Mercoledì 2 dicembre il secondo concerto del Teatro Carlo Felice nel palinsesto “Aperti nonostante tutto”

Lorenzo Passerini

Mercoledì 2 dicembre alle ore 21.00, in streaming su tutti i canali social del Teatro Carlo Felice e su www.anfols.it, secondo appuntamento con l’Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova all’interno del palinsesto Aperti, nonostante tutto, promosso dall’ANFOLS (Associazione Nazionale Fondazioni Lirico Sinfoniche) e sostenuto dall’ANSA.

Sul podio, il giovane direttore Lorenzo Passerini, impegnato in un programma che valorizza la musica sinfonica italiana dell’Ottocento e della prima metà del Novecento; in particolare, quella della cosiddetta “generazione dell’Ottanta”, un gruppo di compositori che ebbe l’enorme merito di aprire l’Italia alle più avanzate esperienze musicali europee dell’epoca e, al tempo stesso, di riallacciarsi all’antica e nobile tradizione strumentale italiana che aveva fatto scuola dal Cinquecento al Settecento.

Aprono il concerto tre brani, Gavotta op. 55 n. 2, Notturno op. 70 e Giga op. 61 n. 3 di Giuseppe Martucci (1856-1909), principale esponente del sinfonismo italiano tardo ottocentesco; quindi, l’omaggio alla “generazione dell’Ottanta”, con Paganiniana di Alfredo Casella (1883-1947), fantasioso divertimento su temi di Paganini, e la suite descrittiva ed evocativa Gli uccelli di Ottorino Respighi (1879-1936).

 

Massimo Pastorelli (anche per le fotografie)

Epidemie italiane: il colera “politico”

(segue)

Addirittura i deputati comunali o i parroci altalenavano nelle credenze, combattuti all’idea che nelle teorie complottiste ci fosse qualcosa di vero. Spesso scoppiavano disordini, perché si temeva l’uso politico di una malattia diffusa appunto dai politici e le persone, oltre ad organizzare le rivolte, rifiutavano l’ospedalizzazione per timore di essere ammazzate in ospedale. Soltanto lo spaventoso numero dei morti, salito ad oltre ventimila nella città di Torino ad esempio, farà sedare gli animi e li rese più disponibili ad ascoltare le parole del sindaco.

In Sardegna, il colera fece scattare una forte opposizione antipiemontese, data l’unione delle due regioni in un unico Regno.

Nella “colta e civilissima” Firenze, come veniva definita al tempo, il caso di colera tra i carcerati fece diffidare dei pubblici poteri.

Al Sud, si pensava male dei Piemontesi, alludendo alla guerra di Crimea da dove molti soldati erano in effetti tornati ammalati, ma si pensava anche a un “veleno” sparso tra la popolazione dalle autorità napoletane per sfoltirla e intimorire i sopravvissuti, memori della pesante azione antiliberale messa in atto dopo i moti del 1848 che avevano portato con sé fucilazioni e arresti.

Anche a livello politico si vigilava affinché non ci fosse utilizzo del colera come arma contro il governo, o di una parte politica contro l’altra.

Nel 1856, una lettera anonima accusava un deputato di avere avvelenato l’acqua con il verderame e di avere attribuito a Ferdinando II il colera-veleno. Altri avevano diffuso la voce che un fornaio, a Silvi, aveva avvelenato il pane, sperando così di causare un’insurrezione e di mettere a sacco il forno.

Alcuni gridavano all’avvelenamento delle spighe di grano con fosfato di fiammiferi.

Nei territori di Chieti e Pescara, venne fatta comminare una buona dose di legnate a chi propagava notizie sediziose sul morbo. Fu subito chiaro che dove le misure repressive adottate erano più drastiche, il popolo rispettava maggiormente le indicazioni date e i disordini furono nulli, per evitare che si ripetessero le sommosse viste nel 1837.

La repressione era utile anche contro gli allarmisti, che spesso erano donne popolane, perché il panico diventava pericoloso tanto quanto la malattia.

Un povero girovago di Brindisi, Francesco D’Alessio, ad esempio, entrato da un pizzicagnolo, venne visto toccare dei ceci arrostiti, forse perché ne avrebbe voluto per mangiare; poi venne visto entrare in un’osteria dove da solo si servì di un bicchiere di vino al banco. La voce circolò subito e venne accusato di avvelenamento: rincorso dalla folla inferocita, trovò rifugio in chiesa. Il piglio divertito del giudice istruttore fa comprendere la tragicommedia che denota la paura diffusa in tempi drammatici.

