunione con il Padre abbiamo bisogno di accogliere il suo perdono. Se ci sentiamo veramente perdonati da Dio; accolti nella sua misericordia infinita; sorretti dalla sua mano paterna, che sostiene, non umilia mai, che accoglie, non rifiuta mai, diventiamo capaci di donare perdono ai nostri fratelli, di accoglierli, di amarli senza misura, esattamente come fa il Padre nei nostri confronti. e non abbandonarci alla tentazione”.

Gli esegeti ipotizzano che Gesù si riferisse agli eventi della fine dei tempi, in cui avverrà una grande tribolazione. Il male si scatenerà per strappare il più possibile la fede dai credenti, assalto che anche Gesù sperimenterà prima della passione.
Anche noi proviamo la tendenza al male. Per questo invochiamo Dio Padre, perché non permetta che soccombiamo sotto il peso della tentazione, del peccato, della solitudine, dell’incomprensione. È una preghiera per chiedere che la prova non abbia il sopravvento su di noi, sulla nostra debolezza, in modo definitivo, forti della fede che “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via di uscirne, affinché la possiate sopportare” (1Corinzi 10,13). Non smettiamo mai di implorare misericordia e il soccorso del Padre non ci mancherà.
5. Poi disse loro: “Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani,

6. perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”,
Da questo versetto viene introdotta la parabola dell’amico importuno. È l’esempio di un uomo importunato da un amico che, in forza dell’amicizia, non teme di disturbarlo. Il senso dell’ospitalità è molto forte in Palestina. “Se uno di voi”: con questa introduzione, Gesù vuole coinvolgere l’uditorio nel ragionamento. “A mezzanotte”: era uso in Palestina iniziare un viaggio al calare del sole per evitare la calura. È plausibile che una persona cerchi pertanto rifugio la notte. “Tre pani”: è il corrispondente di un pasto per una persona.
7. e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei
bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, “Non mi importunare”: viene fatta l’ipotesi che il padrone di casa non si voglia proprio alzare, ma è solo un’ipotesi, perché sicuramente il sacro dovere di ospitalità avrebbe prevalso su qualsiasi
impedimento. “La porta è già chiusa”: si riferisce alla porta del muro di cinta che circonda la casa, sprangata con una trave di legno o una sbarra di ferro. “Io e i miei bambini siamo a letto”: la casa era formata da una sola stanza dove tutta la famiglia dormiva insieme.
L’insegnamento consiste nel credere che Dio si lascia importunare dalle nostre richieste, perché Egli è l’Amico vero.
8. vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. In questo versetto il padrone di casa non si alza per amicizia e per il dovere dell’ospitalità, ma solo perché il suo interlocutore è molto invadente.
È un invito ad insistere senza mai demordere, perché verremo sicuramente esauditi da Dio Padre. Se un padrone di casa dà il pane a causa dell’insistenza, tanto più Dio, che è Buono, ci esaudirà nei nostri bisogni. Se ci fa attendere è perché vuole che la nostra fede cresca fino a credere in Lui autenticamente, senza bisogno di prove. Per questo spesso sembra assente o in silenzio.
9. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Troviamo dei detti facilmente memorizzabili che spiegano come deve essere la preghiera efficace. Bisogna chiedere, cercare e bussare, consigli in uso già nell’ebraismo. Dobbiamo essere certi che Dio esaudisce ogni domanda e viene in soccorso ai suoi figli. Più siamo nel bisogno, più interviene; più ci facciamo piccoli, più ci prende in braccio; più siamo vuoti dal nostro egoismo, più ci ricolma. La richiesta è il tipico atteggiamento di chi riconosce di aver bisogno; è l’atto del mendicante, che tende la mano; è l’insistenza del bambino che non ha nulla da dare, ma sa di essere figlio e per questo si sente il diritto di essere ascoltato dal padre.
11. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce?

