Le genti del Po e Brescia antica in mostra

Nel 295 a.C., a Sentino, in una vallata nel cuore delle Marche, l’esercito di Roma e dei suoi alleati sconfiggeva, in una battaglia dalle sorti incerte fino all’ultimo, la coalizione di popoli italici guidata da Sanniti e Galli Senoni. Con quella vittoria, Roma non solo affermava il suo dominio incontrastato sulla penisola, ma si apriva la via per la Valle Padana. Pochi anni dopo, avvenne la sottomissione del territorio senone e la fondazione della colonia latina di Rimini. Nei due secoli successivi, si avrà prima la definitiva conquista militare, poi il graduale inserimento dell’Alta Italia nel sistema politico romano, concluso nel 49 a.C. con la concessione della cittadinanza.

Le popolazioni che abitavano la Valle Padana erano di estrazione diversa. Le tribù celtiche, come Insubri, Cenomani e Boi, avevano ereditato le civiltà dei popoli etruschi, umbri, liguri, celti, avendone assimilato i costumi e costituendo un’elite politico militare organizzata. Anche i Veneti erano di antica origine, con una cultura urbana elaborata e comuni origini con i latini, mentre i Liguri, stirpe autoctona, erano organizzati su modello tribale. Se Veneti e Cenomani divennero alleati stabili dei Romani, Boi e Insubri rimasero a lungo ostili, così come anche il comportamento romano nei confronti delle varie tribù cambiava.

Brescia dedica a quella storia la mostra “Brixia. Roma e le genti del Po”, aperta fino al prossimo 17 gennaio presso il Museo della Città Santa Giulia. Attraverso corredi funerari, oggetti di guerrieri, monete e scritture e tanto altro, si sottolineano le caratteristiche dei vari popoli e il confronto con Roma, che poi diventa scontro e guerra o collaborazione. Il frontone di Talamone celebra la disfatta dell’ultima offensiva celtica nel 225 prima di Cristo sul promontorio toscano, ad esempio, mentre la risposta di Roma portò alla conquista della Valle Padana e alla vittoria di Casteggio. Poi si analizzano caratteristiche urbane comuni, come quelle del II secolo attraverso similitudini tra Rimini, Aquileia, Brescia, Milano, mentre vengono sviluppati nuovi culti e la fastosità dei palazzi e dei luoghi di culto denotano la ricchezza delle antiche genti. Ecco le pavimentazioni delle case private che dimostrano ricchezza non soltanto economica, ma raffinata, passando da laterizi semplici a pavimenti finemente decorati con vari tipi di motivi, oltre che decorazioni parietali, accanto al fiorire di manifatture locali per vasellame, bronzo, tessuti, ceramiche. Ancora in questa fase tornano di aiuto gli studi delle sepolture che, attraverso i corredi funerari, permettono di confrontare lo sviluppo delle varie civiltà sul territorio italiano. In tutto 450 oggetti potenziati dalla tecnologia digitale che, grazie alle multi proiezioni immersive, permette di ricostruire ambienti di vita e modi di vivere dei tempi andati.

Dodici le sezioni che vanno dal III secolo alla metà del I secolo a.C. I protagonisti sono inseriti nel paesaggio e si vedono esposte lamine in bronzo decorato a sbalzo ritenute appartenenti ad una tromba da guerra, ad un elmo o a elementi di animale totemico rinvenute in una tomba cenomane del III secolo a.C. Un busto fittile di guerriero da Ravenna, scultura in terracotta che raffigura un guerriero in nudità eroica con balteo e clamide riferito al modello del Diomede tipo Cuma. Kelebe a figure rosse da Adria, un grande vaso decorato con figure femminili, rombi concentrici e palmette sul collo, di produzione volterrana. La sezione sulla guerra porta a conoscere alcuni capolavori, come appunto il frontone di Talamone, in terracotta, decorato con altorilievi che rappresentano il mito dei Sette contro Tebe. L’architrave e la cornice presentano motivi vegetali. Sarebbe da collegarsi alla vittoria contro i Galli nella battaglia del 225 a.C. Poi c’è un elmo etrusco-italico da Berceto, rinvenuto nella tomba di un guerriero insieme ad armi defunzionalizzate a scopo rituale. Ancora, un ex voto in terracotta da Bagnara di Romagna raffigurante il volto di un devoto col capo coperto da un velo, rinvenuto in un deposito votivo e databile al II secolo a.C. Permette di rimandare all’ambito culturale e religioso etrusco-campano-laziale e documenta la presenza di coloni di origine centro italica nel territorio romagnolo.