Lo smarrimento dinanzi all’impossibilità di azioni contro la malattia, faceva aumentare il timor panico, l’odio verso qualcuno, il pregiudizio e a volte si innestava sulla criminalità usuale. Spesso si rispondeva al contagio dicendo di stare in casa, a finestre tappate, soprattutto laddove si pensava che nubi di aglio bruciato stessero vagando portando il colera.

Si ebbe poi un colera nazionalpopolare nel 1865-67 quando si ribadisce dalle colonne del saggio di Michele Lessona “Volere è potere” che non era vero che il colera fosse inviato al popolo dal governo liberale, ma di certo il detto governo aveva le sue colpe, dal momento che i liberali non si erano fatti scrupoli di mantenere viva nel popolo la credenza degli untori politici se faceva comodo.

(continua)

prof.ssa Alessia Biasiolo

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza di genere

La Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, mercoledì 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ha proposto una serie di incontri in digitale con due classi dell’Istituto tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna e una classe del polo liceale Rambaldi- Valeriani-Alessandro di Imola.

L’iniziativa si inserisce nel progetto NoiNo.org della Fondazione del Monte – coordinato dall’associazione Il progetto Alice e gestito da Rete Attraverso lo Specchio – che ha l’obiettivo di contrastare la violenza di genere cercando di cambiare i modelli maschili e sensibilizzando i più giovani attraverso percorsi educativi rivolti alle scuole superiori, corsi di formazione per insegnanti ed eventi pubblici aperti a tutti.

Quest’anno NoiNo.org, con lo slogan Prendiamo parola contro la violenza sulle donne, si impegna contro il cyberbullismo e la violenza maschile che passa dai social media e dalla rete, una violenza che purtroppo con l’emergenza sanitaria si è fatta ancora più forte e capillare.

Tra i 18 e i 29 anni un ragazzo su quattro pensa che la violenza sulle donne sia dovuta a un raptus momentaneo, giustificato dal troppo amore, e che vada risolta dentro le mura di casa. Una percentuale preoccupante di teenager di entrambi i sessi tollera che in una relazione ci siano comportamenti violenti e possessivi. I maschi, in particolare, condividono una visione fortemente sessista e stereotipata delle differenze di genere. Infine, per il 21% delle ragazze e dei ragazzi, il cyberstalking rientra nella normalità.

Quest’anno, per coinvolgere e sensibilizzare gli studenti su questi temi anche in piena pandemia, NoiNo.org e la compagnia PartecipArte hanno deciso di trasferire online attività che normalmente svolgono in laboratorio e a teatro.

L’attrice Claudia Signoretti e l’attore Olivier Malcor hanno proposto a due classi dell’Istituto tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna e a una classe del Liceo Rambaldi Valeriani di Imola un laboratorio online per permettere loro di affrontare in diretta alcuni problemi della cultura maschilista. I ragazzi hanno potuto inoltre sperimentare a distanza alcuni sketch tratti da Amore mio – Quando una relazione diventa pericolosa, uno spettacolo di Teatro Forum costruito per mostrare le tappe che portano alla violenza e suggerire soluzioni che possano aiutare chi si trova in una relazione pericolosa. Il Teatro Forum è un genere molto particolare, in cui il pubblico può interrompere l’azione e intervenire per cambiare la storia, scoprendo così in presa diretta le difficoltà d’intervento, comprendendo strategie pericolose e individuando possibili vie d’uscita.

«La nostra attenzione va a tutti i progetti che mirano a difendere la dignità della persona, una dignità svilita dagli atti di bullismo e cyberbullismo e a maggior ragione annientata da violenze domestiche che spesso portano addirittura alla morte. Purtroppo, nei contesti in cui il valore della vita è ridotto a zero, le donne e i bambini sono spesso le vittime più deboli» afferma Giusella Finocchiaro, Presidente della Fondazione del Monte.