12. O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Il rapporto fra Dio Padre e il credente è figurato da quello del padre umano nei confronti del figlio.
Neppure il padre più cattivo dà cose cattive al figlio. Dobbiamo essere certi che tutto ciò che Dio Padre ci dona è buono. “pesce/serpe – uovo/scorpione”: sono accostamenti assurdi per accentuare che la risposta di un padre non può che essere positiva.
13. Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”.
Gesù ci svela i contenuti della sua preghiera al Padre, perché diventi anche la nostra preghiera. Ci insegna a chiedere il dono dello Spirito Santo, il dono più grande che compendia tutti i nostri desideri. È Lui, infatti, che ci suggerisce le cose buone da domandare con fiducia e perseveranza, e ci fa crescere nell’esperienza dell’Amore Trinitario. Il termine che Gesù usa è “Abbà”, “caro papà”, diminutivo usato dai bambini piccoli nei confronti del proprio padre. Gesù invita anche noi ad usare questo termine con atteggiamento di estrema confidenza. Abbiamo la fiducia che solo Dio può darci “molto più di quanto possiamo domandare o pensare”
(Efesini 3,20), perché è Amore Infinito e non può non donarsi, non amare, non comunicarsi. È insito nella sua stessa Persona il fatto di amare.
In chiave eucaristica, il pane che noi chiediamo è l’Eucaristia, in cui siamo nutriti da Cristo stesso, fortificati dalla sua intima presenza, così che il nostro cammino verso di Lui sia reso veramente possibile. Egli è il pane “sopra-sostanziale” (così traducevano i Padri della Chiesa), il pane “necessario”, è Cristo stesso: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Giovanni 6,51).
Con incrollabile fiducia e insistente perseveranza rivolgiamoci al Padre Buono e attendiamo da Lui di ricevere quanto abbiamo bisogno. Alla fine dei tempi non chiederemo più nulla, perché avremo Dio, avremo “il Tutto”. Saremo nella gioia infinita, che sulla terra possiamo soltanto pregustare.
Suor Emanuela Biasiolo

