“An eye on the world”: una conversazione con Paolo Preite

Classe 1985, debutti trentenne – dopo una lunga e appassionata esperienza in Italia e fuori – con Don’t Stop Dreaming. Tre anni dopo arriva An Eye On The World. Quali sono le differenze tra questi due album?

Lavorare su “Don’t Stop Dreaming” per me è stata un’esperienza decisiva… come allenarsi in una grande palestra. Ho passato anni a stretto contatto con il mio produttore Fernando Saunders che mi ha guidato in ogni passo artistico. In “An Eye On The World” invece ho preso io la guida e la responsabilità del progetto ed ho cercato di mettere in pratica tutto ciò che mi era stato insegnato nella precedente esperienza di registrazione.

An Eye On The World mostra una maturazione nell’uso della lingua inglese, nelle sonorità internazionali, anche grazie alla presenza di un nome come Fernando Saunders.

Di sicuro, la mia formazione di cantante, autore e musicista la devo quasi nella totalità a Fernando.

Per quanto riguarda il Sound, devo ammettere che amo la mescolanza di suoni che si ascoltano nei miei dischi, ne escono fuori contrasti e colori stupendi.

Ho sempre visto la “lingua” come un mezzo. Nel mio caso, ho dedicato buona parte della mia esistenza nello studio profondo della lingua inglese e mi trovo tanto a mio agio ad esprimermi attraverso di essa. Anche se devo confidarvi che in questo nuovo Album una delle mie canzoni preferite è in italiano e si intitola “Una Piccola Differenza”.

Di questo tuo secondo disco balza subito all’occhio – e all’orecchio… – la partecipazione di grandi musicisti stranieri, dall’ormai fido Saunders a un gigante come Kenny Aronoff, da Michael Jerome a Bob Malone. Qual è il senso della loro presenza?

Il senso della loro presenza è semplice: hanno un modo di suonare unico che trasmette ai miei brani un valore aggiunto straordinario. Il “solo” di violoncello di Jane Scarpantoni in “Memories and Dust” è qualcosa che mi fa vibrare ogni volta che lo ascolto. Gli arrangiamenti di tastiere di OndreJ Pivec in “It’s not over yet” sono spettacolari. La batteria e le percussioni di Michael Jerome su “I will meet you again” mi hanno consentito di aprire un mondo inesplorato per quanto riguarda la produzione di questo brano.

E potrei continuare ad oltranza… son dettagli che impreziosiscono molto questo mio disco.

Il rapporto con i musicisti stranieri non è nuovo, anzi è una buona prassi dai tempi della PFM in America fino a Zucchero, ma spesso il rapporto non è alla pari. Che tipo di relazione sei riuscito a mettere in piedi con Saunders e gli altri?

Specialmente con Kenny e Fernando c’è molto più di un rapporto professionale come accennavo in precedenza. La loro sincera “Amicizia” mi ha consentito di crescere sia come “Cantautore” che come “Persona”. Anche con il resto degli altri musicisti c’è una grande e reciproca stima, tutto questo enorme lavoro è stato portato avanti con davvero tanta naturalezza ed entusiasmo.

Quanto è stato importante il tour in Danimarca de 2014 per la tua scrittura? Il contatto con l’estero credo sia sempre illuminante, soprattutto per un musicista italiano.

Viaggiare, suonare e conoscere altre culture è ciò che, per quanto mi riguarda, mi tiene vivo. Se non lo facessi, non avrei più nulla da dire.

Tempo fa domandai ad un mio caro amico e poeta di NY quale fosse il segreto della scrittura di Leonard Cohen e lui mi rispose molto placidamente “Vivere”.

Per “Scrivere” bisogna “Vivere” …

La tua Roma invece? Città praticamente decisiva come fonte di ispirazione per tanti maestri e colleghi, lo è anche per te?

Roma mi ha dato la possibilità di conoscere musicisti grandiosi che sono stati fondamentali per la lavorazione di “An Eye On The World” oltre che per la mia attività LIVE. Ringraziandoli di cuore posso senza dubbi asserire che senza Marco Rovinelli, Alessandro Cefalì, Alberto Lombardi e Luca Fiasco in particolare questo Album non avrebbe mai visto la luce.

I testi di An Eye On The World: esiste un tema conduttore oppure ogni brano ha una vita a sè?

Certamente c’è un filo conduttore. È un ambizioso progetto di riflessione, discussione e sintesi. Le canzoni trattano di precarietà, di relazioni umane distrutte dalla parte malvagia della globalizzazione, di una informazione impazzita, di guerre ed allo stesso tempo cercano di riportare l’attenzione su una umanità a tratti smarrita, sulla speranza e su uno spirito di reazione e rivalsa.

Tecnicamente, essendo tu autore di musica e parole, dovresti essere un cantautore, ma la matrice dell’album è palesemente rock e americana. Da che parte pensi di stare?

Non sono d’accordo. Le canzoni partono da me, dal mio sound e dalla personalità che trasmetto nella mia voce e nel mio strumento, tutto parte da lì e sfocia poi in sfumature che vanno dal soul, al rock, dal cantautorato classico al jazz. Nel disco hanno suonato musicisti italiani, danesi, americani, slovacchi, cechi, serbi e ognuno di loro ha portato il proprio background nella mia musica. Tutto ciò mi affascina tremendamente.

Dopo anni di attività, concerti e un secondo album con special guest, non sarebbe più il caso di chiederlo, ma se volessimo rispolverare la memoria a chi ti conosce, o se volessimo offrire dei riferimenti ai neofiti, quali sono i miti, i numi tutelari, i grandi ispiratori di Paolo Preite?

Posso citare forse i primi che mi vengono in mente: Leonard Cohen, Roger Waters, Bruce Springsteen, Gregory Porter, Bob Dylan, Lucio Battisti, Queen, The Who, Warren Zevon, Beatles, The Rolling Stones eeeee potrei continuare per ore ed ore.

Cosa ti aspetti da An Eye On The World?

Sicuramente penso che questo sia un Album di spessore e non di facile ascolto. Se si ha la pazienza e si trova la giusta chiave di lettura credo e mi aspetto che molte persone potranno identificarsi in queste canzoni.

 

Francesca Grispello, Donato Zoppo

Nuovo album per gli Ifsounds

Difficile intervistare gli Ifsounds: ogni album è una novità, un passo in avanti rispetto ai precedenti, ma anche un concept, una narrazione in musica da affrontare con attenzione. Partiamo proprio dal lungo percorso in evoluzione della rock band molisana. An Gorta Mòr è il vostro sesto album: immaginavate anni fa che sareste arrivati a questo punto?

Dario Lastella: In realtà ci speravo, più che crederci. Anni fa lavoravamo come una studio band, anche se poi a ben guardare, spesso i membri della band erano meri esecutori delle mie idee musicali. Questo era un grande limite per la nostra musica e aveva creato una strana comfort zone da cui siamo usciti solo con il radicale cambio di formazione e con la trasformazione in band “vera” e attiva anche live. Tutto ciò è avvenuto a partire dal nostro penultimo album Reset uscito nel 2015 e continua con An Gorta Mór. Solo adesso gli ifsounds stanno diventando quella band che cercavo di costruire insieme agli altri ragazzi da tanti anni.

Reset aveva segnato un cambio di rotta: nuova formazione, taglio più rock, distacco rispetto a certe atmosfere progressive a voi care. È stato solo un episodio isolato?

Reset era un album necessario in quel determinato momento storico della nostra band, ma è anche il lavoro che secondo me rappresenta meno il nostro sound. Proprio quella necessità di “suonare da rock band” ci ha portato a scelte stilistiche lontane dal nostro modo di concepire il rock e il prog rock, soprattutto negli arrangiamenti e nel trattamento della batteria che rispecchiavano il vissuto musicale dell’amico Gianni Manariti che suonava in quel lavoro. La sua presenza è stata fondamentale per dare nuovo slancio al progetto, ma è altresì evidente che Lino Mesina, il nostro nuovo batterista, è molto più vicino alla nostra sensibilità musicale di quanto lo sia Gianni, quindi è stato facile tornare insieme a lui a un discorso più prog. Quindi ritengo Reset un episodio isolato, anche se ci ha insegnato un nuovo linguaggio e un nuovo approccio che hanno ulteriormente arricchito la nostra paletta di colori e che comunque ci sono stati utili durante la composizione, l’arrangiamento e la registrazione di An Gorta Mór.

Ifsounds è una delle poche band italiane a “pensare concettualmente”. Il nuovissimo An Gorta Mòr è un concept, mai come questa volta dal taglio “politico”. Spiegaci tutto.

Era inevitabile. I nostri primissimi album erano disegnati su concept più filosofici e sfumati, a volte troppo. Lo stesso Red Apple era legato al mio romanzo Mela Rossa ed era di difficile fruizione per l’ascoltatore casuale che non avesse familiarità con la storia. Reset, invece, ha una forte matrice autobiografica e dal punto di vista concettuale, oltre che da quello musicale, aveva il compito appunto di resettare il discorso ifsounds e farlo ripartire seguendo una linea più chiara. Da queste premesse nasce An Gorta Mór, un album che ha come filo conduttore la fuga dal dolore. Il dolore può essere una guerra, una famiglia “sbagliata”, la disperazione, la fame. In fondo An Gorta Mór significa proprio “la grande carestia” e fa riferimento all’olocausto irlandese di metà XIX secolo che portò l’isola a perdere circa un terzo dei suoi abitanti tra morti per denutrizione ed emigrati in fuga dalla fame, che scelsero di affrontare viaggi della speranza in condizioni terrificanti per garantirsi un futuro, e non un futuro migliore, intendo dire proprio un futuro. È evidente che 170 anni dopo le cose non sono cambiate molto, ma si sono solo spostate geograficamente.

Dalle Dust Bowl Ballads di Woody Guthrie al rabbioso piglio di Roger Waters, passando per le riflessioni dei Camel di Harbour Of Tears, il tema delle migrazioni è stato affrontato con spirito diverso a seconda della sensibilità artistica e del periodo storico. Qual è la peculiarità della vostra lettura?

Solo a leggere i nomi degli artisti citati arrossisco: magari riuscissimo ad esprimere solo un decimo della loro arte! Il tema delle migrazioni è a me molto caro, tant’è che già lo affrontai in una vecchia canzone (Summer Breeze, pubblicata su Apeirophobia nel 2010). Allora parlavo della mia esperienza di emigrante in giacca e cravatta e cercavo di disegnare un bozzetto psicologico ed emozionale di chi già è costretto a vivere all’estero, come me in quel periodo. In An Gorta Mór mi sono spinto oltre, cercando di descrivere la sensazione di disperazione che porta la persona ad affrontare il viaggio e soprattutto il dolore fisico del viaggio stesso: il viaggiatore di Summer Breeze rifletteva seduto comodamente in un aereo, mentre i tragici protagonisti di Mediterranean Floor e di An Gorta Mór attraversano il deserto a piedi e l’Oceano Atlantico su quelle che in inglese si chiamano “coffin ships”, ovvero “navi-bara”. Ed è questo il punto di partenza del concept: a che grado di disperazione bisogna arrivare per affrontare un viaggio del genere? Nel disco cerchiamo di parlare di questo, ma non solo: un altro brano parla di violenza domestica e delle dinamiche malate che si creano nella vita di coppia, in un altro di una ragazza prigioniera di una famiglia che la costringe a una vita che non sente sua e scappa di casa, in un altro ancora delle seduzioni dei guru digitali che promettono fantastici guadagni su internet per sfuggire a un quotidiano fatto di disoccupazione o di occupazione degradante. Il filo conduttore è quello che in marketing è definito “fuga dal dolore”: per i commercianti è uno dei motori più potenti per la riuscita di un prodotto o servizio, mentre noi con brani di An Gorta Mór cerchiamo di scavare in questo dolore per ritrovare l’essenza dell’uomo.

Un tempo musica e politica, musica e impegno sociale, andavano di pari passo, oggi invece – in tempi di estrema polarizzazione – questo sembra un accostamento pericoloso. Non è ora che il grande rock e i suoi eredi riprendano quei temi?

Sicuramente erano bei tempi per la musica prodotta, anche se all’epoca in Italia si finì con esagerare con la politicizzazione… in fondo siamo pur sempre una nazione di tifosi, qualunque cosa facciamo. Oggi si esagera in senso opposto e la musica mainstream è caratterizzata da un disimpegno totale, o nella migliore delle ipotesi dall’introspezione un po’ finta e ruffiana di certo indie di successo. Il rock-con-un-messaggio non esiste più, forse perché gli artisti hanno troppa paura di esporsi, o forse, come sostengono i critici più acidi, perché non esiste più il rock. Del resto c’è un forte appiattimento della musica soprattutto live verso il fenomeno delle cover band, che asseconda un certo modo “pigro” di pensare da parte del pubblico. Ma la colpa non è del pubblico, bensì della proposta musicale e soprattutto dei grandi media che sono molto più conservatori oggi che 40-50 anni fa: negli anni ‘70 gli Area erano un gruppo molto popolare, nonostante fossero fortemente politicizzati e suonassero musica spesso avantgarde. Oggi una band come gli Area avrebbe un’esposizione e un successo infinitamente minore. Del resto il clima culturale e politico che ci circonda fa davvero paura e noi stessi, che pure non abbiamo certamente un’esposizione mainstream, abbiamo avuto delle riserve sul proporre certi temi: in fondo non è che abbia tutta questa voglia di essere insultato sui social dai famosi leoni da tastiera! Alla fine però è prevalso un certo senso civico e umanistico: io ad esempio non ho mai avuto la tessera di alcun partito, né ho mai fatto propaganda politica per nessuno, neppure a livello di elezioni comunali, ma di fronte a certe tematiche universali ritengo che il dramma dell’uomo debba avere voce. Ovviamente non ho la pretesa di avere io la soluzione ai problemi, non ritengo di essere all’altezza, altrimenti cercherei di entrare nelle istituzioni per risolvere i mali del mondo, ma da artista non posso accettare la deriva di chi percepisce l’altro sempre e solo come un nemico e non più come semplicemente un altro uomo. Credo che questo principio dovrebbe essere banale senso civico, ma oggi sembra quasi un’assurdità.