Nascono le grandi città, inserite in un’efficiente rete viaria, dimostrazione della definitiva romanizzazione della Pianura Padana e dell’acquisizione dei modelli urbanistici ritenuti molto validi. Quindi ecco i vari oggetti che denotano questo momento, tra cui la parte inferiore di una statua panneggiata dal Museo di Palazzo Farnese di Piacenza, firmata dallo scultore attico Kleomenes, probabilmente raffigurazione di Apollo nella prima metà del I secolo a.C. Poi una statua femminile dal Museo Civico Archeologico di Milano, acefala, avvolta in un ampio e pesante panneggio, di difficile interpretazione, realizzata da un artista greco. È importante come testimonianza della ricezione dei modelli ellenistici nella cultura figurativa delle città transpadane. Poi un letto con rivestimenti in osso raffiguranti scene dionisiache, in cui un erote o un giovane Dioniso sostiene una cornucopia ai piedi di un’anfora. Sul poggiatesta decorazioni ad altorilievo con busti di eroti alati e corpi di leoni accovacciati. È stato rinvenuto in una tomba a camera, realizzato da artisti di tradizione centro italica come oggetto rappresentativo del rango del defunto. Interessanti due stele, una di Ostiala Gallenia, da Padova, e l’altra di Komevios, da Torino. La prima è una stele a bassorilievo raffigurante un viaggio negli inferi di un auriga e un uomo, abbigliati alla foggia romana, con una donna vestita alla moda venetica, su una biga tirata da due cavalli; la seconda è stata rinvenuta in una necropoli celtica e presenta una testa maschile con ai lati due motivi circolari concentrici, forse il disco solare. Un’iscrizione in alfabeto leponzio riporta essere di un personaggio di prestigio.

Interessante anche l’affresco di Sirmione, dipinto con una figura maschile all’interno di un quadro, vestita con una tunica e una toga exigua, tipiche della tarda età repubblicana, adornata con una fascia purpurea segno di appartenenza all’ordine dei cavalieri. Tra le mani regge un rotolo. Essendo plausibile si tratti di un letterato, rimanda alla figura di Catullo.

La bellezza degli oggetti prestati da vari enti esalta la stupefacente bellezza dei ritrovamenti bresciani. Brescia e provincia, infatti, hanno donato negli anni tantissimi reperti con un alto grado di conservazione degli stessi e degli edifici, caso unico nell’Italia settentrionale. In occasione della mostra, infatti, è stato reso fruibile il più esteso parco archeologico a nord di Roma. L’area si estende per circa 4.200 metri quadrati e consente di vivere dall’età romana al Rinascimento per stratificazioni urbane, dalla più antica del Capitolium (del 73 d.C.), ai palazzi nobiliari che cingono l’antica città romana. Il Capitolium, tempio nel quale veniva venerata la Triade Capitolina costituita da Giove, Giunone e Minerva, è stato rinnovato due anni fa e riproposto nella sua condizione originaria di tempio principale dell’antica città imperiale, con i frammenti scultorei e architettonici originari posizionati nuovamente in situ e i pavimenti in marmi policromi restituiti all’antico splendore. Dallo scorso autunno anche il teatro romano, uno dei più imponenti della Cisalpina, è stato integrato nei percorsi di visita a seguito di un intervento di rivalorizzazione che ha riqualificato l’area urbana cuore della città romana, Brixia. Tutto questo inserito nel piano di gestione del sito UNESCO del quale quest’area cittadina fa parte. Si può così, ora, facilmente intuire come Brescia fosse una delle città più importanti dell’Italia settentrionale, situata lungo la via Gallica allo sbocco delle vallate alpine di antico insediamento, tra i laghi d’Iseo e di Garda su una pianura fertile valorizzata in età augustea con imponenti lavori per l’organizzazione agraria, le famose centuriazioni.