Seguimi

XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C – LUCA 9, 51-62
51. Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme
In questa tredicesima domenica del tempo ordinario, il Vangelo di Luca ci presenta il viaggio di Gesù verso Gerusalemme e le esigenze della sequela di Cristo.
Sta per concludersi la missione terrena di Gesù. Lo attende la morte, il suo innalzamento sulla croce e il suo ritorno al Padre, che Luca chiama elevazione, assunzione (rapimento).
Nel testo originale, la decisione di Gesù di partire per Gerusalemme è espressa letteralmente con le parole “rese duro il suo volto per partire verso Gerusalemme”, citando il terzo canto del Servo di Jahvé: “rendo la mia faccia dura come pietra sapendo di non restare deluso” (Isaia 50,7). Gesù è determinato ad andare fino in fondo nel suo destino di sofferenza, in modo fermo e irrevocabile, pur di essere fedele al Padre.
Così anche noi dobbiamo “indurirci”, essere determinati nella scelta di seguire Cristo, la sua umiltà, la sua donazione, il suo essere tutto del Padre e tutto degli uomini. In questo contesto, “indurimento” non è egoismo e durezza di cuore, ma fortezza nel perseguire gli ideali e la scelta di vita a cui Cristo ci chiama. “In cammino verso Gerusalemme”: a Gerusalemme si compirà la missione e Gesù è il Pellegrino che torna alla Casa del Padre, il Samaritano che, dopo aver soccorso l’umanità ferita, raggiunge la meta del suo viaggio.
52. e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.
Fra i due percorsi possibili per raggiungere Gerusalemme, Gesù sceglie di attraversare la Samaria, anche se è una regione ostile, invece di costeggiare il fiume Giordano. Gesù manda i suoi discepoli ad annunciare il suo arrivo nei villaggi, in modo che si possa radunare la gente. I samaritani, considerati pagani (provengono da popolazioni straniere che hanno ripopolato la regione durante la prima deportazione del popolo di Israele in Babilonia), non vogliono accogliere Gesù, trattando male sia lui che i discepoli, così come facevano abitualmente con tutti i pellegrini diretti a Gerusalemme. “Mandò messaggeri”: richiama Malachia 3,1: “Ecco, io vi mando il mio messaggero, che spianerà la via davanti a me”, dove si parla dell’angelo inviato a preparare il giorno del Signore. Anche il Battista è stato inviato per preparare l’accoglienza a Gesù: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade” (Luca 1,76).
“Villaggio di Samaritani”: Gesù si è presentato come il Buon Samaritano e, invece, proprio dai Samaritani, gli esclusi dal popolo di Israele, viene respinto e allontanato. Aveva assunto un samaritano come esempio nella sua parabola del “Buon Samaritano”, invece proprio dai Samaritani riceve l’opposizione.
54. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. 55. Si voltò e li rimproverò. 56. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Lo stile mite e umile di Gesù è in contrasto con quello irruento dei discepoli che vogliono intervenire, sull’esempio di Elia: egli aveva invocato il fuoco per divorare due drappelli di cinquanta uomini che il re Acazia aveva mandato per rapirlo e farlo condannare (cfr. 2 Re 1,10). Non così fa Gesù. Egli vuole salvare tutti, anche i nemici. “Giacomo e Giovanni”: i due discepoli sono gli stessi che vogliono i primi posti accanto a Gesù. Attendevano un Messia rivoluzionario, si trovano davanti a un Messia mite ed umile, che perdona e salva, che attende e pazienta, che sceglie l’ultimo posto e non il primo. L’ideologia ebraica voleva un Messia glorioso e nazionalista. Gesù, invece, è un Messia Servo. “Vuoi che diciamo”: i discepoli vogliono in qualche modo difendere il Maestro, ma non hanno capito che Egli sceglie la mitezza e non la potenza, l’umiltà e non l’arroganza, la debolezza e non la forza. “Si voltò”: questo verbo indica che Gesù cammina davanti ai discepoli. “Li rimproverò”: entrare nella logica di Gesù significa lasciare da parte quella umana, basata sulla vendetta, sul regolamento dei conti, sulla ripicca. Il rimprovero di Gesù non è ira, ma è l’accorato appello di un educatore, di una madre, di un padre: vuole far tornare sulla retta via i propri discepoli. “Verso un altro villaggio”: Cristo non si blocca di fronte al rifiuto, continua e persevera nel suo cammino. Cambia solo il luogo di annuncio. È forte nelle prove e non si sgomenta quando subisce incomprensioni.
57. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. 58. E Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Inizia l’elenco delle disposizioni che è necessario avere per seguire Gesù. Vengono presentati tre diversi casi. La prima persona si dichiara pronta a seguire Gesù dovunque vada, ma si rende disponibile senza essere chiamata. Solo l’elezione da parte di Gesù consente di divenire discepoli. Egli è senza
dimora, senza sicurezza, è perseguitato e senza appoggi. La sua condizione di precarietà è peggiore di quella degli animali, che, almeno, sanno dove potersi rifugiare. Gesù proclama con chiarezza le difficoltà del cammino del discepolo. Non vuole “reclutare”, non cerca di raccogliere numeri ingenti di discepoli, non illude e presenta chiaramente la durezza del cammino da intraprendere. Chi vuole seguirlo prima di tutto deve essere chiamato, poi deve accettare la povertà, l’insicurezza, la croce, l’incomprensione, l’umiliazione, il fallimento. Solo così realizzerà il progetto del Padre. Dobbiamo dare ragione della nostra fede, ponendo la nostra sicurezza in Dio, la nostra fiducia nella
sua continua presenza accanto a noi, il nostro coraggio nella sua forza, la nostra gioia nella sua beatitudine.
59. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a
seppellire mio padre”. Il secondo personaggio è chiamato da Gesù stesso, è sua l’iniziativa. L’interlocutore tergiversa, chiede una proroga per poter seguire i genitori. Uno dei doveri più sacri del popolo ebreo è quello di pensare ai genitori fino alla loro morte, come espressione del quarto comandamento.
60. Gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Gesù utilizza un linguaggio molto esigente e radicale per scuotere e per mettere davanti al discepolo la centralità del Regno di Dio, davanti alla quale tutto cade in secondo piano. Siamo chiamati a lasciare il passato, a non fermarci alle ferite che ci hanno segnato, a non farci bloccare dai condizionamenti esterni. I doveri verso i propri familiari passano in secondo ordine; non perché non siano importanti, ma perché ci sono delle priorità.
61. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. 62. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”. Un terzo personaggio chiede di andare a salutare i genitori, forse intendendo un periodo di tempo, ma Gesù non ammette ritardi. Nella sequela è necessario superare la nostalgia, lasciare da parte quei legami che potrebbero impedire di essere totalmente disponibili per il Regno. “Nessuno che mette mano all’aratro”: il versetto si riferisce alla vocazione di Eliseo, chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi. Egli brucia subito il suo aratro e sacrifica i buoi per seguire la chiamata di Dio: “Allontanatosi da Elia, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli
attrezzi per arare ne fece cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio” (1Re 19,21). Gesù è in continuità con la parola dei profeti, ma è più esigente. Siamo chiamati a vivere intimamente la sua vita, a seguire le sue orme, fino alla morte.
Egli ci vuole dietro a sé per condividere il progetto del Padre, per vivere il mistero pasquale nella sua totalità, dalla passione alla resurrezione. Per far questo dobbiamo utilizzare con libertà i beni materiali e le certezze passeggere, allo scopo di conseguire obiettivi che non vengono meno. “Si volge indietro”: per arare un terreno il contadino non può girarsi, distrarsi, altrimenti rovina il lavoro e il solco diventa storto. Altro esempio è anche alla moglie di Lot, in fuga da Sodoma in fiamme: ella si voltò indietro, contrariamente al divieto di farlo, e rimase di sale: “Il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco proveniente dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Genesi 19,24-26).
“Adatto per il regno di Dio”: se abbiamo attaccamenti a cose, persone o al proprio io; se cerchiamo altre sicurezze, se vogliamo la gloria del mondo, non possiamo essere testimoni credibili del Regno. Saremmo come sale senza sapore (cfr. Luca 14,34).
Se superiamo la tentazione di tergiversare, di stare attaccati al nostro passato, di ancorarci alle nostre cose, saremo associati al cammino di Gesù. “Se qualcuno vuol venire dietro me rinneghi se stesso” (Luca 9,23). Questo è possibile solo in un rapporto di grande comunione con il Signore, che ci fa sentire il suo amore e ci appaga nell’intimo. Potremo così vincere il nostro “io”, nonostante ogni tendenza e resistenza contraria.
Gesù è il Figlio obbediente al Padre, che viene a redimere gli uomini. Chiamati a seguire Cristo, impariamo da Lui a essere fermi nella decisione di cercare il progetto di Dio, costi quello che costi. Se scegliamo il Signore, Lui deve essere veramente “il Signore” della nostra vita, non un appiglio a cui aggrapparsi solo nel bisogno. “Mio Dio, mio Tutto”, diceva San Francesco. Sia veramente Dio il nostro Tutto, la nostra Vita, la nostra Felicità. Appagati dal Suo Amore, vivremo donando amore.
Suor Emanuela Biasiolo