In tempi di playlist sempre più spezzettate, usa e getta, cosa significa esprimersi nell’ampio respiro del concept?

Significa andare in direzione ostinata e contraria! Lo è fare musica originale prog rock in tempi di reggeaton, cover band e hip hop per adolescenti. Del resto siamo cresciuti in un’epoca in cui avevamo un rapporto quasi viscerale con i nostri miti musicali e con le loro opere. Oggi sarebbe molto più facile avere un rapporto diretto con grandi artisti, ma il pubblico è diventato distratto e un po’ facilone, e il mercato si è adeguato. La nostra speranza è quella di stringere sempre di più il rapporto con un pubblico quanto più simile possibile a quello che voluto avere noi con i nostri miti da ragazzi. Ovviamente è difficile che un ascoltatore casuale, un amante del pop attuale possa soffermarsi o avere interesse nei riguardi degli ifsounds, ma forse a lui non avremmo neppure un granché da dire!

Per questo disco avete potuto contare anche su ospiti di varia estrazione, quali sono i motivi di questa scelta e chi sono gli special guest?

Sono innanzitutto degli ottimi amici con cui da tempo condividiamo passioni musicali. Il primo che voglio citare è il tastierista Lino Giugliano, musicista di grandissimo livello e personalità che dopo le registrazioni di An Gorta Mór ha cominciato a collaborare con la band nei live e che con ogni probabilità entrerà a far parte stabile della nostra formazione. La suite An Gorta Mór è un brano corale con molti personaggi: uno è uno spietato trafficante di esseri umani e lo ha interpretato magistralmente il nostro grande amico Vincenzo Cervelli (Acid Tales, Eva’s Bullet), mentre, parlando di Irlanda e di suggestioni celtiche, non potevamo non pensare ai maestri assoluti del genere, gli Hexperos, musicisti straordinari e ottimi amici; Alessandra Santovito ci ha regalato un cameo meraviglioso con la sua voce incredibile, mentre Francesco Forgione ha suonato per noi il bhodrán. Al violino abbiamo chiamato un giovanissimo talento dal Conservatorio di Campobasso, alla sua prima registrazione rock. Infine va menzionata la partecipazione dell’amico Marco Grossi nel coro finale e il bellissimo lavoro grafico dell’artista Fabienne Di Girolamo, che per la seconda volta ha disegnato per noi la copertina del nostro album.

La vita degli Ifsounds è intrecciata all’attività artistica del suo fondatore Dario Lastella, reduce dai buoni riscontri del libro Mela Rossa. L’ambientazione distopica e anch’essa politica in senso lato quanto influenza il songwriting degli Ifsounds?

Mela Rossa/Red Apple era un progetto molto ambizioso, forse non pienamente riuscito dal punto di vista musicale, ma che dal punto di vista letterario mi ha dato grandi soddisfazioni. Certo che oggi mi piacerebbe ri-registrarlo con la nuova formazione, perché probabilmente la crisi della band e mia personale del 2012 ci ha impedito di ottenere il massimo da quelle composizioni. Per quanto riguarda la relazione tra le tematiche politico-distopiche e la nostra musica devo dire che probabilmente rispecchiano un mio “difetto artistico”: tendo a sentire l’esigenza di scrivere di cose che non mi piacciono e in qualche modo mi angosciano, mentre trovo estremamente difficile scrivere di quanto sia bello qualcosa. Ritengo che la musica e l’arte in genere abbiano anche, se non soprattutto, il ruolo di strumento di denuncia. In questo senso mi sento molto vicino ai Maestri degli anni ‘70, sia italiani che no. E poi, in fondo, quando si vive una bella esperienza è meglio godersela a pieno e non scriverci su una canzone. Personalmente ho sempre trovato estremamente noiose le canzoni che parlano di quanto sia bella la vita con l’amata/o… forse sono solo poco romantico!

 

D.Z., F.G. (anche per le foto)

 

L’embrione degli Ifsounds si forma nel 1993, quando Franco Bussoli, Pietro Chimisso, Claudio Lapenna e Dario Lastella registrano i primi rudimentali demo che alternano proprie composizioni e cover (Pink Floyd, Queen, Police, ecc.). Dopo un decennio di inattività, nel 2004 il gruppo si riforma per registrare In the cave, che nonostante i difetti di produzione traccia un cammino nuovo per la band. Nel 2005 esce if, che riprendee e rielabora alcuni brani scritti nei primi anni di esistenza del gruppo. Nel 2006 il brano I wish raggiunge la prima posizione nella classifica “Classica” di iacmusic.com dove staziona per circa due mesi. You ottiene la nomination per il Golden Kayak Award nella categoria “Easy Listening”.

Nel 2006 esce The Stairway, che ottiene un buon successo di critica e pubblico, tanto che sei brani raggiungono la Top 10 della classifica Progressive Rock di iacmusic.com, con Close your eyes al numero 1. Nel 2008 esce Morpho Nestira. Il consenso tra i fan del prog in tutto il mondo è alto ma a settembre 2009 il gruppo cambia denominazione, da If diventa ifsounds e per lanciare la nuova line-up pubblica il video Midsummer Raving.

Nel 2010 gli Ifsounds firmano per l’americana Melodic Revolution Records e pubblicano la compilation if…sounds, alla quale segue Apeirophobia,. Il disco contiene l’ambiziosa suite omonima, primo tentativo della band con una composizione di tale difficoltà. Apeirophobia ottiene un notevole successo di critica, diventando uno dei dischi progressive rock preferiti dell’anno tra gli ascoltatori, i deejay e i recensori di tutto il mondo. L’album ottiene una nomination come Best Italian Album ai ProgAwards. Aprile è scelta dalla casa discografica There is Hope per la compilation benefica Strength, i cui ricavati sono destinati alle popolazioni del Giappone colpite da un terribile terremoto/tsunami.

Nell’Ep Unusual Roots gli Ifsounds ospitano la leggenda dell’hard rock Phil Naro (Talas, CRISS, Ddrive…) e Andrea Garrison. Nel  2012 è la volta di Red Apple, tratto dal romanzo Mela Rossa di Dario Lastella. Dopo notevoli modifiche nell’organico, la band rinasce con una nuova formazione che nel 2015 pubblica – in versione italiana e inglese, sempre con Melodic Revolution – il sesto album Reset. È un album di transizione con il quale il quintetto prova un linguaggio più smaccatamente rock.

Dopo tre anni e con una line-up parzialmente modificata, Melodic Revolution pubblica l’ambizioso concept sulle migrazioni dal titolo An Gorta Mór, il disco della maturità per Dario Lastella e compagni.

IFSOUNDS:

Runal – Vocals

Lino Mesina – Drums & Percussions

Fabio De Libertis – Bass Guitar

Claudio Lapenna – Piano, Keyboards, Synth & Vocals

Dario Lastella – Guitars, Synth and Vocals

 

 

CANTI FELICE: una conversazione con Luciano Chessa

Luciano Chessa, foto di Melesio Núñez

Com’è strano che per un disco così minimale – voce, chitarre e elettronica ridotte all’osso – ci sia così tanto da dire, ma quando l’autore è una personalità come Luciano Chessa, tutto torna. E torna all’insegna dell’italiano, che non hai dimenticato nonostante tu viva in America da tanti anni.

Peyrano, il disco di canzoni che precede Canti felice, fu registrato a fine anni ’90: prima del mio trasferimento in California. Come ho spiegato già in altre occasioni, smisi di scrivere canzoni perché da una parte mi sembrava avesse poco senso esprimermi in italiano davanti ad un pubblico anglosassone, e dall’altra constatai in prima persona che in Italia i pochi produttori interessati al tipo di musica che io scrivevo non avrebbero potuto pubblicare miei lavori senza un impegno da parte mia a promuovere le uscite discografiche con esibizioni dal vivo. Si sarebbe trattato di un suicidio editoriale, cosa che John Vignola in buona sostanza mi disse per far retromarcia, dopo che aveva espresso il desiderio di pubblicare il mio Peyrano.

In seguito ho riconsiderato queste posizioni. Un primo ripensamento avvenne in occasione di una collaborazione tra me e Vinicio Capossela durante il suo tour in California nel 2009. Per lui feci una revisione dei testi in inglese che lui usava per presentare i vari brani, oltre che la traduzione in inglese della sua Santissima dei Naufragati che poi su suo invito cantammo a due voci (lui in italiano e io in inglese, in eco) al Bimbo’s 365 di San Francisco, lo storico club in cui iniziò la carriera Rita Hayworth (Rita Cansino) e in cui ora cantano Adele e Jill Scott. Cantare in italiano davanti ad un pubblico straniero non sembrava fosse un così grande ostacolo, soprattutto quando introduzioni in inglese ai brani ben fatte (modestia a parte) offrivano al pubblico quel minimo di contesto utile per seguire il concerto ed emozionarsi. Negli anni mi sono poi reso conto che stavo rientrando in Europa per concerti spesso anche tre volte all’anno (ora che mi sto trasferendo a New York queste visite sono destinate ad aumentare); inoltre – questa è forse la ragione più importante – scrivere canzoni mi stava maledettamente mancando.

In questo processo Lapo Boschi di Skank Bloc Records è stato decisamente il principale artefice: è stato lui, tentatore, a riattizzare quel desiderio mai sopito. “Fu come soffiare sul fuoco”: e così dopo avermi prima chiesto di aggiungere almeno un brano originale alla raccolta di outtakes o brani dal vivo del 2014 che è Entomologia (il brano in questione si intitola Sul Viale delle Olimpiadi), e poi suggerito di preparare un altro disco, il fuoco si è riacceso.

Un fuoco riacceso che ti ha consentito di ripartire, evidentemente con familiarità, da un preciso punto.

Mi ha molto sorpreso il fatto che ho ripreso esattamente dal punto in cui avevo interrotto il lavoro in quaderni: testi pronti e mai musicati sono stati musicati (Vedutisti sbiaditi, Se spirasse), testi appena iniziati sono stati stesi integralmente (de Il velo avevo solo il primo endecasillabo, oltre che ovviamente l’idea del brano). Riaprire quei quaderni mi riportava d’incanto alla fine degli anni ’90: al 30 Agosto del 1998, per esattezza: data in cui abbandonai il campo e partii per la California per iniziare il dottorato. Una sorta di Pompei dell’anima in cui tutti i miei sentimenti erano rimasti fissati in quella data e perfettamente cristallizzati: insetti nell’ambra. Eppure in questo processo di completamento (almeno a quanto posso dire), non sento affatto uno iato.

Che differenze ci sono tra i precedenti lavori Peyrano ed Entomologia e il nuovo Canti felice?

Il grosso dei brani di Peyrano e di Entomologia sono stati scritti in una fase in cui mi piaceva lavorare con altri musicisti e avevo un gruppo, e sono stati scritti per il gruppo e con in mente concerti dal vivo. Includono poi le prime canzoni che ho scritto (un esempio è Dubbio). Questa fase costituiva un’antitesi al mondo della musica classico-contemporanea dal quale di fatto provenivo. Si tratta di un percorso non lineare, il mio, come si può notare dando un’occhiata alle date di composizione di alcuni brani (in Petrolio ne trovi scritti nel 1983 e 1987: e quindi brani che precedono le mie prime canzoni, scritte verso la fine degli anni ’80).

Dopo gli anni di Peyrano, e una volta arrivato negli Stati Uniti, l’attività è ritornata sulla composizione sperimentale. E se pure questa attività ha incluso  arrangiamenti di alcune mie canzoni in un contesto da camera o orchestrale (Il pedone dell’aria, Strelitzie…), in questo periodo il lavoro sul contemporaneo ha preso il sopravvento (ho scritto due opere, ho iniziato il lavoro con l’Orchestra of Futurist Noise Intoners, eccetera…).

In un brano di EntomologiaSul Viale delle Olimpiadi – c’è una sorta di anticipazione del clima di Canti felice. E in linea di massima è possibile rinvenire una continuità tra i lavori.

Sul Viale delle Olimpiadi, il brano istigato da Lapo, rappresentava allora una sintesi delle mie esperienze dei 20 anni precedenti: canzoni in italiano + musica sperimentale/contemporanea/ noise. È una sorta di prova generale di quello che sarà il mondo di Canti felice: voci, chitarra e una linea di noise. Unica differenza è che in Canti felice ho deciso di utilizzare un filo di suono elettronico (principalmente sinusoidi e rumore bianco) invece che il violoncello rumorista.

A parte le molte differenze, secondo me vale la pena sottolineare la continuità d’idee. Carpe, per esempio, il brano-manifesto che apriva Humus, o Insetti nell’ambra, o il brano di chiusura Stelleradio, erano già registrati con voci, chitarra e noise (in questo caso realizzato con una chitarra elettrica distorta da fischiare). Sia Humus che Canti felice sono nati in una fase in cui ho preferito suonare da solo, e sono stati registrati nello stesso modo; ciò nonostante, lo sviluppo di idee e temi ha continuato anche in album principalmente registrati in studio con un gruppo, come Peyrano ed Entomologia.

Inoltre Peyrano, composto e registrato negli anni ’90 (e quindi in tempi in cui mostrare un’apertura nei confronti della canzone d’autore italiana veniva – da parte dalle figure più “hard-edge” della scena – considerato alto tradimento) includeva la cover di Ulisse coperto di sale. Brano del periodo d’oro di Lucio Dalla, quello con i formidabili testi di Roberto Roversi, iniziai a suonarlo dal vivo con il mio gruppo dopo aver incontrato Dalla durante i miei anni di Università a Bologna. Le cover di Giurato e Battisti in Canti felice e altre (di Tenco, Bertè (Fossati), Mannoia (Cavallo), eccetera) non incluse nella tracklist finale di Canti felice testimoniano lo svilupparsi di questa mia passione per la canzone d’autore italiana.