«Il progetto NoiNo.org porta in classe temi di cui si parla solo superficialmente come fatti di cronaca, per svelare invece come la violenza sulle donne ci riguarda tutti da vicino. Per prevenire la violenza di genere è infatti necessario imparare a creare relazioni alla pari, basate sull’ascolto e sul rispetto reciproco, riconoscendo il valore delle differenze, dell’autonomia e della fiducia, senza il controllo e il possesso. Lo spazio educativo della scuola è dunque un luogo privilegiato per sensibilizzare i più giovani sui comportanti da adottare. Abbiamo deciso di scommettere su questi tempi, consapevoli del ruolo di presidio sociale e culturale della scuola nelle nuove modalità di relazione tra docenti e alunni/e, o con le famiglie» dichiara Cristina Gamberi, referente della Rete Attraverso lo Specchio.

«Noi di PartecipArte portiamo in scena i conflitti, gli abusi, le violenze e le discriminazioni, invitando il pubblico a trovare delle soluzioni per cambiare una cultura maschile che è tossica e dannosa e che spesso ci intrappola in relazioni pericolose – spiega l’attore Olivier Malcor di PartecipArte. Cerchiamo di usare giochi, teatro e altre forme di intrattenimento per affrontare collettivamente questi problemi e cercare di risolverli insieme».

Informazioni su: www.noino.org

Delos

 

La stagione concertistica al Ristori di Verona

Slitta al 7 dicembre prossimo l’avvio della stagione di concerti programmata al Teatro Ristori dalla Società Amici della Musica per la stagione 2020/2021.

I tre spettacoli iniziali, saltati a causa del decreto Covid, verranno riprogrammati, per cercare di portare a compimento il programma nella sua completezza.
Le tredici rappresentazioni si dovevano svolgere a partire dal 28 ottobre fino al prossimo 26 aprile. Adesso invece lo start è fissato al 7 dicembre alle 20.30.

Il cartellone degli eventi

Si parte il 7 dicembre con l’opera Franz Liszt “Parafrasi, parodie, trascrizioni, reminiscenze, improvvisazioni nell’800 pianistico tedesco” diretta di Maurizio Baglini.
Il 14 dicembre è il turno del Quartetto di Cremona, che rappresenterà “Gli ultimi quartetti di Beethoven”.

Il 7 gennaio va in scena di Anna Tifu, accompagnata dal violino di Giuseppe Andaloro. Verranno suonate le opere di artisti come César Franck, Robert Schumann, Pablo de Sarasate.

Il 19 gennaio tocca a Diego Dini Ciacci, insieme all’oboe di del Trio d’Archi di Firenze, che comporranno opere di Mozart, Beethoven, Benjamin Britten, Astor Piazzolla.

Si continua il 9 febbraio con il Tango x 3 Quartet con l’opera “Il tango di Astor Piazzolla nel centenario della nascita” “Novecento”.

Il 16 febbraio è il momento del Trio Gallien, che suonerà musiche di Franz Joseph Haydn, Johannes Brahms e Dimitri Shostakovich.

Il 16 marzo tocca a Giovanni Gnocchi al violoncello e Roberto Cominati al pianoforte suonare i testi di Nadia Boulanger, César Franck Claude Debussy e Frédéric Chopin.

Il 23 marzo il pianoforte di Sofya Gulyak comporrà le musiche di Johann Sebastian Bach, Johannes Brahms, Frédéric Chopin e Modest Musorgski.

Il 7 aprile il Trio d’archi Boccherini suonerà i testi di Beethoven, Zoltàn Kodály, Leo Weiner, Jean Sibelius, Ernő Dohnányi.

Il 26 aprile concluderà la stagione il Philharmonisches Ensemble dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.

Per informazioni e per visionare il programma completo della rassegna consultare il sito http://www.amicidellamusicavr.it.

 

Roberto Bolis

Giornata del Contemporaneo. Escodentro – Outinside di Andrea Facco

Dal 5 dicembre, alla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti di Verona, in occasione della sedicesima edizione della Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI, esposizione dell’opera Escodentro – Outinside dell’artista Andrea Facco. Visibile al pubblico fino al 31 agosto 2021.

Primo esperimento dell’artista di “video pittura” realizzato attraverso 40 immagini dipinte su tela (35x50cm ciascuna) l’una contenente l’immagine successiva, in una cromia narrativa fluida e avventurosa, che lascia incerti riguardo alla realtà o alla illusorietà degli eventi narrati.