Invasione dell’Ucraina. Verona si attiva

Di ora in ora cambia l’agenda istituzionale scaligera. Il dramma che sta vivendo il popolo ucraino colpisce al cuore anche Verona e la città si unisce per la pace, preparandosi anche a rispondere all’emergenza umanitaria.

Il sindaco Federico Sboarina, accompagnato dal vicesindaco Luca Zanotto, dall’assessore Nicolò Zavarise e dal consigliere delegato alla Famiglia Anna Leso, ha incontrato il Vescovo, monsignor Giuseppe Zenti e il direttore della Caritas veronese monsignor Gino Zampieri. Un appuntamento, quello nel palazzo del Vescovado, chiesto con urgenza per condividere un percorso in grado di supportare i cittadini ucraini, sia quelli che vivono a Verona che quanti potrebbero arrivare dal confine. Ma anche per unire la comunità laica e quella ecclesiale in una preghiera per la pace. L’Amministrazione comunale ha dato la propria disponibilità a reperire fin da ora spazi per l’accoglienza di eventuali profughi, assieme alla Caritas diocesana che gode di contatti diretti con la Caritas nazionale e quella dell’Ucraina. E a mettere a disposizione una mediatrice culturale per i bisogni di chi scappa dalla guerra, ma anche gli ucraini che vivono a Verona che sono 651, principalmente donne. “Faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità – ha detto Sboarina -. Se sarà necessario metteremo insieme le forze per rispondere all’emergenza umanitaria. La situazione drammatica vissuta in queste ore dal popolo ucraino è sotto gli occhi di tutti, vogliamo per questo condividere un percorso di pace assieme all’istituzione ecclesiastica. Come fatto durante la pandemia ci affidiamo alla preghiera e anche al lavoro di squadra. Prepariamoci fin da ora ad aiutare i profughi che dovessero arrivare a Verona non solo attraverso i canali umanitari, ma anche da soli, in macchina. Garantiremo spazi per l’accoglienza e l’ausilio di mediatori culturali. Fino a pochi giorni fa le diplomazie erano al lavoro, deve riprendere la ricerca del dialogo per fermare la follia della guerra che ha già fatto vittime innocenti. Quello che sta succedendo alle porte di casa nostra avrà conseguenze dirette molto complicate anche per la nostra comunità, già messa in ginocchio dall’emergenza economica e dai rincari. Questa è una guerra che nessuno vuole e può permettersi, siamo vicini anche alla preoccupazione delle tante donne ucraine che sono a Verona per il lavoro e che adesso hanno mariti e figli in pericolo”. “Le diplomazie hanno sottovalutato quanto stava succedendo – ha detto monsignor Zenti -. Il mondo è un villaggio, se si incendia una capanna tutte le altre sono a rischio. Imperdonabile che un capo di Stato accenda la miccia. Una decisione catastrofica e irrazionale a discapito di tutti, russi compresi. Speriamo riprendano presto le vie della diplomazia, la guerra è sempre iniqua”. “Pronti a sostenere il popolo ucraino che sta soffrendo per la guerra – hanno sottolineato il vicesindaco Zanotto e l’assessore Zavarise -. Di fronte ai carri armati, ai bombardamenti, alle immagini e alle notizie che stanno arrivando in queste ore dall’Ucraina non si può che esprimere un forte sentimento di condanna. Chi è attaccato va aiutato e ci auguriamo che la diplomazia si attivi per fermare il prima possibile la guerra. Come città abbiamo il dovere di metterci a disposizione sin da subito del popolo ucraino, siamo pronti a dare il massimo a sostegno a chi  oggi  sta soffrendo”. “A Verona abbiamo 651 residenti provenienti dall’Ucraina, se allarghiamo alla provincia diventano 1.672, l’80 per cento sono donne che hanno lasciato casa e famiglia per trovare un lavoro – ha aggiunto Leso -. Sono tutte molto preoccupate, anche pensando alle sorti dei loro familiari. Per questo ci stiamo attivando per mettere a disposizione una mediatrice culturale che possa sostenerle in questo momento drammatico”.