Canzone d’autore, ma anche letteratura, penso a La Spendula che evoca elementi dannunziani…

Ho ricomposto Fiori di Plastica, un brano scritto a quattro mani con Marco Pinna, amico e collaboratore dai tempi del liceo, alla luce del mio primo viaggio in Brasile, e ho chiesto sempre a Marco, ora docente di latino, di partecipare alla mia fantasiosa missione: forgiare il “Sassarese illustre” con una traduzione in sassarese di La Spendula. Si tratta del sonetto che Gabriele D’Annunzio stese quando visitò la cascata della Spendula, nei pressi di Villacidro, durante il noto viaggio in Sardegna con Edoardo Scarfoglio (questo ben prima del duello tra i due, in cui Scarfoglio ferì il Vate offeso della parodia della sua Isaotta Guttadauro, che nel Corriere di Roma veniva ferocemente trasformata in Risaotta al pomodauro).

La scelta di D’Annunzio non dovrebbe sorprendere, se si considera che già in Peyrano avevo musicato l’amato Carducci. Ma un poeta vivente non l’avevo ancora musicato: e così la vera novità è per me l’aver musicato Certe volte di Pasquale Panella, testo che lui ha scritto per me ed è a me scherzosamente diretto, ad iniziare dal riferimento alla città in cui ho lavorato per vent’anni, San Francisco.

Eccoci arrivati al titolo, che proviene proprio da Panella!

Nell’anno che ha preceduto le registrazioni, Lapo Boschi mi ha organizzato dei concerti dal vivo. In occasione di un concerto luganese, ho deciso di includere la cover di Vocazione di Enzo Carella. Carella ha un’ottima dizione, ma alcuni termini proprio non riuscivo a decifrarli. E così ho scritto a Pasquale Panella, con cui sono in contatto da oltre una decina d’anni, per chiedere lumi. Pasquale mi manda una missiva alquanto dettagliata in cui non solo mi scioglie gli enigmi, ma mi analizza l’intero testo. Al che io ringrazio e lui replica con un one-liner che recita: «Si figuri: canti felice» (con Pasquale ci diamo del lei, cosa che trovo deliziosamente inattuale). E così nell’immaginare un titolo appropriato per queste 12 canzoni – di cui tre su testi di Panella – lo scanzonato, sfacciato candore di quel congiuntivo esortativo panelliano mi è parso perfetto.

Il lato B di Canti Felice – perchè stiamo sempre ragionando in termini di facciate di una cassetta – è composto da pezzi non tuoi…

Cover collezionate negli anni sono state selezionate: Carella, Battisti, Giurato e due traduzioni dall’inglese (Donovan e Syd Barrett) che mi hanno portato via molto tempo perché mi ero risoluto a rendere non solo il significato, ma anche l’esatta prosodia e perfino i suoni degli originali (con Opel in particolare, il conto era aperto da anni, e credo di averlo finalmente chiuso.)

Nel registrare il materiale, decisi di fare un disco diviso in due lati: uno di brani originali e uno di cover, ma in cui la rigidità di questo schema si stemperasse in echo e rimandi, grazie ad un dialogo tra il materiale stesso (Panella per esempio ricorre in Certe volte, Gabbianone e Vocazione). La scarna semplicità degli arrangiamenti fatti solo di voci, chitarre e sintetizzatore Aardvark disegnato dall’amico Matt Ingalls per iPhone, dona all’insieme l’ulteriore collante.

Gabbianone firmato Battisti/Panella, storico inedito, risalente al 1986. Perchè lo hai scelto?

Perchè è un brano stupefacente eppure a mio avviso non è noto quanto meriterebbe. Purtroppo è relegato nel sottoscala del sottoscala della produzione battistiana. Se il materiale Battisti/Panella è di nicchia, Gabbianone è di nicchia al quadrato. Questo mi intristiva.

La fase “bianca” di Battisti, quella dei cinque dischi con Panella, è ancora oggi oggetto di culto, tu sei uno di quei musicisti che ama in modo particolare i lavori della maturità battistiana. Secondo te quali sono le peculiarità di dischi come Don Giovanni e Hegel?

Come Panella ha notato in un’intervista recente a proposito della copertina, Don Giovanni è separato dai dischi bianchi perché nel disegno di copertina c’è un punto di rosso. Forse è per questo che il discorso di Don Giovanni si sviluppa nel disco stesso, mentre i quattro successivi sembrano fare un discorso loro proprio… Ma mentre scrivo queste parole ripenso alla continuità tra Don Giovanni e l’Apparenza: la centralità della tastiera e le molte parentele, somiglianze… (Equivoci Amici/Per altri motivi), eccetera. E la teoria cede il posto alla vertigine.

Questi dischi sfuggono. Restano in testa, e nel cuore, e ti sfuggono al tempo stesso. Li ascolti e li riascolti all’infinito: una mise-an-abîme. Si sa: gli specchi opposti non si esauriscono mai. E allora perché non immergersi nel piacere di ascoltare questa musica e questi testi accoppiarsi? Mi fa godere quanta cura c’è nel loro lavoro. Un argine che ci ripara dalla sciatteria.

Scrivo e mi viene in mente il nuovo libro di Daniela Cascella, Singed: libro in cui l’autrice cerca di ricordare una canzone tra mille canzoni spazzate via da un incendio che ha bruciato il suo appartamento londinese, riducendo in brandelli centinaia di libri e dischi. La ricerca di questa canzone, presente in maniera ossessionante nella memoria, diventa nel libro un pretesto per mettere in movimento una fascinosa spirale di risonanze e vibrazioni sonico-testuali. La canzone in questione è una delle canzoni chiave di Hegel.

Così accade: si ascoltano queste canzoni, magari anche superficialmente. Ma di colpo ci rendiamo conto che sono parte di noi, e iniziano a mancarci.

C’è anche Il tuffatore di Flavio Giurato…

Scoprii Giurato proprio con Il Tuffatore. Da ragazzino i tuffi erano il mio sport. Mi allenai per competere. Tentavo e fallivo: ma li adoravo. Nel 2007 ho scritto quello che considero uno dei miei più importanti brani pianistici, Louganis, che include il video di Terry Berlier e che ho eseguito in Australia, Argentina, Brasile, allo Stone di New York, per Monday Evening Concerts a Los Angeles… (in occasione del concerto di Los Angeles e della successiva ottima recensione nel LA Times, Greg Louganis – il più grande tuffatore di tutti i tempi e mio idolo negli anni 80 – mi scrisse un affettuoso messaggio di ringraziamento).

Nella nota che ho scritto per accompagnare l’esecuzione di Louganis, sostenevo che i tuffi sono fra le espressioni più belle e più alte che l’umanità abbia prodotto, e che sono perfetta metafora di un ciclo vitale. Tuffandosi si nasce, si muore e si rinasce. Un paio di anni dopo m’imbatto in un brano in cui Giurato scrive «Voglio essere un tuffatore per rinascere ogni volta dall’acqua all’aria». Come poteva NON essere amore a prima vista?

È facile parlare di “lo-fi”, ma qui hai messo in campo una vera e propria “filosofia sonora” che valorizza l’integrità dei brani, ed è stato decisivo per te il luogo dove sono avvenute le registrazioni.

Molto ha giocato l’aver deciso di non registrare questo disco in studio come il mio precedente Petrolio, prodotto interamente nei Fantasy Studios di Berkeley, lo studio dei Creedence Clearwater Revival, e in cui registravano Bill Evans, McCoy Tyner, Isaac Hayes (ma che ha ospitato numerose produzioni italiane di Corrado Rustici degli anni ’80, tra Zucchero e Loredana Bertè).

La scommessa era questa: registrare Canti felice utilizzando lo stesso identico setup che negli anni ’90 usai per registrare il mio primo disco, Humus: stesso registratore 4 piste a cassetta (riparato per l’occasione), stessa chitarra, stesso microfono. È facile nascondersi dietro effetti, e produzioni. Ora come allora ho pensato: se questi brani valgono qualcosa, lo si potrà verificare soltanto se si azzerano i valori voluttuari di disturbo: solo questo potrà darci la misura di quanto si è effettivamente cresciuti. Ora come allora quindi, il fruscìo del nastro, la fragilità della voce, l’imprecisione delle esecuzioni non sono semplicemente una “feature”: diventano bandiera.

Decisivo è stato l’incanto dei luoghi in cui ho registrato: metà dei brani sono stati incisi a Joshua Tree, nel lato Californiano del deserto del Mojave, in un periodo in residenza alla Harrison House; il resto è stato registrato nei boschi di sequoie di Saratoga, sempre in California, in residenza a Villa Montalvo.

Anche Canti felice esce con Skank Bloc Records, ovviamente in cassetta.

Ci dai un tuo parere sulla “scuderia” di cui fai parte e sul supporto cassetta?

Mi piace lo spirito Skank Bloc e mi piacciono le varie produzioni: Insetti nell’ambra, Griselda Masalagiken, DJ Balli…

Nonostante l’etichetta sia parigina, la relazione con Bologna – città natale di Lapo e mia città italiana d’adozione – è centrale, a iniziare dal riferimento degli Scritti Politti. Poi mi piace come lavora Lapo: abbiamo fatto assieme il missaggio di Canti felice e trovo che il metodo di lavoro sviluppato e ora ben collaudato sia ottimo. Abbiamo lavorato in grande sintonia, e a questo punto non vedo l’ora di lavorare ancora ad altri progetti.

Quanto al discorso “cassetta”: il disco è stato registrato in cassetta con un 4 piste della Vestax che possiedo da metà anni ’90. Rimettere queste tracce masterizzate su supporto cassetta concettualmente chiude un ciclo. È stata questa un’idea di Lapo che non mi ha visto per niente opposto. L’umiltà del supporto mi sembra del tutto in sintonia con questa filosofia dell’azzeramento lo-fi quasi francescana: se i brani valgono qualcosa, il valore non dipenderà dalla vanità della veste.

Esistono tanti Luciano Chessa o ti senti sempre lo stesso, sia nel dirigere Lee Ranaldo e la New World Symphony, sia nel suonare chitarra e voce davanti a un microfono?

Io mi sento lo stesso Luciano Chessa. Da un certo punto di vista, tutti i palchi del mondo sono uguali.

 

Donato Zoppo

Land Of Blue Echoes: una conversazione con Marco Ragni

 

Land Of Blue Echoes è il tuo quinto album, che arriva a breve distanza dal precedente Mother From the Sun, addirittura un doppio… che differenze ci sono tra i due dischi?

Ci sono delle sostanziali differenze. Dopo la stesura di Mother from the sun sentivo il bisogno di evolvere il mio modo di comporre. L’unico modo che avevo per farlo era quello di abbandonare per un po’ la mia amata chitarra acustica e iniziare a suonare molto di più le tastiere, il mellotron e il synth, creando così un ambiente sonoro più “space”, più ambient. Molte melodie sono poi nate dal pianoforte e dall’arrangiamento orchestrale.

Una grande mano me l’hanno data tutti gli ospiti presenti, con la loro visione. Ho lasciato piena libertà a tutti i musicisti di esprimersi al meglio, dando solo qualche suggerimento, perché credevo molto nelle qualità di ognuno. Un grosso cambiamento è stato anche avere un batterista e un bassista di “ruolo”. Nei miei album precedenti ho suonato praticamente ogni strumento con il risultato a volte di esser un po’ scontato. In Land of Blue Echoes questa prevedibilità non c’è affatto e spero che anche gli ascoltatori se ne accorgeranno.

Land focalizza la tua attenzione su due grandi amori: il prog-rock da una parte, i Pink Floyd dall’altra. Qual è la chiave per unire questi due mondi, a volte complementari, altre volte conflittuali?

In effetti i Pink Floyd non sono mai stati così tanto prog come l’etichetta vuole… Ma ho sempre amato e amerò la loro capacità di creare melodie accattivanti anche quando componevano brani da 20 minuti. Forse l’unico album veramente progressive di Waters e compagni è stato Atom heart mother… Come ho amato loro, così anche i Genesis o i nostri Banco del mutuo soccorso o Biglietto per l’inferno. La chiave per unire questi miei mondi musicali è la libertà compositiva. Non mi sono mai fatto ingabbiare da schemi e non ho mai voluto replicare un sound piuttosto che un’atmosfera. Ho sempre cercato di rielaborare tutte le mie influenze musicali mettendoci quello che ho nella testa non come musicista, ma come persona.

Mi sono sempre immaginato come un vulcano pieno di mille riferimenti artistici pronto a eruttare nuove canzoni rielaborando ciò che ho ascoltato e ascolto, usando prevalentemente la mia sensibilità. Non so se ci sono riuscito ma spero che si riesca a sentire un sound “Marco Ragni” e non qualcosa che assomigli ad una operazione nostalgica. Fare musica per me è assolutamente vitale. Suono e scrivo canzoni per liberarmi dalle costrizioni della vita e per enfatizzare tutto il bello che mi circonda. Suono per far capire chi sono e per far “viaggiare” tutti gli ascoltatori che vorranno avvicinarsi alla mia musica.

 

Un elemento importante sono i due special guest stranieri, Durga McBroom e Fernando Perdomo. Come mai hai scelto loro e come si è sviluppata la collaborazione?

Durga McBroom è sempre stata un mio pallino… Vidi i primi filmati live dei Pink Floyd quando lei era la corista, nel tour di Momentary lapse of reason. Mi innamorai artisticamente di quella voce così potente ma allo stesso tempo dolce. Fantasticavo che sarebbe stato meraviglioso avere una cantante di quel calibro in un mio album… Un giorno dell’anno scorso dissi a mia moglie: “Sai che faccio, io provo a spedirle dei brani e a chiederle se vuole cantare nel mio disco, male che va mi dice no.” E così trent’anni dopo quel tour, grazie ad amicizie comuni, ho avuto l’opportunità di far sentire alcuni miei brani a cui stavo lavorando proprio alla mia corista preferita. Le ho scritto e le ho chiesto che cosa ne pensasse e se avesse il piacere di cantare nel mio nuovo album. Lei è rimasta entusiasta delle atmosfere create in Nucleus, la suite da 22 minuti scritta proprio pensando alla sua voce, così abbiamo iniziato a collaborare.