Una mostra interessante e da visitare con tranquillità per poi godersi Brescia, città spesso defilata dagli itinerari turistici, ma dalla superba bellezza.

 

Alessia Biasiolo

 

 

 

Saggi di scultura a Castello d’Agogna

Prosegue con successo a Castello d’Agogna la stagione espositiva “Arte solidale a Castello Isimbardi” promossa dalla Fondazione Vera Coghi.

Sabato 22 agosto alle ore 17.00, nelle sale di Castello Isimbardi, per la rassegna “7 mostre per la Lomellina” inaugura la collettiva “Tra figura e astrazione: saggi di scultura” a cura di Giuseppe Castelli con circa venti sculture che dialogano perfettamente con le opere di Alberto Ghinzani poste nel parco e nella corte interna del Castello; anche perché ancora una volta ricompare il profondo legame con il territorio e la natura: dalle riflessioni in ferro delle creazioni del vigevanese Francesco Contiero allo studio del’animo umano del tortonese Gianni Bailo; dalla ricerca geniale attraverso l’assemblaggio di oggetti dismessi e recuperati di Niccolò Calvi di Bergolo alle sculture in argilla scrutata e scavata dell’alessandrina Gianna Turrin.

Scrive Giuseppe Castelli: “L’astrazione che diventa figura e la figura che si fa astrazione è la sintesi del millenario percorso della storia dell’uomo e della sua visione della realtà. Figura ed astrazione diventano i due poli estremi anche di questa mostra, in cui gli artisti, attraverso sofisticate simbologie ed ardite creazioni, lasciano traccia delle contraddizioni del nostro tempo”.

Francesco Contiero 2Francesco Contiero. Le sue creazioni consentendo nuove soluzioni spaziali. Il reimpiego di oggetti sui quali il tempo ha lasciato il segno si contrappone all’uso nella stessa opera di materiali modernissimi e senza storia.

Metalli splendenti e vetro trasparente accanto a pezzi di legno sfibrato dai secoli e a ferri arrugginiti segnano l’incontro tra due modi diversi di pensare e costruire la realtà.

Gianni Bailo ha intrapreso un deciso ritorno al figurativo. Prima era stato lo studio delle mani e del loro movimento ad aprire uno squarcio verso affetti e moti dell’animo umano, ora sono invece i volti ad essere interpreti assoluti di sentimenti ed atteggiamenti psicologici, che l’artista rileva attraverso uno studio attento dell’anatomia del volto umano.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Niccolò Calvi di Bergolo. Una ricerca geniale di forme libere nello spazio e di insolite volumetrie, spesso ottenute anche attraverso l’assemblamento di oggetti dismessi e recuperati. Sperimentatore instancabile ed eclettico, Niccolò Calvi stupisce per la grande capacità nell’utilizzo dei materiali più diversi, dalla pietra al ferro al legno alla docilissima carta, trovando nuove armonie.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Gianna Turrin. Con linguaggio innovativo e nello stesso tempo arcaico, Gianna Turrin ci riconduce all’archeologia mediterranea, all’origine del pensiero ed al confronto tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che dovrebbe essere. La classicità del materiale e nello stesso tempo la sua povertà, uniti alla capacità e all’ecletticità dell’artista, producono risultati talvolta spiazzanti in una dimensione sempre poetica e affascinante.Gianna Turrin 2

Fondazione Vera Coghi – Castello Isimbardi, Castello d’Agogna (PV)

Dal 22 Agosto al 16 Settembre 2015

de Angelis

 

Il colore si accende per Nicola Alberto Bottalico

Orizzonti e icone di luci, alberi e boschi di notte. Nicola Alberto Bottalico torna ad esporre le sue installazioni luminose nella Sala di Rappresentanza del Comune di Pianello Val Tidone dal 23 al 26 agosto per un breve e intenso viaggio che pone il visitatore al centro di un’esperienza visiva e sensoriale unica, dove la luce ne è l’elemento primario.