Questa prospettiva sospesa tra gusto per l’arcano e sperimentalismo tecnico, apre l’opera a una molteplicità di interpretazioni e letture differenti. L’apparente progressione di tutta la scena, in breve tempo, si rivelerà uno stallo destinato a ripetersi eguale a se stesso, un’inazione perenne di natura elicoidale, in cui nulla succede e, probabilmente, nulla è reale. L’eterno ritorno dell’uguale, in una prospettiva metafisica secondo la quale ogni gesto, ogni azione e ogni immagine si ripresenterà ciclicamente, identica a se stessa, in un universo in cui la temporalità è illusione e l’eternità l’unica realtà.

L’opera video sarà proiettata in Gam in “primaparete” dove saranno esposte anche alcune delle opere protagoniste e parte integrante dell’opera-video Escodentro – Outinside.

“Siamo grati ad Amaci che anche in questo anno difficile ha voluto mantenere un momento importante interamente dedicato al contemporaneo con l’ulteriore focus sulle collezioni dei musei, un tema sul quale come polo museale stiamo lavorando intensamente” dichiara Francesca Rossi direttore dei Musei Civici di Verona.

AMACI – Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani da sedici anni coinvolge musei, fondazioni, istituzioni pubbliche e private, gallerie, studi e spazi d’artista per raccontare la vitalità dell’arte contemporanea nel nostro Paese.
Quest’anno presenta un’edizione nuova già a partire dalla data, il 5 dicembre anziché ad ottobre, come da tradizione, per proseguire con il formato, che sarà ibrido con proposte online e offline, fino all’immagine guida, che quest’anno si è scelto di non affidare a un singolo artista, ma che sarà invece un mosaico digitale composto dalle opere di 20 artisti italiani proposti da altrettanti musei AMACI. Un modo, quest’ultimo, per raccontare la rete dei musei associati e riflettere sul senso di community, concetto da sempre al centro della manifestazione. Un’importante occasione per valorizzare gli artisti della collezione civica.

Ecco i 20 artisti e le rispettive istituzioni, che animeranno la Giornata del contemporaneo 2020: Paola Angelini (Ca’ Pesaro), Meris Angioletti (GAMeC), Barbara and Ale (PAC), Cristian Chironi (Museion), Comunità Artistica Nuovo Forno del Pane (MAMbo), Patrizio Di Massimo (Castello di Rivoli), Andrea Facco (GAM Verona), Giovanni Gaggia (Musma), Barbara Gamper (Kunst Merano), Silvia Giambrone (Museo del Novecento), Andrea Mastrovito (Palazzo Fabroni), Marzia Migliora (MA*GA), Nunzio (ICG), Nicola Pecoraro (MACRO), Luca Pozzi (FMAV), Alessandro Sambini (Mart), Marinella Senatore (Centro Pecci), Francesco Simeti (MAN), Justin Randolph Thompson (Madre), Emilio Vavarella (MAXXI).

Roberto Bolis

Epidemie italiane: il colera “politico”

L’epidemia di colera che ricorda Pellegrino Artusi in un suo aneddoto, colpì l’Italia a ondate successive nel 1854 e nel 1855.

Nel 1854 aveva colpito gli Stati sardi, parte della Lombardia e il Sud, mentre l’anno seguente colpirà tutta la penisola causando migliaia di morti.

Appena ci si rese conto di avere anche in Sardegna un caso di malattia, si formò una commissione medica che aveva lo scopo di coordinare le operazioni di soccorso e di studiare quel nuovo fenomeno patologico. L’eccessiva disponibilità ad ospitare in zone libere dall’infezione dei sassaresi immigrati, fece diffondere l’epidemia, almeno così pensò la popolazione alla morte per colera di uno dei sassaresi ospiti.

Il morbo si diffuse con una rapidità impressionante. A Ozieri ci furono casi di caccia all’untore, come da manzoniana memoria. Subito il paese sardo colpito dall’epidemia venne cordonato per impedirne l’accesso e l’uscita, in modo da circoscrivere il danno. I negozi vennero chiusi, tranne le spezierie e un caffè, e venne vietato il consumo di cocomeri, cetrioli e meloni, oltre che di ortaggi in genere, perché erano stati individuati come i principali responsabili del veicolo del morbo; le case degli ammalati vennero trattate a calce, per disinfettarle. Vietati i salassi a chi era nella prima fase della malattia, come pure l’esposizione dei cadaveri in piazza prima del funerale; ogni settimana si doveva sezionare un cadavere, evidentemente per studiarne gli effetti della malattia stessa.

I più colpiti erano i poveri, come spesso accadde, e in fretta si diffuse di nuovo, come già nella ricorrenti epidemie precedenti, il sospetto di veleni diffusi a scopo politico.