Le sessioni di registrazione sono avvenute al Reseda Ranch Studios di Los Angeles dell’amico Fernando Perdomo, che subito dopo mi scrisse che quel brano gli piaceva da matti! Io lo avevo sentito suonare nell’ultimo album di Dave Kerzner e mi piaceva molto il suo stile un po’ latino e un po’ anni ‘70 , così quasi per scherzo gli ho chiesto se volesse suonare una canzone che avrei composto proprio per la sua chitarra e la risposta è stata talmente entusiasta che subito mi sono messo a buttar giù qualcosa che potesse mettere in risalto le sue doti di solista, ed è nata Money doesn’t think, un pezzo tra gli Alan Parsons Project e Santana, con una spruzzata di funk. Il risultato finale è stato travolgente e gli oltre 2 minuti e mezzo di assolo di Fernando, memorabili!

Non dimentichiamo l’apporto di Peter Matuchniak, Jeff Mack, Colin Tench, Vance Gloster e Hamlet.

Tutti miei compagni di etichetta, musicisti sopraffini e persone gentilissime oltre che ottimi amici. Ho sempre amato le collaborazioni, così anni ‘60! E devo dire che come mai negli album precedenti in questo nuovo disco ce ne sono state parecchie e tutte meravigliose. Peter ha dato un tocco British con la sua chitarra a metà strada tra Steve Hackett e John Petrucci, suonando gran parte del disco. Colin dei Corvus Stone appare solo in Between moon and earth ma lascia comunque il segno con il suo gusto molto personale. Jeff, bassista molto quadrato e fantasioso, ha dato compattezza alla sezione ritmica anche lui suonando quasi tutto il disco. Poi Vance, ottimo tastierista con un paio di parti all’organo e al synth, Hamlet che suona il basso e le tastiere nel brano di chiusura Queen of blue fires. Ultimo ma non ultimo il batterista Jacopo Ghirardini, amico di vecchia data nonché membro negli anni ‘90 di alcune mie passate formazioni con la sua non convenzionale batteria.

Ospiti a parte, il grosso di Land Of Blue Echoes è realizzato tutto da te: scelta artistica o economica?

È assolutamente una scelta artistica. Per anni mi sono dovuto accontentare di essere parte di qualcosa, non esprimendo mai a pieno le mie potenzialità e la mia voglia di sperimentare cose nuove. Non sono mai riuscito con una vera e propria band ad avere il suono che avevo in mente, così un giorno ho deciso che era meglio per me fare da solo e eventualmente trovare dei bravi session man che mi potessero dare una mano dove io mancavo. Questa scelta ha fatto si che io sia anche riuscito ad ottimizzare molto i tempi e a registrare 6 album in 6 anni, cosa impossibile con qualsiasi altra formazione io abbia avuto. Ciò non toglie che il desiderio di avere una band tutta mia sia sempre presente, magari solo per il live.

Sei lontano da certe dinamiche della discografia italiana e la tua musica ha un respiro internazionale: quali difficoltà incontra un autore nostrano che voglia farsi ascoltare all’estero?

Non ho mai amato particolarmente la musica di casa mia. A parte i grandi gruppi prog degli anni ‘70 e qualche stella come Battisti, Gaber o Rino Gaetano, non ho mai sopportato tutta quella musica esistenzialista anni ‘90 e la musica leggera dagli anni ‘80 in poi. Non è stato difficile per me avere un respiro internazionale vista la mia profonda passione per tutta la musica d’oltremanica e oceano. Le difficoltà sono le stesse che affronta un cantante di musica leggera “Sanremese”, immagino. Non ci ho mai pensato perché non ne ho mai fatto un cruccio. Se posso essere ascoltato ovunque ben venga! Non ho mai amato le gabbie…

Nella seconda metà degli anni ’80 debuttasti con due album all’insegna della psichedelia, che però consideri una sorta di “antefatto” alla tua discografia ufficiale, come mai?

Ero alle prime armi e anche il mio inglese lo era! Oltretutto la qualità audio (registrai con un 4 tracce della Fostex) non era proprio il massimo. Qualcosa di buono c’era ma non così buono da metterlo sul mercato. Fu divertente però scoprire che si poteva fare psichedelia anche solo con una chitarra, una cassetta Basf da 60 minuti e un 4 tracce con la possibilità di registrare un assolo al contrario come in Sgt. Pepper o Are you experienced?

A proposito di psichedelia e underground anni ’60, queste sono due componenti forti della tua musica. Secondo te cosa resta di quella cultura nella musica di oggi?

Difficile dirlo… C’è molto di quella cultura in molti dischi underground di oggi ma non capisco se sia una forzatura discografica o semplicemente un ritorno di mode dal passato. Di sicuro non c’è più nulla o quasi di tutto quello che riguarda la controcultura hippie e il movimento giovanile di allora. Ma si sa, ogni generazione è figlia del momento storico in cui vive e oggi abbiamo gli smartphone e i social. Credo che alla fine sia giusto così. Questa è l’epoca delle tribute band, dei remake cinematografici e della tv spazzatura. Chi vuol sopravvivere a tutto questo deve anche assolutamente accettarlo.

Cosa ascolta di solito Marco Ragni? Anche proposte musicali contemporanee?

Ascolto molto underground perché credo ci sia ancora voglia di sperimentare e perché c’è sempre qualche spunto interessante da far mio. Una band che mi ha entusiasmato dal vivo e che mi piace molto sono i texani Midlake. Niente male anche i War on drugs o Jonathan Wilson (che mi piacerebbe avere nel prossimo disco!). Vado matto per i vecchi Ozric Tentacles, i Porcupine Tree fino a Lightbulb sun e ovviamente non manco mai di farmi un salto dalle parti di Haight Ashbury per ascoltarmi i Grateful o i Jefferson Airplane oppure nella Swinging London. Adoro anche tutta la black music. Invece non ascolto mai Heavy metal e hip hop. Troppo duri per i miei gusti.

Land Of Blue Echoes calcherà i palchi? Cosa succederà prossimamente?

L’idea sarebbe quella di calcarli eccome! Purtroppo c’è una sempre maggiore difficoltà a trovare date, soprattutto qui da noi. Ecco perché sto preparando insieme ad alcuni musicisti un DVD live che vedrà pezzi di Mother from the sun e Land of blue echoes, mescolarsi ad altri più vecchi del mio repertorio da solista. L’idea è quella di trovare un’agenzia di booking e provare a girare l’Europa. Poi c’è un sogno nel cassetto che magari vi svelerò a cose fatte…

Marco Ragni’s musical history dates back to 1975, when, at the age of 6, he discovers his passion for music by asking   for a Farfisa keyboard as present. The love of singing comes only later, fascinated by the vocal harmonies of the Fab Four, the Beatles. At the age of 17, attracted by the California hippie scene of the late sixties and the sound of Pink Floyd and all progressive rock of 70s, he recorded his first tracks of psychedelic music, and his early records, including “Kaleido“(1987) and “Illumination“(1988).

In 1990 he joined the band Deshuesada, which will deeply mark his artistic evolution, leading to the recording of 2 albums of psychedelic pop and to several gigs in Italy from 1992 to 1998. After a couple of years as a soloist, albeit  without significant productions, in 2000  he was approached by a rock band, the Quartafila, which later changed its name to Heza. Three studio albums, a  recording contract with the Red Led and many gigs, resulted in a significant leap in quality.

From 2006 to the end of 2008 he plays with the Mokers, a funk  psychedelic rock band and he records an album called “Don’t forget the music”. In January 2009 he decided to launch his solo career, having gained sufficient experience in both music composition and singing. He dove into the study of new recording techniques and honed in his artistic skills. After having composed about a hundred songs, he decided to found a record label conveying all his musical ideas. In late summer of 2009, Crow Records, his independent label, was born and in the spring of 2010 he released his first solo album “In my eyes” containing 14 psychedelic pop tracks. A live albumMarco Ragni Live at the House of Thunder” comes out in August 2010, recorded in Switzerland and performed with his band  called Velvet Cactus. Tireless and visionary, 4 months after the release of the album, he begins to work on a new trip titled “1969” released in the fall of 2011. In the same year he also specializes in graphic, realizing many of his videos and cover albums.

In the summer of 2012 after some gigs, he released “Lilac days Ep”, 7 tracks of pure modern psychedelic rock, winking to his beloved San Francisco. On September 2012 to celebrate his solo 10 years career he produces an album compilation called “Psychedelicious” containing some previously unreleased material, b-sides and singles. A new live project called “Think outside the box” will keep him busy until the end of the year and from this tour will be released on March 2013 a Radio live album called “On air”, with the amazing collaboration of the Joe Cocker’s chorister Pamela Anna Polland, who will record a new 1969’s “Are you there?” version. In June 2014 he signs a multi- year contract with the American label Melodic Revolution Records and he records his first rock opera entitled “Mother from the sun”, a double concept progressive rock album, with the collaboration of the writer (and his wife) Alessandra Pirani, the chorister Pamela Anna Polland and other great guests, as Giovanni Menarello, Enrico Di Stefano, Enrico Cipollini e Luigi Iacobone released on December 2014. During the whole 2015 he plays the acoustic version of the new album with his friends and guitarist, Giovanni Menarello. At the same time he composes a new album between September 2015 and January 2016 called “Land of Blue Echoes” featuring Durga McBroom, vocalist of Pink Floyd from 1987, Fernando Perdomo guitarist of Dave Kerzner Band, Peter Matuchniak from Gekko Project, Colin Tench from Corvus Stone and other great guests from the world progressive rock scene. The album comes on March 21st, 2016.  Waiting to a new live tour to promote the new album, he collaborates with his guitarist and friend, Giovanni Menarello, writing new songs and live repertoire.

F. G.

Plurima Mundi: l’intervista

 

Vi abbiamo incontrato per la prima nel 2009, con un debutto già molto ispirato: Atto I. Dopo otto anni, Plurima Mundi torna con Percorsi. Cosa è accaduto in questa lunga pausa di tempo?

Massimiliano Monopoli: Prendendo spunto dal titolo, è trascorso un lungo periodo di tempo in cui sono accadute diverse cose: da vicende personali a riflessioni infine l’effettiva ripresa del gruppo, soprattutto live, che è cominciata nel 2013. Da allora ho buttato giù un po’ di idee in modo quasi sequenziale, nel senso che, quando un brano era finito, si testava dal vivo e poi si cominciava con altro. È stato un percorso che, con il passare degli anni, ha definito delle coordinate da seguire e nonostante qualche avvicendamento e cavalli di ritorno, non ha influito più di tanto sul risultato finale di cui, personalmente, sono soddisfatto così come gli altri elementi del gruppo.

Percorsi è un disco di grandi novità. La prima è quella umana: Plurima Mundi ha un nuovo organico, con musicisti di diversa età ed esperienza, ma accomunati tutti da una notevole musicalità.

Mi piace molto il sound prodotto da questa formazione che si è “fortificata” con l’andare del tempo. Della prima siamo rimasti io (violino elettrico, compositore dei brani), Grazia Maremonti (voce) e Massimo Bozza (basso). Nel 2014 è arrivato Silvio Silvestre alla chitarra, seguito da Lorenzo Semeraro al piano. Questo è il gruppo di persone che suonano insieme da qualche anno a cui, nel 2016, si è aggiunto Gianmarco Franchini alla batteria. Spero che questa formazione possa durare nel tempo sino al prossimo lavoro, che sicuramente sarà realizzato non facendo passare altri otto anni!

La seconda novità di Percorsi è il coinvolgimento di una scrittrice: i testi infatti sono opera di Maria Giuseppina Pagnotta. Come mai questa scelta?

Una bella coincidenza, una conoscenza inaspettata. Conobbi Maria Giuseppina nel 2012 quando stavo cominciando a pensare alla realizzazione di qualcosa di nuovo. Già dal primo incontro, leggendo alcuni suoi scritti, mi sentii “riflesso” in quello che aveva realizzato e mi piaceva molto la semplicità con cui raccontava il suo mondo, il suo modo di vedere ogni cosa. È stato spontaneo e naturale chiederle di scrivere i testi dei pezzi che avevo in mente. Abbiamo lavorato molto bene, con grande entusiasmo e posso dire che il suo lavoro ha dato “la parola giusta” ai brani che stavo componendo.

Ai tempi d’oro del progressive, la partecipazione di figure ad hoc per i testi (pensiamo a Pete Sinfield) indicava una grande attenzione al dato testuale e letterario. Quali sono i contenuti di Percorsi?

Considero Percorsi un lavoro molto personale, nel senso che ogni brano ha una sua storia riguardante qualcosa di realmente accaduto. Ci sono i momenti della pura creatività musicale senza “chiudersi” in uno stile definito, basta ascoltare Eurasia che apre l’album. E mi vedrai… per te è una specie di dialogo, quasi spirituale, con una persona che purtroppo non c’è più, con cui verso la fine si dà un appuntamento quando… sarà il momento  giusto per rivedersi. !””L. …tu per sempre è il racconto di una storia d’amore finita con una grande delusione, un brano scritto e realizzato musicalmente in soli tre giorni. Male Interiore (la mia età) è una sorta di riflessione finale, senza imporre nessuna risposta o conclusione bensì lasciando liberi gli ascoltatori di dare una personale interpretazione. In fondo sono cose che possono accadere a chiunque, quindi ognuno può dire la sua. La bonus track finale è la single version di L. …tu per sempre, quasi un concentrato del brano immaginato come un esperimento e gioco allo stesso tempo.

La terza novità è che si tratta di un disco molto suonato: in buona sostanza un live in studio!

Mi è sempre piaciuto realizzare un lavoro in modo live, senza sovraincisioni e aggiunte varie, proprio per cercare di rendere i brani più immediati. La voce è stata incisa qualche giorno dopo per ovvi motivi tecnici. Facemmo così con Atto I anche se in quella occasione incidemmo in un  piccolo teatro mentre questa volta in sala di incisione. Abbiamo inciso nello studio di Giuseppe Di Gioia, che ha svolto un eccellente lavoro alla consolle: è stato molto bello vedere il suo spontaneo coinvolgimento durante l’intero lavoro. Percorsi gli è piaciuto immediatamente, già dalla sera di quel 28 agosto in cui avevamo appena finito di incidere.