2.1 Nicola Bottalico, Rovi,  2015, acquarello, cm 23x16 - Copia“Il colore si accende / 2” è per Nicola Alberto Bottalico un gioco di apparizione-scomparsa dell’oggetto immagine in un’accurata selezione di acquarelli, chine e tecniche miste esaltate dalla luce, la proposta assolutamente innovativa, tra creatività e tecnica di light design, di un percorso artistico fatto di ricerca e sperimentazione che si concretizza in opere dal grande impatto visivo.

In mostra un ventina di lavori di varie dimensioni, dove la ricerca fuori dagli schemi tradizionali propone risultati di straordinaria intensità emotiva.

L’autore ha valorizzato le opere originarie dando loro forza e luminosità attraverso una retroilluminazione che spariglia il mazzo e offre un prodotto artistico nuovo: l’immagine di partenza interagisce con la retroilluminazione a led mutando e scomponendosi in un processo dove gli aspetti tecnici, come la ricerca della grammatura per la carta più adatta o la giusta intensità cromatica del calore della luce, diventano importanti.

5.1 Nicola Bottalico, Alberi, 2014, acquarello e china, cm 87x58 - CopiaIl risultato è l’esaltazione delle forme e dei colori dell’opera stessa, offrendo al pubblico un risultato sorprendente che ne esalta la cromia moltiplicandola.

La luce si diffonde, gioca di sponda e amplifica la percezione e gli stimoli sensoriali che nascono da immagini realizzate da linee lievi e delicate di lavori minuziosi, quasi maniacali nella loro perfezione.

Nicola Alberto Bottalico è un autodidatta. Non ha seguito corsi, non è stato all’Accademia, non ha avuto insegnanti di disegno, ma l’infinita passione per l’arte, la pittura e il disegno gli hanno permesso di realizzare, mediante la giusta intensità tra luce artificiale e colore, la trasformazione delle sue opere in altra dimensione, dove la prospettiva e la profondità si esaltano affinandone la forza espressiva.

8. Nicola Bottalico, 2014, acquarello, cm 36x26 - CopiaNasce a Milano nel 1952 da una famiglia da generazioni di notai ed avvocati. Fin da bambino esprime una forte vocazione per il disegno e l’arte, ma il padre lo convince ad essere “serio” e lui studia al liceo classico, anziché all’artistico, si laurea in legge, anziché all’Accademia di Brera ed infine diventa avvocato invece che artista… ma ora, dopo quarant’anni di professione, decide di svelare la vera passione che lo ha accompagnato tutta la vita: l’arte, il disegno e la pittura.

Sala di Rappresentanza

Pianello Val Tidone (PC)

Dal 23 al 26 Agosto 2015

Orari di apertura al pubblico: domenica 23 e mercoledì 26 dalle 10 alle 21; lunedì 24 e martedì 25 dalle 17 alle 21. Ingresso libero.

de Angelis

 