Roberto Bolis (anche per la fotografia)

Ogni albero si riconosce dal suo frutto

VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LUCA 6,39-45
In quel tempo, 39. Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Nel Vangelo di questa domenica siamo chiamati a riflettere sulla coerenza che il Signore chiede a noi, suoi discepoli. Egli ci mette in guardia circa i falsi maestri che anche oggi si ergono ad insegnare dall’alto di presunte ideologie innovative e deliranti. Ci insegna a fare autocritica, a prendere consapevolezza del nostro niente, della debolezza delle nostre azioni, dell’incapacità a compiere il bene che vorremmo fare. L’atteggiamento di condanna verso il prossimo è un male da estirpare con forza e con coraggio perché ci allontana dall’amore verso il Padre che ci considera tutti figli suoi e ci distanzia dai fratelli, che non siamo autorizzati a giudicare. “Può forse un cieco guidare un altro cieco?”: secondo l’evangelista Luca, il cieco che pretende di insegnare ad un altro è il cristiano che condanna il fratello, lo giudica e non perdona. Chi non ha sperimentato la debolezza e il perdono successivo alla caduta, non riesce a capire la situazione degli altri. Chi si sente giusto impone pesanti fardelli al prossimo, secondo una giustizia umana rigida e asfissiante. Quando pretendiamo di giudicare il mondo senza capirlo e amarlo, non siamo più luce, né sale, ma severi giudici che non rivelano il volto misericordioso di Dio. Non possiamo nessuno dirci guida di un altro: l’unica Guida è il Signore Gesù, Luce del mondo, Via, Verità e Vita. Possiamo, però, essere un suo riflesso, e, se ci lasciamo toccare dalla Sua misericordia, possiamo donarla agli altri.
40. Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Impariamo da questo versetto del Vangelo ad ascoltare la voce di Dio e la Sua Parola. Non possiamo ritenerci più intelligenti e più capaci del nostro Maestro. Il cristiano, immerso in una società difficile e contraddittoria, è soggetto alla tentazione di credere più giusto percorrere vie diverse da quelle indicate dal Signore. Può pensare che la propria intuizione sia migliore di quella che Egli rivela nel suo Vangelo. Gesù non può che guidarci verso la vera Via e la vera Vita. È necessario fare discernimento e poi affidarsi totalmente a Dio, nella fede. Dobbiamo, perciò, fare un salto, perché Dio ci chiede di cambiare la nostra vita, di donargli quella parte di noi che, invece, vorremmo conservare. Per questo abbiamo bisogno di umile preghiera e di sincera disponibilità a lasciare che Dio intervenga e sovverta i nostri pensieri e le nostre vie, certi che non ci chiederà mai nulla di superiore alle nostre forze.
41. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Luca mette in guardia la sua comunità dal giudizio verso gli altri. Non dobbiamo indagare se gli altri osservano o no la legge. Pensiamo erroneamente che sia la società, la parrocchia, il coniuge, la comunità a dover cambiare. Invece il cambiamento parte da ciascuno di noi. Capita di applicare la Parola del Signore ad una persona che, secondo noi, non la vive. Sappiamo noi quanta fatica sta facendo nel suo cammino? Possiamo conoscere quanto sforzo l’altro impiega per vincere se stesso e per rialzarsi ogni volta che cade? Invece di puntare il dito, cominciamo a pentirci della nostra vita incoerente. Chiediamo allo Spirito Santo di aiutarci a capire quanto dobbiamo cambiare in noi stessi e apriamoci alla sua azione.
42. Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Nel rapporto con i fratelli e le sorelle di fede dovremmo avere una tale confidenza da metterli in guardia riguardo a comportamenti da migliorare. Evitiamo, però, di criticare senza prima fare autocritica, evitiamo di correggere prima di autocorreggerci. L’umile atteggiamento caritatevole vince ogni superba condanna dell’altro. Lasciamoci umiliare, ma non umiliamo mai l’altro. Nella Chiesa, famiglia dei figli di Dio, dovremmo crescere nella correzione fraterna fatta come scambio reciproco di misericordia, nella serena tensione a un cammino di adesione sempre maggiore a Gesù. Spesso non accettiamo i limiti dell’altro, perché non sappiamo accettare noi stessi con i nostri limiti, che vorremmo superare, ma che non siamo capaci di fare. “Ipocrita”: in questo caso il termine indica non “finzione”, ma “protagonismo”: è l’atteggiamento dell’attore che nel teatro greco era il protagonista della scena, utilizzando una maschera che amplificava la voce. È l’atteggiamento del fariseo che, nella parabola di Luca, ritiene di essere “a posto”, a differenza di colui che si batte il petto, riconoscendo il proprio stato di peccato. Il disprezzo dell’altro va contro la misericordia e la bontà di Dio. “Pagliuzza”: il termine gioca sulla somiglianza fra pagliuzza e frutto. Chi osserva la “pagliuzza” (kárphos), non porta “frutto” (karpós). Se condanniamo gli altri, non potremo essere veri figli e fratelli. La misericordia, infatti, consiste nel dare agli altri la vita nuova che Dio ci dà con il suo perdono, la sua accoglienza, il suo abbraccio di ripristino della nostra dignità dopo aver sbagliato.
43. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono.

44. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini,
né si vendemmia uva da un rovo. Gesù utilizza immagini molto semplici che tutti capiscono. La qualità di un albero si evince dal frutto che produce. Gli esperti di scienze naturali sanno capire dai semi, dalle foglie, dai frutti che si trovano per terra quale genere di pianta abbiano davanti. Così noi, se abbiamo sentimenti buoni, se coltiviamo pensieri di bontà e di fiducia, se il nostro comportamento è frutto di assimilazione della Parola di Dio produrremo frutti di vita eterna e saremo testimoni dell’Amore. Le nostre azioni sono espressione della nostra persona, scaturiscono dalla nostra identità. “Albero”: è un richiamo all’albero del bene e del male (cfr. Genesi 3,6), nel paradiso terrestre, che è
diventato un principio della morte. È un richiamo, inoltre, al legno della croce da cui è scaturito il frutto della salvezza, del sacrificio di Cristo. All’albero della morte si contrappone l’albero della vita, che guarisce da ogni male e dà sempre frutti buoni (cfr. Apocalisse 22,1). “Uva”: nel linguaggio biblico l’uva rappresenta la pienezza della vita. Possiamo ricevere solo da Cristo, che è la vera vite (cfr. Giovanni 15,1) e portare, grazie a Lui, frutti. “Rovo”: questa pianta è cara a Luca perché richiama il passo biblico in cui Mosè ebbe la rivelazione di Dio al roveto ardente: “L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!” (Esodo 3,2-4).
45. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Tutti sanno riconoscere se una persona è buona dal fatto che ripete continuamente gesti buoni. Se ci lasciamo possedere dalla misericordia di Dio e dalla sua carità, diventeremo segno della Sua presenza. È necessario che si lasciamo purificare e trasformare il cuore, affinché diventi un cuore di carne, pieno di misericordia verso noi stessi (quanto è difficile perdonare se stessi!) e verso i fratelli che sbagliano: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ezechiele 36,26). Dobbiamo metterci dal punto di vista di Dio, che vede con misericordia ciascuno di noi, che non si spaventa della miseria umana. Egli scruta le intimità dell’anima e sa vedere la possibilità di ravvedimento, di superamento, di conversione che c’è nel profondo di ognuno. Da Lui scaturisce la forza per una novità di vita: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Isaia 43,19). “Ecco, io sono il Signore Dio di ogni essere vivente; qualcosa è forse impossibile per me?” (Geremia 32,27). Non c’è disastro che Dio non possa trasformare in bene.
Se lasciamo fare a Dio, se ci sentiamo accolti, amati, perdonati, rigenerati, se ci affidiamo totalmente a Lui, Egli farà della nostra vita un capolavoro. Dio non è limitato dalla nostra situazione, Egli è onnipotente: “Nulla è impossibile a Dio” (Luca 1,37). Diventeremo alberi buoni che danno frutti buoni perché scorre in noi la linfa della Misericordia di Dio.
Suor Emanuela Biasiolo