Col senno di poi, osservando le cose in maniera anche distaccata, che differenze trovate tra Atto I e Percorsi?

Sono due lavori realizzati in periodi differenti, soprattutto pensati in modo diverso. Atto I è stato un lavoro più “semplice” nella sua complessità di miscelare vari stili. Fu divertente suonarlo ed inciderlo. Percorsi è un lavoro più “cerebrale”, potrebbe sembrare più irrequieto, con tinte più scure   e sonorità più consistenti. Per esempio mi è piaciuto diversificare il suono del violino elettrico con un effetto di wah wah chiuso, che in alcuni momenti fa una specie di seconda voce di tappeto allo splendido timbro vocale di Grazia, mentre in altri frangenti rende il tutto in modo molto più umano e misterioso. Comunque la differenza fra i brani dei due lavori la si percepisce molto dal vivo… basta venire a sentirci!

Plurima Mundi ha da sempre una peculiarità: unisce il linguaggio rock con i percorsi accademici dei singoli membri. Un connubio popular-classico che prende il meglio da entrambe le aree, vero?

Indubbiamente il fatto che quasi tutti proveniamo da studi classici ci ha dato la possibilità di poter sviluppare i brani in modo quasi sinfonico, almeno dal punto di vista degli arrangiamenti. Ma non vogliamo passare per presuntuosi né vogliamo ostentare qualcosa, chi ci conosce sa che andiamo in direzioni opposte. Infatti durante la composizione ho cercato di far prevalere l’aspetto melodico, anche strumentalmente parlando. Perciò si sono evitati soli fini a se stessi a favore di un fraseggio in cui i singoli strumenti, compresa la voce, potessero esprimersi in modo più semplice e diretto. Anche l’intro di chitarra in Male interiore ha il suo significato, sembra voler risvegliare lentamente la mente da uno stato di oblio. Se si ha la voglia e pazienza di non fermarsi al primo ascolto, sarà possibile scoprire queste caratteristiche insieme al reale significato dei testi di Maria Giuseppina Pagnotta.

 F. G.

 

Gli Insetti nell’Ambra. L’intervista

 

Gli Insetti dell’Ambra hanno trascorso gli ultimi cento milioni di anni intrappolati nella resina degli alberi pietrificati.

Chitarre, fuzz, riverberi, rhythm box, le loro composizioni italo-francesi miscelano la new wave con la canzone italiana, il Mediterraneo con le spiagge californiane, il ragù alla bolognese con i crauti (quelli del rock tedesco).

Gli Insetti nell’Ambra vivono a Parigi.

Gli Insetti nell’Ambra sono Lapo ‘Ludwig van Baloney’ Boschi (voce, chitarra basso, chitarra ritmica, campionamenti, modulatore ad anello) e Chris ‘Bronkos’ Bettoli (chitarra selvaggia).

  1. I Professionisti, Le Cose Furiose, i Ludwig Van Bologna: dopo queste tre incarnazioni targate Skank Bloc, è la volta degli Insetti nell’Ambra. Quali sono le differenze rispetto ai precedenti gruppi e qual è il filo conduttore?

Skank Bloc Records è fatta di italiani, se così si può chiamarli, che vivono fuori dal loro paese natale. A un certo punto abitavamo tutti a Zurigo, che è una città della Svizzera tedesca ma è anche una città italiana, perché è piena di italiani, italiani di seconda generazione, italiani di terza generazione, italiani che parlano tedesco meglio dell’italiano, e anche svizzeri affascinati dall’Italia, e infine italiani come noi, che sono tecnicamente nati in Italia e il tedesco lo parlano a malapena.

Abitavamo dunque in questa insolita città e ci e venuto in mente di evocare lo spettro dell’italianità latente che vi si aggirava: le abbiamo dato la forma di un trio chitarra basso e batteria che cantasse le canzoni italiane antenate comuni di tutto questo mondo immigrato. Ci sembrava che canzoni come Pugni chiusi e Sapore di sale avessero nella Zurigo degli anni zero una forza, uno spessore ben maggiori di quelli che possono ormai avere in Italia, dove passano inascoltate ogni domenica in qualche trasmissione tv pomeridiana. Il trio si chiamava I Professionisti, con un repertorio che spaziava da Clem Sacco a Gianna Nannini. Prima avevamo altre occupazioni e abbiamo riscoperto la musica così, come una sorta di performance. Poi un giorno qualcuno è venuto alle prove con un brano originale…

Le Cose Furiose sono una seconda incarnazione dello stesso progetto, perchè gli italiani sparsi per il mondo hanno la caratteristica di continuare a girarlo, il mondo: e si è reso necessario un cambio di formazione. Alla fine lo spettro della nostra italianità ha traslocato tutto quanto a Parigi, ma a questo punto lo scenario è un po’ cambiato, eravamo (ri)diventati un po’ più “musicisti,” e “cantautori,” se così ci possiamo chiamare, piuttosto che generici provocatori culturali. Ludwig Van Bologna è frutto di questa trasformazione e Gli Insetti Nell’Ambra sono nati da una costola.

  1. L’Aleph arriva a due anni di distanza da Controllo del 2015: ne prende radicalmente le distanze o è in continuità?

A ben vedere, le due cose non si escludono. Tecnicamente, la differenza principale è che Ludwig van Baloney ha improvvisamente scoperto che le parti di chitarra che scriveva erano in realtà delle linee di basso. Ha quindi ripreso in mano il basso. Che nell’Aleph è molto presente mentre in Controllo non c’era proprio. Il modo di scrivere, arrangiare e registrare le canzoni è rimasto lo stesso.

  1. Inevitabile partire dal supporto, che spesso e volentieri coincide con l’intero progetto artistico: non un cd, non un vinile, bensì una musicassetta, tra l’altro in sole 75 copie. Perchè questa scelta?

Ci hanno detto che la musica su supporto fisico non si vende più. Allora abbiamo pensato di vendere il supporto fisico e basta… Limitando la riproduzione meccanica del nostro lavoro a poche copie di pregiata fattura (grafica di Reg Mastice che da sola vale l’acquisto, stampa su carta argento, cassette rosa numerate a mano dal vostro affezionato), scegliendo un supporto carico di implicazioni culturali e affettive, che da solo racconta una storia… speriamo di accrescerne l’aura e dunque il piacere aggiunto per gli intenditori che le stanno acquistando.

Tanto lo sappiamo che poi ascoltano tutti su Spotify, o in streaming su Bandcamp, si scaricano gli mp3…! Detto questo, la musica nelle cassette l’abbiamo effettivamente registrata, quindi chi fosse talmente avanti da estrarre la cassetta dalla custodia e inserirla nel radiolone, mangianastri, walkman, piastra o chissà cos’altro, non sarà deluso.

  1. A proposito di Skank Bloc Records, l’etichetta della quale fate parte che annovera anche nomi come Luciano Chessa e Griselda Masalagiken: qual è il ruolo degli Insetti nella scuderia?

Siamo tutti amici. Luciano ha suonato qualcosa in Aleph. Sia Luciano che Griselda hanno contribuito a scrivere brani di Controllo. Ludwig van Baloney è intervenuto nella produzione del nuovo lavoro di Luciano, e nell’ultimo di DJ Balli. Ecc. ecc. Se anche la nostra musica non dovesse risultare di alcun valore per il mondo esterno, per noi ne ha parecchio! Perché è un modo di conoscerci sempre meglio e condividere certi pezzi importanti e difficilmente definibili della nostra psiche.

  1. La storia del rock ci ha mostrato il fascino del songwriter solitario, la perfezione del power trio, la potenza inesauribile di quartetti e quintetti. Gli Insetti invece sono un duo. Pregi e difetti, opportunità e limiti del suonare in coppia.

Il vantaggio principale è logistico: possiamo creare un concerto quasi dal nulla in poco tempo, spostarci se necessario con i mezzi pubblici, fare tour in utilitaria. Come in Svizzera in dicembre: noi più un cantautore solitario (On Lache les Chiens, di Parigi) e tutto il materiale in una Renault Megane presa in affitto su drivy. E poi c’è il fatto che suonare la drum machine e il sampler possono in certi casi essere preferibili al groove di un vero batterista. In un’intervista Holger Czukay ha detto che Jaki Liebezeit, il batterista dei Can, era “più inumano di una drum machine”. A noi non piacciono le rullate e i fill, mentre ci piace molto il kraut rock, quindi…

  1. Sette pezzi minimali, scritti da Ludwig e colorati da Bronkos: come nascono di solito i brani degli Insetti?

Beh: sono scritti da Ludwig e colorati da Bronkos!

Ludwig scrive un testo, poi una linea di basso per accompagnare il suo canto, poi si fanno le prove, e Bronkos fa (quasi) tutto quello che vuole con la chitarra, finché non trova una cosa che gli piace.

  1. Un titolo come L’Aleph rimanda inevitabilmente all’ebraismo, all’alfa e all’inizio di ogni cosa, a Jorge Luis Borges. C’è tutto questo nel vostro disco, pardon, cassetta?

Nella cassetta c’è quello che ognuno ci vorrà mettere, speriamo ci siano tante cose che noi non abbiamo ancora visto. Borges c’è sicuramente visto che i versi di quella canzone sono all’incirca frasi del suo racconto. C’è anche un esperimento di fisica quantistica, specchi che non hanno riflessi, foto in cui il soggetto non si riconosce più, una poesia di Aldo Palazzeschi e dappertutto la sensazione che la realtà nasconda qualcosa di inspiegato.

  1. Italiani a Parigi, probabilmente il posto giusto per vedere a distanza le miserie del nostro paese, ma al tempo stesso – capovolgendo la situazione – i pregi italiani e le difficoltà parigine. A voi la palla.

Questo italiano da due decenni manca dal suo paese e quindi non se la sente di giudicarne le eventuali miserie! Le miserie parigine invece sono ben presenti e ben chiare. Sono contento qui come potrei esserlo anche altrove. Il caffè è sicuramente molto migliore in Italia, e questa non è una cosa da poco.

 

GLI INSETTI NELL’AMBRA: L’Aleph

Skank Bloc Records 2018

Amazing original artwork by Reg Mastice.

Printed on silver paper.

Only 75 numbered copies available.

 

 

Synpress44

 

Interviste impossibili. Haydn, la Sinfonia e non solo

Sono come sempre alla ricerca di una nuova intervista speciale da proporre al pubblico della radio, ma vediamo un po’!

Forse ci sono. Ricordo bene di aver ricercato per molto tempo notizie varie su un grande musicista del passato, che venne definito Padre e Creatore della Sinfonia. Eccolo! È proprio Frans Josef Haydn che tanto ha dato alla musica in quasi un secolo di vita.

-Buona sera Maestro!

-Scusi, lei chi è?

-Per dirla tutta, sono un suo cultore, meglio, un vero ammiratore!

-A sì? E come mi conosce?

-Bè, devo dire che la sua musica, è stata una vera rivoluzione del tempo in cui viveva!

-Certo, già la trovo informato sulla mia attività artistica!

-In fondo sono un musicologo…

-Eh? che ha detto?

-Sì, musicologo. Allora? Come fanno i musicologi, ho voluto approfondire proprio tutte le sue sinfonie. Le dirò, che quando ho proposto al mio professore la tesi sulle Parigine, lui mi ha detto: veramente non me l’ha ancora proposto nessuno e io risposi, allora ci sono io. Quindi, mi sono dovuto documentare abbastanza. Ma mi dica, come le è venuta in mente la sinfonia degli addii?

-Per voi è un po’ un mistero, ma a me toccava comporre tutti i giorni per il ghiribizzo del mio principe e mecenate anche se le confesso che ad Esteraza era chiamato il Magnifico proprio come Lorenzo De Medici.

-È vero che le toccava mangiare con la servitù ed era trattato peggio degli impiagati d’oggi?

-Su la prego non mi prenda in giro che quella per un artista era proprio un’umiliazione. Lavoravi, davi spettacolo e poi in un cantuccio come se non esistessi. Oggi almeno potete fare sciopero e ci sono i sindacati, ha presente quello degli artisti come dite voi?

-Eh, sì, sì! Non me ne parli!

-Noi invece…

-Ma non è stato lei che ha inventato il primo sciopero musicale e mentre l’orchestra continua a suonare, nella sinfonia n. 45 se ne vanno tutti e rimangono solo in due?

-Ci risiamo, quello era l’unico modo per dire al Principe, guarda che se non ci dai quei quattro ducati che ci spettano, noi ce ne andiamo per davvero! E poi voglio vedere la sera chi scriverà la musica d’intrattenimento per i tuoi ospiti?

-Insomma un po’ un ricatto senza l’appoggio dei sindacati?

-La chiami come vuole, il fatto è che se non avessi fatto questa trovata, saremo morti tutti di stenti.

-Ma lei Maestro, ne ha inventate di tutti i colori, musicali s’intende!

-Avanti, cosa vorrebbe dirmi? Qual é il messaggio?

-Non si preoccupi, è solo una considerazione.

-Le dirò che nella sfortuna, come dicevo all’inizio, ho avuto tante fortune.

-Per esempio?

-Se all’inizio mi copiavano i pezzi, pensi che all’epoca non c’era nemmeno il diritto d’autore e sa, non potevi dire quella partitura è mia!

-Gia, infatti, alcune delle sinfonie hanno la dicitura A. che al giorno d’oggi sta per attribuito. Perciò lei ha sicuramente composto più di 100 sinfonie.

-Lasciamo perdere, basta sfottere o no? In tutti i casi, me ne hanno rubate parecchie e hai voglia a dire quella musica l’ho scritta io o cose del genere che tanto nel diciottesimo secolo non ti ascoltava nessuno.

-Ma cosa le piaceva scrivere e la divertiva di più?

-Sa, come le dicevo, ero costretto a presentare quella che oggi voi contemporanei chiamate musica di intrattenimento per il mio Mecenate.

-E allora?

-Le dirò, mi sono divertito come un matto a comporre musica da camera.