Musica dal paradiso per Lindqvist

L’incubo peggiore di ognuno di noi. Non esistere. Avere la percezione dell’azzeramento dell’esistenza esistendo. Un preludio di cosa ci sarà dopo la morte. Lo smembramento delle nostre certezze. L’azzeramento dei nostri punti saldi. E anche il dramma di avere il tempo e lo spazio per scoprire tutto di noi: i nostri timori, i nostri drammi interiori, le nostre colpe e le mancanze di una vita normale che, improvvisamente, si trova alla resa dei conti. È questo il contenuto di “Musica dalla spiaggia del paradiso”, ultimo lavoro di John Ajvide Lindqvist, autore svedese affermato. Il clima è proprio nordico. Persone in un campeggio che cercano la vacanza o di ingannare il tempo e che, improvvisamente, devono affrontare il nulla. Svegliandosi al mattino scoprono che tutto è scomparso. Altre persone, auto, camper, paesaggio, tutto. Nel nulla niente funziona. Hanno poco cibo. Si devono riscoprire antichi esploratori comportandosi, malgrado la guida di un Suv, proprio come i nostri progenitori quando dovevano andare a caccia. Adesso devono trovare un segnale per la radio, per il telefono cellulare, per connettersi con un mondo che non c’è più. E dove sarà finito? Il dilemma è quello classico di questo genere di romanzi che rasentano l’horror: il nulla è nostro o altrui? Siamo noi nel niente oppure sono gli altri a non esserci? Le domande esistenziali che sottendono questo bel lavoro, carico di suspance lenta e nebulosa proprio come l’ambiente che ci si immagina dalle prime pagine della descrizione dell’accaduto, si susseguono mentre si snoda pian piano la vita dei protagonisti. Il domandarsi cosa si era scelto di fare andando laggiù con un uomo che si sapeva già non sarebbe stato ancora a lungo il proprio marito e che, poi, perché lo si era sposato? A che servono i propri marmocchi se si trascorre la vita sul ciglio di una crisi di nervi? Perché trovare romantico un posto in cui non ci sarebbero state le proprie preferite cose da mangiare? Insomma, perché vivere così e continuare a vivere così se non si è vivi affatto? Il paesaggio scomparso in cui si trovano a vagare come ombre dell’assurdo Peter, Molly, Donald, Majvor e pochi altri, è proprio il vivere quotidiano della maggior parte degli esseri umani. Il nulla. L’assurdo del vivere senza farlo. L’Autore conduce il lettore ad un’appassionante riflessione su se stessi proprio mentre accompagna i propri personaggi a cercare non più l’autore, ma il palcoscenico, perché il mondo non basta più, non giustifica il vivere e non lo spiega affatto. Si fa strada sempre più, o si acutizza per chi già era sul’orlo del baratro personale, l’angoscia: quel qualcosa che non si curava ora è assente e già manca, lo vi percepisce come una nostalgia pungente che fa male, molto male a chi la prova.

La paura della perdita così sapientemente spiegata dagli psicologi, con Lindqvist diventa reale, tangibile, vera, percepita, possibile da spiegare e da leggere così come avviene, così come nasce e prende forma. Il peggior incubo diventa realtà e si materializza sotto gli occhi del lettore con una maestria da principe del thriller psicologico. La paura, ma anche la rabbia, il risentimento, l’angoscia e il terrore sono materializzati e spiegati dall’Autore con un’acutezza spaventosa e che permette a ognuno di identificarsi nel romanzo stesso, come se le pagine prendessero forma e diventassero noi stessi in vari momenti della nostra vita, anche solo nei sogni o negli incubi. Un romanzo da leggere d’un fiato senza cercare per forza di capirlo, ma lasciandolo entrare nella nostra mente e nella nostra anima per vedere se sa suscitare emozioni inconfessabili o che non pensavamo di provare. E l’assurdità del viver quotidiano diventa ancor più bruciante quando le persone che cercano di scoprire cosa sta loro accadendo, o cosa è accaduto al resto dell’umanità, dissertano sulla copertura di un telefono cellulare, ammettendo che quelli di vecchia generazione hanno una copertura migliore dei moderni, ergo forse possono connettersi con il mondo reale prima e meglio. Forse. Poi, nel dramma, arriva la follia. Può essere della piccola Molly che si diverte a guardare un film horror in cui le persone vengono squartate, oppure la nausea per tutto ciò che sta accadendo o non accadendo attorno, ma anche la materializzazione della domanda inconscia di ogni genitore che sta mettendo al mondo un figlio. Cosa sarà? Potrebbe essere un mostro? O potrà diventarlo? Peter si trova a vivere anche questo: chi è sua figlia? O meglio, cos’è? Neanche gli animali sono risparmiati e vivono della novità come se avessero un’anima. Alla fine, tutto viene a galla, proprio grazie all’assenza. Le proprie paure materializzate permettono agli essere umani di capire se stessi e la loro vera natura, mentre scoprono lo stesso dei loro amici e conoscenti. O forse no. Forse tutto è un abisso senza senso. Forse non è nemmeno verro. Forse il paradiso è solo il vuoto. Chissà…

Da leggere, per gli amanti dei brividi e della narrazione perfetta.

 

John Ajvide Lindqvist: “Musica dalla spiaggia del paradiso”, Marsilio, Venezia, 2015, pagg. 430; euro 18,50.