Sulla tua Parola getterò le reti

V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C – LUCA 5,1-11
In quel tempo, 1. mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennésaret, Il Vangelo riporta il fatto della pesca miracolosa e la chiamata dei primi discepoli. Luca utilizza il materiale che già si trova nel Vangelo di Marco, ma lo elabora con originalità. Il luogo dell’evento è la città costiera di Cafarnao, che si trova lungo il mare (lago) di Galilea (o di Tiberiade), dove Gesù è ospite di Simone, nella sua casa. La folla fa ressa attorno a Gesù, tanto da opprimerlo. È espressione del mondo che riconosce il suo bisogno di salvezza ed è assetato della Parola di Dio.
2. vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti.
Quello di oggi è un brano parallelo a quello di Marco 1,16-20, però si differenzia perché i pescatori non riparano le reti: non si sono lacerate, perché non hanno pescato nulla.
3. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e
insegnava alle folle dalla barca. Gesù sale sulla barca di Simone (colui che sarà Pietro), si fa trasportare al largo dalla riva. Gesù si fida di Simone. Salire sulla barca è segno di vicinanza e di volontà di stabilire un rapporto, di offrire la propria presenza rassicurante.
Egli è sempre sulla barca della Chiesa, anche in mezzo ai pericoli delle tempeste. Il Signore è con lei e, dal suo interno, proclama la Parola di Dio.
Gesù sale anche sulla barca della nostra vita, se noi siamo disponibili ad accoglierlo.
“Lo pregò di scostarsi un poco da terra”: lo stratagemma di andare al largo consente a Gesù di farsi ascoltare dalla gente assiepata sulla riva.
4. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Gesù impartisce un ordine inconsueto a Pietro: gettare le reti in pieno giorno è assolutamente inopportuno perché i pesci non abboccano con la luce. I pescatori hanno lavorato tutta la notte, hanno sperimentato la vanità dei loro sforzi e ora hanno bisogno del loro riposo. Gesù, invece, ordina di gettare le reti, anche se sono già stanchi e anche se è giorno.
5. Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».
Pietro fa resistenza: da pescatore esperto sa che non si pesca di giorno e che il falegname Gesù non ha nulla da insegnargli riguardo al suo mestiere. Tuttavia fa un grande atto di fede, si abbandona ad un comando umanamente irragionevole e si fida. È il primo atto di fede da parte di Pietro e il primo presentato dall’evangelista Luca nel suo racconto.
“Sulla tua parola getterò le reti”: Pietro fa un grande atto di fede. Obbedisce a un ordine assurdo perché si fida di Gesù. La fede è andare oltre alla razionalità, la supera con la fiducia nella Parola di Dio. Quando Dio ordina qualche cosa sa dove vuole guidare il suo interlocutore e lo sostiene con la sua Grazia.
Crediamo a Gesù anche quando nulla ci farebbe pensare che Egli abbia ragione. Affidarsi a Lui è il segno più grande della nostra fiducia e della nostra confidenza. Abbandonarsi alla sua azione è fonte di pace e lievito che fa fruttificare la nostra vita, che rende abbondante la nostra “pesca”, che rende fruttuoso il nostro lavoro.

6. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
La fede di Pietro ha contagiato anche i compagni di lavoro. Il risultato è strabiliante, la pesca è abbondantissima, le reti si lacerano per l’enorme quantità di pesci, tanto che sono necessari i rinforzi. Pietro dirige il lavoro, altri compagni lo aiutano, altri ancora vengono chiamati successivamente.
La Chiesa è formata da persone con compiti diversi, ma con l’unica vocazione che è quella di seguire Gesù. Solo insieme possiamo testimoniare la fedeltà di Dio alle sue promesse e godere della sua Presenza. Sull’esempio di Pietro, anche noi dobbiamo essere sicuri che insieme con Gesù diventiamo invincibili e che Egli rende possibile l’impossibile.
8. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9. Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto. In parallelo possiamo leggere l’esperienza di Mosè al Sinai. Egli si prostra quando Dio si manifesta nel roveto ardente, che arde e non brucia. È l’atteggiamento dell’orante che si trova di fronte a una
straordinaria presenza divina. Di fronte alla pesca miracolosa, Pietro capisce la distanza che esiste tra Dio e la creatura, tra Gesù e lui, povero pescatore di Galilea. “Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù”: Pietro riconosce la straordinarietà dell’evento e si
getta ai piedi di Gesù per ringraziarlo e, soprattutto, per dichiarare che Lui è l’inviato di Dio. Il suo intervento sovrasta ogni possibilità umana, pertanto riconosce è Gesù è il Signore. “Sono un peccatore”: non significa che Pietro sia un uomo moralmente traviato, ma vuol dire che sente tutto l’abisso della sua debolezza nei confronti della potenza di Dio.
Gesù sceglie Pietro per la fiducia che ha dimostrato. In Pietro sceglie ciascuno di noi. Ci chiede di confidare in Lui e di appoggiarci alla sua forza. Colui che ci chiama è anche Colui che ci sostiene nella missione che ci affida. Sua è la Chiesa, suo è il mondo, suoi siamo noi e Lui è il nostro Tutto. Non sono le qualità umane che ci fanno grandi davanti a Dio, ma la nostra fede in Lui. Evitiamo di sentirci autosufficienti, di basarci sulla nostra intelligenza, di crederci sapienti: in Gesù tutte le categorie umane sono capovolte. Egli può farci ottenere una grande pesca anche dopo una notte infruttuosa. Fidiamoci e, come Pietro, adoriamo in ginocchio il nostro Salvatore.
10. così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Rispetto al Vangelo di Marco, in Luca manca la figura di Andrea. Gesù si rivolge a Simone e gli dà l’incarico di sottrarre gli uomini dal male, di “pescarli” per dare loro la vita. Mentre i pesci fuori
dall’acqua muoiono, gli uomini, fuori dai flutti del peccato, si salvano e vivono. Ecco la missione, che inizia con il mandato: “Non temere!”. Da questo momento la vita di Pietro cambia totalmente. Quando Gesù ci afferra, dobbiamo voltare pagina: non siamo più quelli di prima! Gesù “tira fuori” Pietro e i discepoli da una pesca fallimentare che li scoraggia e li deprime. Successivamente ordina loro di fare altrettanto: “tirare fuori” gli uomini da situazioni di angoscia per portarli alla salvezza. Dopo aver sperimentato la Misericordia, Pietro e gli altri discepoli sono pronti ad annunciarla, a dire che non è tutto perduto quando nella vita si tocca con mano la propria fragilità e/o il proprio peccato. Con Dio possiamo sempre “voltare pagina” e ricominciare una vita nuova. Toccati dalla Misericordia, dobbiamo diventare misericordiosi.

11. E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono. È avvenuto l’incontro di Gesù con Pietro. È avvenuta la trasformazione. Da questo versetto, però, sappiamo che anche gli altri discepoli vengono affascinati dal Signore, al punto che abbandonano tutto per seguire il Maestro. Non sappiamo dopo quanto tempo hanno lasciato tutto; forse hanno
compiuto un processo di discernimento. Quello che importa è che i discepoli hanno avuto
un’esperienza forte nella loro esistenza e dall’incontro con Cristo tutto è cambiato.
Seguire Cristo senza condizioni è possibile quando ci si sente profondamente amati da Lui, quando si ascolta in profondità la Sua Voce che parla nella coscienza. Questa esperienza fa maturare una decisione forte di perseverare fino alla morte nella scelta del Signore, a costo di lasciare le proprie sicurezze, le proprie certezze, le proprie opinioni, la propria cultura. Amati da Cristo, oggetto del suo amore senza misura, crediamo su di Lui, per sempre, con un abbandono totale, frutto di una fede provata, alimentata dalla preghiera e cementata da scelte operative conseguenti al “sì” iniziale.
Pietro ci dice che vale la pena essere tutti di Dio e di gettare sempre la rete anche quando sembra assurdo, perché, sulla parola di Gesù, il risultato è assicurato. E saremo “pescatori di uomini”, saremo persone che trasmettono la salvezza di Dio, perché ne abbiamo fatto l’esperienza, perché abbiamo ottenuto misericordia. Raccontiamo a tutti le meraviglie che ha compiuto in noi!
Suor Emanuela Biasiolo