-Intende dire i suoi bellissimi quartetti?

-Proprio quelli! Mi impegnavo dal mattino presto dopo colazione, e per cominciare mangiavo un po’ di più del solito, così dopo avrei avuto la forza per affrontare al meglio la mia giornata di lavoro. Ero lì che riflettevo  perché chissà cosa gli sarebbe venuto in mente al mio padrone e chi sarebbe venuto la sera ed io come gli altri dovevo essere naturalmente pronto a servirlo! In una parola agli ordini! Altro che articolo 18 come si è inventato quel ragazzo del duemila come si chiama? Renzi! Sì, sì proprio quello. Ecco noi per dirla tutta, non potevamo nemmeno permetterci di dire, ma… Oggi invece discutete con i padroni e come li chiamano in italiano dei giorni vostri, Governanti o datori di lavoro.

-Sa che a tal proposito mi sono inventato una conferenza?

-Lei, e che titolo le ha messo?

-Proprio I Quartetti del dopo cena!

Ah, bella questa non me l’aspettavo!…

-Certo maestro che il lavoro non le mancava!

-No, e poi sono venuti in questo bellissimo castello tanti personaggi della nobiltà austriaca, da Sua Maestà l’Imperatore agli amici abituali del Principe Mio Signore.

-A proposito, c’erano molti bei quadri che magari la ispiravano a comporre con i loro disegni e colori!

-Già, questo non me lo aveva mai chiesto nessuno. Le dirò che passeggiando per i corridoi e ammirando l’infinità di opere d’arte che si potevano vedere nel castello, effettivamente mi sono venute tante idee e proprio colori che facilmente ho potuto applicare all’arte dei suoni. A proposito ho trovato le migliori ispirazioni per intitolare con i nomi più vari le sinfonie che stavo componendo nell’arco della mia lunga vita.

-Certo titoli come “Le repelle du corn o la poul”, militare, rullo di timpani…

-Certamente, ci ho messo del mio, e voi italiani dovreste sapere che i tempi sono scritti rigorosamente in italiano, mentre le danze in francese. Perché sa, a Parigi si ballava! E che coorte!

-Ma prima di addentrarci nelle sue creazioni, mi parli un po’ del periodo detto Sturm unt Drang.

-Ecco, c’era in quel periodo, o epoca come la chiamate voi adesso, una corrente filosofica che per l’appunto era detta sturmeriana e così ho pensato di comporre alcune sinfonie in tono minore diciamo riflessive che potessero riprendere un tema che fosse legato alle riflessioni filosofiche del tempo.

-Insomma, lei ha precorso anche il Romanticismo!

-Bè, cosa vuole avevo il tempo per pensare e riflettere, non come fate voi al giorno d’oggi. Non si dice così almeno in italiano?

-Corretto Maestro. Ma continui!

-Bene, le dirò in confidenza che anche se ero molto occupato a cercare un musico di qua un altro che lo sostituisse perché quello si era ammalato, mi rimaneva anche il tempo per pensare e riflettere, così venivano le idee migliori anche per i dialoghi fra solista e orchestra o anche per i ripieni orchestrali non facili da ottenere specie quando avevo a disposizione pochi elementi di un certo talento.

-Ma dica, come era composto il suo ensemble?

-Come accennato, i musicisti li sceglievo io, l’unica cosa che potevo fare autonomamente e insomma, mica tutti passavano la selezione.

-Come mai?

-Perché veda, ci dovevano essere oltre alla bravura e al sapere eseguire in qualsiasi condizione i brani della serata, anche una certa duttilità interpretativa che non è mica da tutti! Così sono risultato forse anche più interessante per quanti volessero approfondire la mia musica. Lei che ne pensa?

-Credo che assolutamente nella sua musica c’è una grande varietà di stili e di spunti, difficilmente riscontrabili in altri compositori. Qualcosa veramente ho studiato, ma credo che lei con le sue partiture e le esecuzioni, piacesse molto al pubblico della ville lumiere!

-Veramente, i francesi erano proprio dei festaioli all’epoca e anche se non c’era l’illuminazione come la intendete voi, si divertivano molto con feste e che commenti sul look degli invitati! Lei non può nemmeno immaginare lontanamente quante storie e intrighi ho potuto vedere e anche, perché no, vivere di persona!

-Certo che in tutti questi frangenti ne ha abbracciate di belle dame?!

-Sicuro, e le svelerò un segreto, che non è proprio dei più simpatici.

-Prego dica!

-Lei deve sapere che i francesi sono famosi per i loro intensi profumi, fin qui nulla di strano. Non fosse che diciamo così non si lavavano molto, perché all’epoca, l’acqua era ritenuta foriera di malattie. Per questo motivo hanno inventato dei profumi che erano così forti in maniera da coprire altri sgradevoli odori.

-Mi dica, allora lei come se la cavava in questi casi?

-Con un po’ di galanteria e qualche scusa del tipo, sono molto stanco o la lascio a suo marito che ci sta guardando. Lei mi capisce no?

-Perfettamente: non ci vedo e sa, i profumi di vario genere, li avverto molto. Mi dica però, le soddisfazioni non le sono mancate!

-Bella domanda!.. No ma non mi torni ancora una volta sui guadagni economici di cui le ho già detto. Quindi a cosa si riferisce?

-Il fatto ad esempio di avere composto all’inizio sotto l’influsso della Scuola Napoletana e dei figli di un certo Bach che quello sì aveva anche il cognome che rimandava alle note come si scrivono ancora oggi in tedesco, insomma era la musica in persona. Ma non vorrei divagare.

-La ringrazio perciò le più grandi soddisfazioni le ho avute quando la mia musica è diventata proprio la musica di Haydn.

-Infatti, lei è considerato ancor oggi Padre e Creatore della Sinfonia.

-Che dire, c’è ne è voluto del tempo, e c’erano anche dei concorrenti niente male come quel ragazzaccio di Mozart che ha vissuto così poco e ha composto alcune fra le più belle opere e anche sinfonie celebri. Ma non dimenticherei un altro musicista che ha precorso il Bomanticismo come  il mio amico Beethoven che stimavo molto. Che dire di questo grande musicista di Bonn: era un uomo con un caratteraccio che però ha scritto una musica immortale e poi non aveva paura di nessuno. Si figuri che nell’Eroica, inserì la marcia funebre dedicata niente poco di meno che a sua maestà Napoleone perché da liberatore era divenuto un tiranno. Dimenticavo, l’inno dell’Europa Unita è proprio l’Inno alla Gioia scritto proprio da Napoleone, volevo dire da Beethoven per capirci, è il finale della Nona sinfonia che oggi viene eseguito più delle mie sinfonie. Sa, qualche volta, mi confondo lei sa che la mia vita è stata lunga e che dire, i Grandi, me li devo ricordare proprio tutti e qualche volta diciamo così, faccio cilecca! Poi è difficile ricordarsi certi periodi e mi devo un po’ arrangiare con la mia memoria che non è come dite voi 16 giga o che ne so, quindi devo spaziare in queste epoche così diverse.

-Non si preoccupi, ma mi parli piuttosto ancora del suo tempo.

-Pensi che allora non c’era internet e tutto andava in carrozza o a cavallo di corte in corte quindi ci volevano giorni perché una notizia arrivasse dall’Austria dove abitavo fino alla Ville Lumiere.

-In fondo, lei è vissuto proprio attraversando il secolo della rivoluzione francese e che dire, anche lei non è stato da meno nella musica strumentale! -Sì, sono stato un vero precursore credo un pioniere, sempre tenendo conto degli influssi dei figli di Bach che anche loro erano dei musicisti di ottimo livello. Purtroppo il padre non li capiva e diceva che quelli non ci azzeccavano con la musica, se nonché, le loro composizioni hanno influenzato le mie prime sinfonie e poi però sono riuscito a inquadrare questa composizione in quattro tempi, con la forma sonata. All’inizio di solito un tempo allegro un adagio un minuetto e alla fine un altro tempo vivace di solito un allegro.

Della rivoluzione parigina e tutto ciò mi piace questa puntualizzazione, perché sono riuscito dopo tante fatiche come le dicevo, a far accettare le mie sinfonie anche a quei diavoli dei francesi.

-Se non sbaglio però, l’Imperatore di Francia, quando lei stava per morire, le ha inviato una Guardia d’Onore perché la sua casa fosse risparmiata.

-Tutto vero, proprio Napoleone, si prese cura di quel musicista malandato. Me lo avevano detto che oramai in Francia mi conoscevano e così Napoleone ha compiuto un vero gesto di cortesia cavalleresca. Insomma, che dire, la mia musica era piaciuta molto alle associazioni culturali parigine e ho avuto tanti applausi con un numero sempre maggiore di esecuzioni delle mie composizioni.

-Mi preme una domanda.

-Prego.

-Come mai alcune delle sue sinfonie hanno un titolo?

-Le dirò sono state le circostanze fra le più diverse che mi hanno fatto creare le mie composizioni e le svelo un piccolo segreto, sono stato io a introdurre il corno nell’orchestra in maniera stabile.

-Infatti, una delle sue sinfonie si chiama proprio “Il richiamo del corno” o mi sbaglio?

-No, no, è proprio così; lei mi lascia un po’ sorpreso, perché è come se mi conoscesse!

-Bè, mi sono impegnato molto per studiare la sua musica e come le ho detto sono documentato. Ma mi parli ancora degli altri titoli che ha voluto mettere alle sue sinfonie.

-Vede, a parte la già citata sinfonia “Il richiamo del corno”, per Parigi ho scritto un gruppo di sei sinfonie dette per l’appunto “Parigine”.  Alcune hanno proprio un titolo “La Polle”, “La Reine” e  quindi ho scritto anche un gruppo di sinfonie per Londra e fra queste ci sono “Militare” o “Rullo di Timpani” e naturalmente “Londra”!

-Insomma, una bella fantasia!

-La chiami come le pare, fatto sta che ero sempre lì a comporre.

-Nella sua lunga vita, però lei è diventato famoso e poi un ponte fra Classicismo e Romanticismo.

-Si, non nascondo che da quando la Loge Olimpique ha accettato di far eseguire le mie composizioni, mi sono dovuto impegnare parecchio e sa cosa le dico? Gli editori come il mio preferito Artaria, ad un certo punto, non riuscivano più a fare fronte alle richieste, quindi mi toccava lavorare sempre di più.

-Però la Loges, mi risulta fosse un ambiente molto colto e raffinato.

-Certamente, noi musicisti eravamo vestiti con una livrea molto elegante e i bottoni d’oro. Quindi guai a presentarsi per le esecuzioni come oggi in giacca e cravatta, che saresti subito stato messo all’indice e naturalmente non ti saresti potuto più presentare in quel club così esclusivo. Fra l’altro come le dicevo, sono stato anche un compositore longevo e il primo che ha potuto proporre i suoi lavori all’estero come dite voi dell’Europa Unita. Ho avuto proprio il primato assoluto, perché generalmente i miei colleghi, componevano per il loro Principe o Mecenate che poteva essere un Arcivescovo come nel caso di Mozart o prima, in Inghilterra i Reali che ad esempio ad Handel commissionarono “La Musica Sull’acqua” per una passeggiata sul battello reale sul Tamigi. Insomma, un vero capriccio! A me invece è toccato di tutto, naturalmente anche in positivo e spero di incontrarla un’altra volta, ma mi raccomando la prossima, non mi chieda più dei miei trattamenti a corte. D’accordo?

-D’accordo e la ringrazio Maestro.

 

Bruno Bertucci

Barock Project. L’intervista

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Negli anni ’70, durante la grande stagione rock, un disco dal vivo era la celebrazione di un momento di successo. Che significato ha VIVO nella vostra storia?

LUCA ZABBINI: Credo che questo doppio live abbia molteplici significati per quanto riguarda i Barock. Sicuramente c’è prima di tutto il desiderio di fare arrivare nelle case delle persone l’energia che questo gruppo sprigiona sul palco. Inoltre sono passati dieci anni dalla registrazione del nostro primo disco, quindi Vivo è anche una sorta di celebrazione di dieci anni di attività discografica. Non dimentichiamo che Vivo è anche una sorta di ”spartiacque” per quanto riguarda il gruppo, sia per quanto riguarda la nuova formazione, sia per quanto riguarda l’intenzione musicale e la direzione che stiamo prendendo.

ERIC OMBELLI: E’ un biglietto da visita dei nostri concerti presenti e futuri e insieme un momento per celebrare i dieci anni di attività del gruppo. Per voi il rapporto con il pubblico è essenziale: che differenze ci sono tra Barock Project live e in studio?

LUCA ZABBINI: Credo fortemente nell’energia che il pubblico ci trasmette durante i nostri concerti. E’ un feedback magico che ci permette di dare sempre il meglio di noi, sia on stage che nei dischi. In studio siamo sempre stati molto metodici e ognuno di noi partecipa alle idee che possono contribuire al prodotto finale. Quando abbiamo terminato un disco e lo presentiamo dal vivo, naturalmente in un primo tempo tendiamo a suonare i brani in maniera canonica come sono stati registrati. Ma nel tempo ci piace poi variarli e questo ci consente alle prove e sul palco di avere nuovi stimoli e divertirci suonando.

MARCO MAZZUOCCOLO: Beh credo davvero parecchia! Prima di tutto siamo tutti fan di musicisti che hanno sempre messo l’energia al primo posto, e credo che questo si rifletta sul nostro modo di suonare. Personalmente amo musicisti come Hendrix, Monk, Hiromi, Eric adora Rush e The Who e credo di poter parlare a nome di tutti riguardo ELP! Quando siamo tutti assieme su un palco tutta questa energia si moltiplica ed è lì che ci si diverte! Inoltre gli arrangiamenti in studio sono sempre molto ricchi e dal vivo cerchiamo di riproporli in modo più diretto proprio per dare un effetto diverso, più adatto al mood live. VIVO è un vero e proprio viaggio nella storia dei Barock. Guardando al passato, siete soddisfatti dei tre album precedenti a Skyline?