 

Alessia Biasiolo

 

Luca di Paolo e il Rinascimento nelle Marche

Luca di PaoloPer la prima volta a Matelica un’esposizione dedicata a Luca di Paolo, uno dei protagonisti del Rinascimento nelle Marche di cui, grazie ai nuovi studi, si è in grado di ricostruire le vicende artistiche e biografiche. Nelle splendide sale di Palazzo Piersanti sono raccolte le sue opere e quelle di artisti a lui contemporanei, al fine di presentare al pubblico e agli studiosi il percorso di uno dei più stravaganti interpreti del Quattrocento nelle Marche. La mostra si fregia di prestiti importantissimi provenienti dai maggiori musei statali d’Italia e da collezioni private italiane ed estere. Alcune opere saranno esposte per la prima volta al pubblico perché recentemente recuperate dopo decenni di oblio tra le vie del mercato. Luca di Paolo è uno dei massimi protagonisti del Rinascimento dell’Appennino, tra Umbria e Marche ed è un pittore riscoperto di recente: nel dicembre del 2001 Alberto Bufali trovò gli atti di commissione e poi di pagamento per una grande pala d’altare con la Crocifissione destinata alla chiesa della Confraternita della Santa Croce a Matelica. Quel dipinto, ora conservato al Museo Piersanti, era considerata opera tipica e fondamentale di Francesco di Gentile da Fabriano, un altro pittore a cui la critica aveva affidato l’intero catalogo di Luca. Quella scoperta diede finalmente un volto artistico ad un personaggio che era conosciuto solo per via documentaria ma di cui non si conosceva alcuna opera certa.

Luca di Paolo non era solo un pittore, ma un vero e proprio legato della Signoria di Matelica, gli Ottoni, il cui palazzo quattrocentesco domina tuttora la piazza principale della città. A lui vengono affidate procure per compravendita di immobili della famiglia e per altri affari in città e fuori. A questa sua attività diplomatica affiancava anche quella di pittore. Dall’inizio degli anni ‘60 del quattrocento, fino all’anno della sua morte, avvenuta entro i primi giorni del 1491, Luca svolge un percorso stilistico personale e quasi isolato nel panorama della Regione, ma senz’altro di qualità. Le sue prime opere sono incentrate ancora sul ricordo della ricchezza e della eleganza di Gentile da Fabriano, mediate forse attraverso l’insegnamento di un altro pittore locale, il Maestro di Staffolo, che potrebbe essere stato il maestro di Luca. Quel mondo è però sempre sostenuto da un’espressività graffiante, quasi grottesca e da un utilizzo dei materiali preziosi davvero straordinario. L’oro e l’argento sono usati a profusione nelle sue opere per la creazione di opere dall’impatto davvero sorprendente.

L’incontro con Niccolò di Liberatore, presente a San Severino Marche nel 1468 e il lungo rapporto documentato con Lorenzo d’Alessandro permettono a Luca di dialogare con i maggiori artisti marchigiani del suo tempo e di far evolvere il suo linguaggio verso una maggiore adesione ad uno stile prospettico e maturo. L’arrivo di Crivelli in zona, attivo a lungo per Camerino, coinvolge in maniera tangente ma consapevole anche Luca di Paolo che nelle opere più tarde si concentra sulla poli matericità delle superfici, ricche di incisioni sui metalli e pastiglie a rilievo. Sembrerà un caso, ma proprio con la morte di Luca di Paolo, sarà proprio Carlo Crivelli a conquistare un’importante commissione per gli Ottoni, in un ideale passaggio di consegne.

Luca di Paolo e il Rinascimento nelle Marche, Museo Piersanti, Matelica, fino all’1 novembre 2015

 

Barbara Izzo e Arianna Diana

 

 

Per un’estate thriller, “La Contessa Rossa” di Niky Marcelli

Adatto al lettore appassionato di gialli, ma anche di fatti da casa nostra, il nuovo romanzo di Niky Marcelli, giornalista milanese con sfumature newyorkesi e romane. La trama di un racconto intenso e con buoni spunti, si intreccia al settantesimo della conclusione della seconda guerra mondiale, a lotte partigiane contro nazisti feroci; non manca il mistero e l’ispezione di gallerie segrete, con roboanti vetture sfreccianti tra Bormio, Cesenatico, Firenze e molti altri interessanti posti. Citate realtà che molti italiani forse non conoscono, come l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ma anche altri accenni di storia e di storie, che il lettore si divertirà a scoprire se sono vere o romanzate.