LUCA ZABBINI: Quei tre album sono stati registrati in periodi e condizioni molto diversi, sia a livello tecnico che di ”mood”.

barock2016

Con Misteriose Voci, nonostante fossimo già musicalmente abili e preparati, non lo eravamo molto in fatto di coesione e non avevamo ancora un’identità. Con Rebus stavamo già trovando la nostra strada, anche se andavano affinati ancora molti aspetti e inoltre c’erano varie tensioni. Ci tengo a dire che non sono mai stato soddisfatto per quanto riguarda il mixaggio di questi primi due dischi. La nostra vera identità, soprattutto per quanto riguarda il mio periodo creativo e compositivo, l’abbiamo raggiunta al terzo disco, Coffee In Neukolln, un disco che ascolto sempre con piacere.

Al di là dei riferimenti ai nomi dell’epoca d’oro, ogni band cerca di offrire la propria interpretazione del genere: che cosa, secondo voi, vi differenzia dai colleghi neo-prog?

LUCA ZABBINI: Ci sono davvero delle prog band fantastiche al giorno d’oggi. Credo che quello che ci differenzi maggiormente sia il fatto che nella nostra musica non vogliamo perderci in tecnicismi o virtuosismi fini a se stessi. Un bel brano può funzionare benissimo anche con quattro accordi. Purtroppo a volte mi capita di notare come alcuni si ostinano a etichettare la propria musica come ”prog” per il semplice fatto che ci ha messo un Mellotron e ha fatto brani da venti minuti. Sono tutte peculiarità del progressive, ma vecchia scuola. Oggi come all’epoca serve comunicare con la musica, ma in maniera differente. Sicuramente, in una società dove otteniamo tutto con un click, tante persone si giustificano col non avere più tempo per fare cose, come ascoltare un disco con attenzione e questa la dice lunga su come sia cambiato il modo di poter fare musica per l’ascoltatore.

ERIC OMBELLI: Senza dubbio un nostro punto di forza è l’assenza di pregiudizi e confini mentali che spesso ingabbiano chi fa musica di questo genere. Il prog non è un dogma ma un punto di partenza. Molte band replicano gli stessi suoni degli anni 70 e basta, noi invece proviamo a portare il vecchio genere nel nuovo secolo, anche con influenze moderne. Parallelamente l’utilizzo degli arrangiamenti orchestrali finemente curati da Luca Z è da sempre qualcosa che ci distingue e per cui ci riconoscono.

MARCO MAZZUOCCOLO: Credo che la forza dei Barock Project sia proprio quella di non riuscire ad essere catalogati. Sicuramente si sentono le influenze del prog anni ’70 che tutti noi amiamo, ma è tutto condito da arrangiamenti sinfonici e, specialmente negli ultimi due dischi, da un sound moderno. La melodia è sempre e comunque il filo conduttore, mi ricordo quando, appena entrato nella band, sentii per la prima volta brani come Back To You o Fool’s Epilogue, nonostante fossero corposi e con un sacco di temi mi rimasero subito in testa.

FRANCESCO CALIENDO: da musicista, ma prima di tutto da ascoltatore, sento in questa band l’originalità che non sempre si trova nella musica, ma soprattutto in un genere così radicato alle tradizioni. Le influenze sono tante, spesso molto presenti, e spaziano in una lunga lista di artisti e repertorio. Queste però sono parte del background musicale, insidiate nella cultura del compositore della band, e questo per me riesce a creare un prodotto non scontato, che viene ben miscelato con un sound che tende ad esplorare nuovi orizzonti. Non so se questo ci differenzia dalle altre band, ma credo fortemente che è una delle principali caratteristiche.

Alla fine del primo dischetto c’è una formidabile Los Endos dei Genesis: come mai?

LUCA ZABBINI: Suonare quel brano ai nostri concerti era abitudine durante i nostri live di dodici anni fa. L’abbiamo riproposto semplicemente come tradizione dei nostri live, solo perchè è un brano divertente da suonare. Skyline è stato un momento felice – non solo per il responso del pubblico – e i suoi brani animano il secondo dischetto. Che importanza riveste questo album?

LUCA ZABBINI: Skyline per quanto mi riguarda è stato il frutto di un periodo di vertiginosi alti e bassi nella mia vita. Indubbiamente per la band è stato un bel momento e durante le registrazioni ci siamo divertiti anche parecchio.Non posso nascondere che questo disco per me ha una certa importanza, anche se devo dire che oggi, sebbene sia uscito solo un anno fa, sento di aver scritto quei brani con una visione un po’ ”naif” delle mie vicende personali.

ERIC OMBELLI: Sicuramente Skyline ha avuto una grande importanza per la band perché ha contribuito molto a diffondere la nostra musica nel mondo, anche grazie a pregevoli collaborazioni con nomi di fama internazionale (De Scalzi, Whitehead), ma rappresenta anche un traguardo e un orgoglio personale essendo il primo disco che realizzo dopo tanti tentativi non riusciti con altri progetti.

In chiusura di album un inedito, My Silent Sea: di che si tratta?

LUCA ZABBINI: Quando ho scritto questo brano, mi sono reso conto di essere arrivato ormai ad un punto di svolta e con i Barock stiamo deviando verso una comunicazione diversa. Dovevo in qualche modo chiudere il capitolo Skyline, così ne ho ripreso musicalmente le atmosfere sognanti e il carattere narrativo per dare così un epilogo alla storia di questo uomo sulla zattera. Antonio De Sarno, il nostro scrittore di testi, ha ben pensato di dare il giusto senso alla musica che avevo scritto. Potrebbe tranquillamente sottotitolarsi Skyline Epilogue.

ERIC OMBELLI: E’ un brano piuttosto lungo che ricalca le atmosfere e i temi della canzone Skyline. E’ stata scritta da Luca Z e sulla sua demo abbiamo lavorato dapprima io, poi Marco e Francesco, contribuendo ognuno con le proprie idee… sono molto soddisfatto di questo metodo di lavoro e del brano che ne è scaturito.

MARCO MAZZUOCCOLO: My Silent Sea è un ponte verso il futuro, verso il prossimo orizzonte a cui puntare, sia musicalmente che nella vita. Ognuno di noi sta vivendo o ha vissuto distacchi importanti negli ultimi tempi, abbiamo dovuto affrontare dei cambiamenti che ci portano a guardare più in la di prima. Nel testo di Antonio emerge proprio questo, si giunge alla fine di un viaggio che porta inevitabilmente ad un altro, d’altronde l’orizzonte non si raggiunge mai, giusto? Musicalmente parlando credo rispecchi tutto questo, il nuovo album, infatti, è il nostro nuovo orizzonte, porterà grandi novità che non saranno certo le ultime! A proposito di live, il 18 giugno Luca Zabbini ha partecipato a un evento importantissimo: il concerto di tributo a Keith Emerson. Per i Barock è stato più di un ispiratore…

LUCA ZABBINI: Keith per me è stato molto più che un ispiratore. Direi un vero e proprio mentore ”indiretto” tramite la sua musica e se oggi sono un musicista stimato lo devo a lui. I Barock stessi non esisterebbero se non avessi mai scoperto i suoi dischi. Keith ha saputo trasmettere a tante persone nel mondo ciò che significa voler bene alla musica, perchè in fondo lui voleva questo. Al di là della facciata esterna su cui molti ancora si soffermano, come i coltelli nell’hammond e via dicendo, il vero Keith era quell’uomo devoto alla musica. Questo è ciò che ho avvertito da bambino quando l’ho ascoltato ed è stato l’esatto momento in cui ho iniziato ad amare veramente la musica con la emme maiuscola. Qual è secondo voi lo stato di salute del prog oggi? Ci sono vostri colleghi che seguite e volete segnalare?

LUCA ZABBINI: Inutile dire che il prog oggi è un genere di nicchia ed estremamente faticoso da ascoltare con attenzione, non nego il fatto che è così anche per il sottoscritto. Onestamente, per quanto possa sembrare il contrario, non ascolto quasi mai prog. Preferisco ascoltare diversi generi dove posso trarre ispirazione per filtrarli, mischiarli e scrivere qualcosa. Il prog è un genere per pochi affezionati, non ha più quel potere che aveva quarant’anni fa. Personalmente gli unici artisti che ascolto con piacere nel genere odierno sono sicuramente Steven Wilson e i Big Big Train. Il primo perchè guarda in avanti con un occhio rivolto al passato in maniera intelligente, i secondi perchè hanno delle soluzioni melodiche affascinanti e un cantante con una bella voce e che non mi stanca.

MARCO MAZZUOCCOLO: Domanda difficile! Credo però che abbia vissuto momenti più bui di questo. Ci sono band che hanno portato qualcosa di nuovo nel prog che hanno avuto grande successo: Steven Wilson, Dream Theater, Tool, Porcupine Tree e questo è importante perchè la nostra generazione ha più riferimenti a cui ispirarsi, loro hanno avuto “solo” i giganti degli anni ’70 noi invece abbiamo anche altro ed è questo che porta evoluzione alla musica. Ultimamente sono pazzo per gli Hiatus Kaiyote che sicuramente non piaceranno ai lettori di queste intervista! Di più simili a noi e più propriamente prog mi sono piaciuti molto i Leprous a Veruno e trovo molto interessanti anche gli Haken.

Al Festival Baja Prog di Mexicali è stato eretto un monumento – unico al mondo nel suo genere – dedicato al progressive, con un sistema audio che suona 24 ore non stop e include anche due vostri brani!

ERIC OMBELLI: Sicuramente qualcosa di cui essere fieri. Speriamo di poter portare là quelle note di persona prima o poi.

MARCO MAZZUOCCOLO: Grandioso! Sono fierissimo di tutto ciò! Spero che questo serva a cospargere il mondo di nuova musica senza isolare il mondo del prog più di quanto già non lo sia.

FRANCESCO CALIENDO: Penso che questo si possa tradurre in un bel riconoscimento artistico per Luca Zabbini e i Barock Project. È da Skyline qui che partirete per il nuovo disco in studio o dobbiamo aspettarci novità e sorprese?

LUCA ZABBINI: Il nuovo disco è già in lavorazione e avrà poco a che fare con i precedenti. Abbiamo virato la ”zattera”… sarà un disco molto più diretto e concreto. Non escludiamo le sorprese…

ERIC OMBELLI: Ogni disco dei Barock finora è stato un’evoluzione del precedente, pur senza rompere la continuità del nostro suono. Anche per il prossimo si può dire lo stesso. In più, pur mantenendo Luca come primo compositore, il contributo di ciascuno è sempre maggiore, rendendo i Barock sempre di più un gruppo nel vero senso della parola. Credo che gli effetti di questo processo siano molto positivi sulla nuova musica che ne è nata.

MARCO MAZZUOCCOLO: Il nuovo disco porterà grandi novità, per la prima volta stiamo collaborando anche io e Eric alla stesura dei brani, agli arrangiamenti e alle registrazioni. Un nuovo modo di lavorare con il quale stiamo ottenendo risultati sempre più soddisfacenti in termini sia compositivi che sonori. Sarà un sound nuovo, che però manterrà i punti cardine della band, sinceramente siamo tutti molto entusiasti e non vediamo l’ora di portarlo a termine!

La Biografia

L’idea di Barock Project nasce dal desiderio di combinare le più belle e perfette strutture della musica classica (principalmente musica barocca) con lo stile rock e l’armonia jazz, sostenuta da una struttura pop con l’intenzione dichiarata di rinnovare l’amore per il progressive rock degli anni ’70.

Il fondatore del progetto è il tastierista Luca Zabbini, pianista e compositore.

La sua passione per il celebre tastierista Keith Emerson (ELP), ha alimentato il suo desiderio di comporre e suonare una gamma completa di stili, dalla musica classica al rock e jazz.

Nell’estate del 2004, con Giambattista Giorgi, giovane bassista influenzato dal rock con grande passione per il jazz, e il batterista Giacomo Calabria forma la band.

Subito dopo un lungo tour europeo con “Children of the Damned” e il cantante degli Iron Maiden Paul Di’Anno, Luca Pancaldi entra nella band come voce solista.

Nel gennaio 2007 la band si esibisce dal vivo a Bologna (Italia) con un quartetto d’archi, su partiture scritte da Luca Zabbini, rilasciando un DVD intitolato “Rock in teatro”.

Nel dicembre 2007, pubblicato dalla Musea Records, esce il primo album “Misteriose Voci”. Il primo impatto è positivo e l’interesse si sviluppa su base internazionale, acquistando una connotazione di “Progressivo Italiano” dati i testi in lingua Italiana.

Nell’estate del 2009 la band rilascia il secondo album “Rebus”, con l’etichetta italiana Mellow Records, con ottime recensioni da tutto il mondo. La musica si evolve secondo gli schemi del progetto in un rock internazionale contaminato dalla classica, ed i testi sono ancora in Italiano, eccetto una traccia.

Nel marzo 2012, pubblicato dalla etichetta francese Musea Records, la band rilascia il terzo album “Coffee In Neukölln”, con testi in lingua inglese per l’apertura a nuovo pubblico internazionale. La risposta è immediata, con decine di migliaia di visualizzazioni del videoclip sulla rete e vendite del CD in molti paesi, ed i primi inviti a partecipare a rassegne musicali di livello in Italia (Live in Crevalcore e Festival di Veruno).

Nella band fanno il loro ingresso due nuovi musicisti: Marco Mazzuoccolo alla chitarra e Eric Ombelli alla batteria. In questa formazione i Barock Project fanno la loro apparizione live nel Veruno International Festival, riscuotendo immediato successo di pubblico e stampa specializzata.

Sulla scia di questa energia di consensi si apre un lungo periodo di composizione e gestazione del quarto album con la svolta dell’entrata nella scuderia artistica STARS OF ITALY (Vittorio De Scalzi, New Trolls, Gnu Quartet, Paul Whitehead ) e la scelta di un manager.

Giambattista Giorgi lascia la band e viene rimpiazzato al basso (in studio) da Luca Zabbini e dal vivo da Francesco Caliendo.

Nasce SKYLINE, quarto album in CD, pubblicato il giorno 8 Giugno 2015.

Questo lavoro di 70 minuti pieni di musica suddivisa in 10 tracce, è l’affermazione dei Barock Project. A partire dal prestigioso riconoscimento delle due partecipazioni di ospiti quali Vittorio De Scalzi (fondatore e leader dei NEW TROLLS) alla voce e flauto sulla canzone SKYLINE, e Paul Whitehead (disegnatore delle più famose copertine dei Genesis di Peter Gabriel e album storici del rock mondiale) che firma la copertina del disco.

Prenotazioni e vendite in 34 paesi del mondo, tanto da terminare due intere tirature, in una produzione indipendente sostenuta dal management del gruppo e dagli stessi musicisti.

A Luglio 2015 è uscita in Giappone una edizione speciale di SKYLINE in CD doppio con 2 bonus track, edita dalla discografica Marquee/LaBelle, leader rock in Giappone.

Da notare il sostegno preliminare di oltre 100 volontari donatori attraverso una campagna fundraising su Kickstarter ultimata con successo.

In novembre i Barock Project hanno presentato in concerto il loro ultimo album a Milano registrando l’intero concerto per un possibile progetto discografico live.

 

LINE UP:

Luca Zabbini – piano, tastiere basso e voci

Luca Pancaldi – voce solista

Eric Ombelli – batteria

Marco Mazzuoccolo – chitarra

Francesco Caliendo – basso

 

Special Guest: Vittorio De Scalzi (Voce e flauto nella traccia #3 SKYLINE).

 

Donato Zoppo

La vita di Georges Pretre: successi e aneddoti

Riproponiamo l’intervista rilasciata dal Maestro Pretre a Bruno Bertucci.

Il M° Georges Pretre, incontrato a Roma, durante la direzione di alcuni concerti, dopo aver ricevuto il premio Una Vita Per La Musica come omaggio alla carriera nell’ambito della rassegna Uto Ughi per Roma, rilassato e sorridente, dimostra una verve non comune per un ottantenne. Il grande direttore, con queste riflessioni, vuole inviare un messaggio ai giovani: “Dico spesso loro che nella musica troveranno, dal punto di vista generale, un grande aiuto. Per conoscere quest’arte bisogna avvicinarsi alla letteratura, ma anche alla psicologia, in quanto nelle opere incontriamo la psicologia dell’autore, poiché egli vi ha messo la sua passione, i suoi sogni, il suo dramma… ! Lo ha fatto per trasmettere al pubblico il suo modo di scrivere. In tutto questo c’è la vita. Se voi amerete e approfitterete della musica sarete certamente ripagati e felici”.

Quali sentimenti ha provato quando ha ricevuto il premio alla carriera nel contesto della rassegna Uto Ughi per Roma?

Ricevere il premio Una Vita Per La Musica è stato per me un momento veramente emozionante per due motivi: l’incontro con il pubblico e i ricordi delle tante direzioni nel vecchio Auditorium di Santa Cecilia che mi ha visto sul podio per quarant’anni.

Lei ha diretto la danza n.5 di Brahms per ben due volte: può parlarci delle differenti interpretazioni nel dirigere lo stesso brano?

È stato un giochetto di fantasia. Lei sa che prediligo le musiche di questo grande autore poiché amo i popoli slavi, perciò in Brahms vedo degli schizzi delle grandi province proprie di questi popoli e siccome ogni villaggio è differente, ciascuna danza riflette una luce diversa. Quando ieri ho diretto la danza n.5 ho visitato la parte nord e quella sud del villaggio, sottolineandone i contrasti e la danza dei contadini. Per rispondere alla sua domanda mi sono divertito e questo per me è fondamentale.

Qual è, oltre la musica, un altro punto fermo della vita di Georges Pretre?

Naturalmente la religione, o meglio le religioni, in quanto sono tutte uguali, riflettendoci meglio: tutte puntano al bene. Sono gli uomini che hanno modificato le cose. Non posso dimenticare, d’altra parte, tutte le arti e direi che la musica è l’arte più completa e, allo stesso tempo, la più effimera. Quando lei assiste ad un concerto le note volano via e adieu!! Il pubblico ha dei ricordi che non resteranno a lungo, mentre nella musica c’è tutto. Non possiamo dire lo stesso per le altre arti, in una scultura non sempre troviamo della musica, l’arte dei suoni invece comprende la letteratura, il riflesso della pittura con le sue immagini, e la scultura quando si crea un’orchestrazione.

Può parlarci delle emozioni da direttore d’orchestra?

Difficile a dirsi, ma quando sono sul podio non sono me stesso, da interprete mi sento pienamente immerso nella partitura. Per me è un momento meraviglioso, in quanto devo far rivivere una partitura scritta che rinasce sempre, ed ogni volta è una cosa nuova. Per questo motivo non ho preferenze per l’uno o l’altro autore. Quando dirigo un brano quello è il genere che preferisco. Ho sicuramente grandi ricordi, come ad esempio il mio debutto alla Scala che fu meraviglioso; al Metropolitan di New York la prima volta; e a Vienna, naturalmente, che ritengo la mia capitale artistica: sono francese di passaporto e di cuore, ma musicalmente sono più vicino ad essere europeo e viennese. Sono rimasto per 35 anni in questa città dove ho diretto le sue due grandi orchestre; qualche volta ritorno e lì ho avuto la fortuna di dirigere tutto Brahms, tutto Mahler, ma purtroppo non tutto Mozart perché la produzione di quest’autore è molto vasta. Per me è stato un arricchimento.

C’è una missione che la musica colta può svolgere per l’unità europea?

La musica si rivolge anche oltre la sola Europa. Pensi ai giapponesi che non sono abituati a questo genere di musica ma ne sono ghiotti. Spesso sono andato in Giappone in tournée con la mia orchestra francese ed è stato sempre un trionfo. La musica ha portato l’unione, ma purtroppo alla gioventù non viene offerta adeguatamente.

Ed allora, come dovrebbe essere prospettata la musica ai giovanissimi?

Rilevo un errore molto grave in quanto viene loro proposta la televisione con delle cose straordinarie!!! Un’arma nefasta che artisticamente offre zero. E tutto questo solo per la pubblicità! Sottolineerei invece che i giovani andrebbero orientati verso l’arte prima della scuola media, quando è troppo tardi, poiché tutto viene vissuto come un obbligo. Bisognerebbe invece iniziare dai bambini della scuola materna: a 4 o 5 anni i bambini giocano con la creta, scolpiscono e disegnano, si faccia ascoltare loro anche della musica.

Durante la sua carriera si ricorda un aneddoto simpatico in cui lei è stato protagonista insolito?

Una volta mi trovavo in tournée con Maria Callas. Durante il concerto lei cantava un’aria italiana con una cadenza divina, l’orchestra si fermò e Maria continuò a cantare. Ascoltando questa magnifica interprete, chiusi gli occhi e andai in trance, dimenticandomi di essere sul podio. Sentivo Maria come se fossi stato tra il pubblico. Avevo dimenticato di ricominciare e tutti ridevano poiché avevano capito.

Un’altra volta, al festival di Aix-en-Provence, dirigevo La voix humaine di Francis Poulenc, storia di una donna abbandonata che chiama al telefono sua madre chiedendole il perché dell’abbandono, un testo magnifico di Cocteau. Mia moglie era tra il pubblico, io nella buca dell’orchestra, mentre gli artisti si trovavano in alto. Alla fine dell’opera andai sulla scena per salutare gli artisti e mia moglie domandò: “Ma chi è quello?” Un’altra donna rispose: “È quello che ha risposto al telefono”.

 

Bruno Bertucci

L’Uganda, regione dei Grandi Laghi. Scopriamola insieme

Un Paese che ai più non dice molto, ma che fa parte a tutti gli effetti dell’Africa in via di sviluppo, mi ha dato lo spunto, per intervistare la presidente dell’associazione AFRON che si interessa di portare avanti, fra le altre cose, la prevenzione oncologica. Ho potuto avere un colloquio con Titti Andriani che ha toccato temi vari e di stretta attualità.

IMG_0561-Titti AndrianiCom’è nata AFRON Oncologia per l’Africa Onlus?

AFRON viene fondata a Roma il 10 maggio 2010 da medici specialisti dell’Istituto dei Tumori di Roma “Regina Elena” e nasce in seguito ad un allarme lanciato nel 2008 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “se non si interverrà tempestivamente con opportuni programmi di prevenzione e cura, l’Africa si troverà ad affrontare, entro il 2020, 13 milioni di nuovi casi di cancro e circa 1 milione di decessi l’anno”.

Di fronte a questa drammatica realtà era impossibile rimanere indifferenti; mi sono fatta quindi promotrice e portavoce della lotta al cancro nei paesi africani, coinvolgendo amici e colleghi oncologi con cui già lavoravo.

L’Associazione opera in Uganda e si occupa in particolare di tumori femminili: cancro della mammella e della cervice uterina.

Perché l’Uganda?

L’Uganda è un paese meraviglioso, non a caso viene definita la Perla d’Africa. Nel 2006 ho svolto la mia prima esperienza di volontariato in Uganda e mi sono innamorata del paese, delle sue bellezze naturali e del sorriso della sua gente, ripromettendomi di tornare ed aprire presto un progetto umanitario. Prima di fondare AFRON, ho cercato dei paesi idonei dove iniziare le nostre attività, ma l’Uganda poi si è rivelata perfetta, c’erano le basi sanitarie per introdurre le nostre attività. L’Uganda è stato il primo paese africano ad avere un Istituto Nazionale per la Cura e lo Studio del Cancro e ad introdurre le cure palliative. L’attenzione verso la lotta al cancro era molto alta e noi ci siamo inseriti nel paese nel momento più favorevole.

Che situazione avete trovato in Uganda?

L’Uganda può veramente definirsi un paese in via di sviluppo. La situazione politica ed economica è abbastanza stabile e ci consente di programmare delle attività anche a lungo termine. La lingua ufficiale è l’inglese, insieme allo Swahili, inserito nel 2005, ma in Uganda vengono parlate circa 40 lingue o dialetti. Le popolazioni confinanti non potrebbero comunicare se non parlassero l’inglese in comune, questo vale anche per noi che lavoriamo in tante regioni diverse. Anche i gruppi etnici sono numerosi, divisi principalmente fra popolazioni bantu e popolazioni sudanesi e nilotiche. Le religioni sono per la maggioranza cristiana (cattolica e anglicana). I musulmani sono il 12,1% e gli animisti l’1,9%.

Nel lavorare in Uganda, come superate le resistenze dei locali?

Effettivamente grandi resistenze non ve ne sono, anzi. L’Uganda è stato un Protettorato Britannico ed il processo di colonizzazione si è rivelato molto leggero, rispetto a quello che hanno subito altri paesi africani, soprattutto quelli francofoni. Il rapporto con i bianchi è sempre stato di cooperazione, mai di subordinazione. Noi abbiamo ereditato quanto di buono hanno lasciato gli inglesi: un buon sistema sanitario e scolastico.

Per quanto scherzosamente ci chiamano “muzungu” (bianco), i rapporti con i locali sono di reciproca stima e collaborazione. Abbiamo tanto da imparare anche noi da loro.

Titti Andriani

Quali sono i vostri settori di intervento?

Essenzialmente sono 4:

garantiamo la formazione oncologica del personale medico ed infermieristico locale;

sensibilizziamo le donne e le comunità di riferimento sul riconoscimento della malattia e l’abbattimento dello stigma del cancro;

promuoviamo la prevenzione e la diagnosi precoce, quale mezzo prioritario per sconfiggere il cancro;

favoriamo l’accesso ai trattamenti oncologici, non coperti dai sistemi sanitari africani.

Quanto è difficile far capire alle persone che devono recarsi in ospedale anziché lasciarsi morire o andare dallo stregone?

Purtroppo sul cancro ci sono ancora tanto stigma e miscredenze. Si pensa che sia una malattia infettiva, come lo è stato l’HIV, e quindi le persone malate vengono emarginate perché ritenute contagiose. Molti pensano che sia una punizione per un comportamento sbagliato e quindi si lasciano morire senza avere alcuna possibilità di cura. Molti ancora pensano che il cancro sia una maledizione divina e quindi lo stregone sembra essere l’unica soluzione per guarire. C’è anche la credenza che siano gli ospedali stessi a far morire le persone; questo purtroppo perché, quando i pazienti si presentano in ospedale, sono in uno stadio molto avanzato e le conseguenze quindi sono fatali. C’è anche chi, convinto che la diagnosi di cancro sia una sentenza di morte, preferisce tenere i soldi da parte per un buon funerale piuttosto che per la degenza in ospedale.

Quali sono le aspettative della Vostra Onlus?

Abbiamo tantissimo lavoro da portare avanti, combattere il cancro vuol anche dire insegnare la cultura della prevenzione nella popolazione africana, perché solo con la prevenzione e la diagnosi precoce ci si può salvare. Oggi come già accennato, purtroppo le persone si recano in ospedale troppo tardi sia per la distanza dagli ospedali, sia per le scarse risorse economiche. Le donne non lasciano volentieri il lavoro nei campi ed i numerosi bambini a casa. Anche la mancata conoscenza della malattia e dei suoi sintomi costituisce un grande ostacolo. Per questo motivo ci stiamo concentrando su due attività in particolare, che sono le uniche armi possibili per combattere il cancro in Uganda: INFORMAZIONE E SCREENING. Una donna che conosce la malattia e che riceve un pap test è una donna che può salvarsi dal cancro.

Come fate a far conoscere le vostre attività?

Usiamo gli strumenti di comunicazione più frequenti, dal sito a Facebook, alla newsletter agli eventi. A breve lanceremo una campagna di comunicazione e raccolta fondi che si chiamerà BREAK THE WALL: vogliamo rompere il muro del silenzio, dell’indifferenza e della disperazione che oggi avvolge la malattia oncologica e isola le donne ammalate. Il messaggio BREAK THE WALL si indirizza sia alle donne ugandesi, per spingerle verso la prevenzione, e sia ai nostri connazionali, per sensibilizzarli verso la nostra causa e verso un diritto alla salute che speriamo un giorno  diventi universale.

Intervista di Bruno Bertucci