Tutto ruota attorno a due belle ragazze attuali, una contessina e una giornalista mezza squattrinata, e una donna di un tempo, i cui resti sono stati ritrovati sulle Dolomiti. Non manca la traccia esotica, per eredi di un nazista che vivono in America Latina. Buono l’impianto complessivo, se si sorvola sui difetti di digitazione ortografica che si trovano un po’in tutte le pagine, e su alcune imperfezioni di concetto che, tuttavia, sono perdonabili nella dinamica generale delle oltre quattrocento pagine. Qualche calo di tono in descrizioni che appaiono scolastiche, non incide sul romanzo nel suo complesso che lascia intravvedere come l’autore abbia ancora spazio per regalarci altri romanzi; le sue pagine sicuramente denotano l’abitudine all’inchiesta e al girovagare che, sia in ambito giornalistico che letterario, fa bene non solo alla traccia romanzesca, ma alla capacità di creare intrecci non scontati. Da approfondire ho trovato la tecnica descrittiva. Ma andiamo un po’ in profondità.

Il romanzo si presta a soddisfare il più vasto pubblico e mantiene tutti gli ingredienti necessari a creare un giallo. C’è l’omicidio e l’inseguimento, il pedinamento e lo scasso; qualche sprazzo di sesso che sempre serve da pinza in questo genere di lavori; l’intuito femminile e i bei posti in cui pernottano o si soffermano in vacanza le belle protagoniste. Il ritrovamento dei resti della Contessa Rossa e di una borsa piena di fogli, si porta appresso il fascino dei famosi documenti rubati, trafugati o distrutti durante gli ultimi momenti della seconda guerra mondiale italiana, argomento che ha fatto parlare e discutere a lungo. E il mistero della “Spada di Odino” che il lettore deve scoprire cosa sia nel proseguo della lettura, sempre più affascinante mano a mano che si continua nella scoperta di questo autore, rende un banale episodio di cronaca e la storia di gossip che circonda una contessina, un vero e proprio affare da thriller internazionale. Buoni i personaggi ritagliati da cronache che sembrano vere, dimostrando qui la penna del giornalista, ma anche la passione per la narrazione.

Tratto interessante del lavoro è proprio il vasto apparato di circostanze e di ambienti che difficilmente si trovano in testi italiani, ingentilendo di letteratura i percorsi di vita dello scrittore.

Un romanzo da non perdere e da consigliare.

 

Niky Marcelli: “La Contessa Rossa”, Teke Editori, Roma, 2015, pagg. 424; euro 18,00

 

Alessia Biasiolo

 

Ultimi giorni per iscriversi a Vinitaly

Sono ancora aperte le iscrizioni a Vinitaly 2016. Dopo il successo registrato nel 2015, con 150mila visitatori e incoming di buyer esteri da oltre 140 Paesi, quella del prossimo anno sarà un’edizione speciale. Il Salone Internazionale del vino e dei distillati compie infatti 50 anni (10 – 13 aprile 2016). Un traguardo importante a sottolineare il riconoscimento internazionale raggiunto dalla manifestazione e che Veronafiere-Vinitaly intende confermare con novità e investimenti mirati. Le cantine interessate, fino al 31 agosto, possono prenotare la propria area espositiva al prezzo agevolato della scorsa edizione.

Con l’iscrizione a Vinitaly ogni azienda vitivinicola ha inoltre diritto ad un ingresso gratuito per partecipare alla seconda edizione di wine2wine (2 e 3 dicembre 2015). É infatti già possibile iscriversi anche al forum dedicato al business del vino organizzato da Veronafiere presso il Centro congressi di viale del Lavoro. Un’occasione di incontro-confronto per le aziende del comparto vino, che nel 2014 ha registrato oltre 1.000 presenze tra titolari, responsabili marketing, export manager ed altri executive aziendali e che quest’anno è pronta ad offrire una nuova finestra sulle tematiche di maggiore interesse per il business delle cantine: dagli scenari di mercato all’export, alla gestione economico-finanziaria fino alle strategie di marketing e comunicazione.

Migliorare la conoscenza del vino italiano all’estero, semplificandone il linguaggio e unificandone l’immagine a livello internazionale: questa la tematica che collega invece le prime tappe del Vinitaly International: Shanghai Wine & Dine Festival (18 – 20 settembre 2015), Hong Kong International Wine and Spirits Fair (5 – 7 novembre 2015) e Vinitaly Russia, che anche quest’anno si terrà presso l’esclusivo Swissôtel Krasnye Holmy il prossimo 16 novembre. Le aziende del settore wine&spirits interessate possono trovare informazioni e modalità per iscriversi sul sito di Vinitaly International, che riserva un ingresso gratuito a wine2wine alle cantine che effettuano la prenotazione ad almeno una delle prossime tappe in programma.

 

Veronafiere

 

 

 

 

A “Fatima” del Giffoni il premio Amnesty

Il Premio Amnesty 2015 al Giffoni Film Festival va a “Fatima” di Philippe Faucon (Francia, 2015). A scegliere il lungometraggio che ha meglio rappresentato il tema dei diritti umani è stata una giuria di attivisti di Amnesty International del gruppo di Napoli con questa motivazione: “Fatima è un film sincero. Un film che ci presenta senza fronzoli la storia di una donna in grado di affrontare con forza ammirevole le sfide della società contemporanea. Una bella parabola sull’integrazione che non ha paura di mettere a nudo le ipocrisie e i timori di chi vive condizionato dai propri stereotipi.” Giunto alla sua sesta edizione, il Premio Amnesty Corto 2015 è stato assegnato da una giuria di attivisti dell’Agro Nocerino Sarnese a “Beach Flags” di Sarah Saidan (Francia, 2014) “per la capacità di raccontare la voglia di cambiamento delle donne e delle ragazze iraniane, costrette da norme ingiuste a limitare la propria libertà di espressione. La determinazione della protagonista nel perseguire il proprio sogno sportivo, nonostante gli ostacoli imposti da una società che non permette alle donne di allenarsi liberamente, non le impedisce di fare un passo indietro per salvare un’amica. Il coraggio di compiere un’azione giusta in una società che soffoca i diritti umani e l’altruismo di chi è pronto ad aiutare gli altri, anche a costo di uno svantaggio personale, sono attitudini rivoluzionarie e rappresentano l’indispensabile primo passo per costruire una società più rispettosa della dignità umana.” Nel corso del Giffoni Film Festival, Amnesty International ha sensibilizzato giurate e giurati sulle violazioni dei diritti umani nel mondo. In particolare, si è affrontato il tema cinema e diritti umani durante la Masterclass di Alessandro Rak e si è parlato di libertà di espressione con Maurizio Casagrande, che ha promosso e sostenuto il caso del blogger saudita Raif Badawi. Nel corso della proiezione del film fuori concorso “Né Giulietta, né Romeo” di Veronica Pivetti, patrocinato da Amnesty International Italia, è stato affrontato il tema bullismo omofobico e presentato il progetto Scuole attive contro l’omofobia e la transfobia. Nelle precedenti edizioni, il premio Amnesty Giffoni Film Festival è stato assegnato a “The Wooden Camera” di Ntshaveni Wa Curuli (2004), “Innocent Voices” di Luis Mandoki (2005), “Zozo” di Josef Fares (2006), “Rosso Malpelo” di Pasquale Scimeca (2007), “Heart of Fire” di Luigi Falorni (2008), “Skin” di Anthony Fabian (2009), “The story of me” di Luiz Villaça (2010), “Lost in Africa” di Vibeke Muasya (2011), “Stay” di Lourens Blok (2012), “Mike says goodbye!” di Maria Peters (2013) e “Lucky Devils” di Verena Endtner (2014). Nelle scorse edizioni il premio Amnesty Corto Giffoni Film Festival è stato assegnato a “DisAbili” di Angelo Cretella (2010), “Hai in mano il tuo futuro” di Enrico Maria Artale (2011), “Heimatland” di Loretta Arnold, Andrea Schneider, Marius Portmann e Fabio Friedli (2012), “Hollow Land” di Uri Kranot e Michelle Kranot (2013) e “Feathers” di Adriano Giotti (2014).

Amnesty International Italia