La stessa medicina ufficiale era divisa tra contagionisti e anticontagionisti, in aperta e aspra polemica tra loro, con tanto di battaglie tra le colonne di vari opuscoli medici e dando contraddittori consigli al governo in tema di misure da prendere per cercare di arginare il contagio.

Dalle colonne della “Gazzetta medica italiana”, ad esempio, Gaetano Strambio diffondeva le sue idee contagiste, contestate da Cavour che sollecitò il deputato e medico Angelo Bo, a controbattere l’assurda credenza della propagazione della malattia con un contagio ad arte.

In particolar modo, era credenza comune nella povera gente che fosse proprio il governo a volerla ammazzare tutta, attraverso i medici che avrebbero dovuto curarla.

(continua)

 

prof. ssa Alessia Biasiolo

 

Il fascino francese per il crimine di strada

La prima guerra mondiale vide alcune problematiche relative ai furti, compresa la continuazione delle vicende di Lupin, ma portò anche alla conclusione di attività criminose reali, come quelle che erano in atto proprio in Francia.

Partirono, infatti, per il fronte, interi gruppi criminali che scorazzavano dagli inizi del Novecento nella capitale francese, divenendo un vero e proprio fenomeno di costume. I delinquenti furono arruolati in massa e la maggior parte di essi non fece ritorno a casa, ponendo fine, in modo drammatico, ad un periodo di soprusi, rapine, crimini che, tuttavia, mai come allora influenzarono la musica, la moda, il cinema.

Grazie ai banditi, la trasgressione divenne un mito al quale anche le classi più elevate guardavano con attenzione. A partire dai quartieri allora più periferici di Parigi come Montmartre, Bastille, Belleville, si diffusero verso zone più centrali (Maubert, Les Halles, Montparnasse) membri di bande dai nomi che erano tutto un programma: Vestiti Neri, Aristocratici, Cuori di Ferro, ad esempio. Armati di curiose pistole che potevano diventare pugno d’acciaio o coltello a doppia lama ripiegabile, vestiti con maglie a righe e portando un fazzoletto al collo di colore diverso a seconda dell’appartenenza alla banda, i malviventi presero il nome di Apache grazie ad un articolo apparso il 12 dicembre 1900 su “Le Matin”. Erano, infatti, anni di trepidante attenzione per le notizie che arrivavano dalla conquista del West americano e le tribù indiane d’America facevano notizia, così il giornalista francese Fouquier soprannominò le bande criminali dei bassifondi parigini “tribù di apache”. Termine che corse subito sulla bocca di tutti. I criminali avevano un codice proprio che capiva solo un altro membro della banda; assalivano i passanti, oppure i proprietari dei negozi, armati di bastoni, bottiglie, coltelli a serramanico e le famigerate pistole. Oppure avvolgevano il capo del malcapitato con un fazzoletto fino a provocarne l’asfissia per costringerlo a consegnare i propri beni. Oppure, mettevano in atto delle tecniche di lotta che diedero i natali alla boxe francese. La sera, poi, nelle varie bettole, si dilettavano con le loro donne a ballare una danza sfrenata, passionale e talvolta brutale che, però, attirava anche le dame della Parigi bene in cerca di una serata di follie. I banditi si lanciavano in una sorta di tango appassionato che arrivava a finti schiaffi e pugni, o a trascinare la dama per i capelli, in una danza che piaceva al punto da affollare i locali dove i delinquenti si davano appuntamento e da creare una vera e propria tendenza, anche per ballerini onesti. Le donne vestivano un grembiule rosso su un abito nero, con i capelli tagliati corti, simbolo di modernità e di emancipazione, e volteggiavano con i loro “banditi” sulle note dei valse di moda al Moulin Rouge. Alcune di loro divennero delle vere celebrità, proprio perché compagne dei banditi e per vicende di cronaca nera. La più famosa, Amélie, era soprannominata Casco d’oro per i suoi capelli e ispirò un film divenuto famoso nel 1952. Ancora oggi si pensa che quegli anni francesi, tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, si possano o si debbano rappresentare con quelle danze, quelle musiche e quelle figure che sembrano uscite da un romanzo, ma in realtà seminavano il terrore e rendevano Parigi una città malfamata e insicura.

 

Alessia Biasiolo

Il centenario del Festival di Salisburgo

Salisburgo è una ridente cittadina austriaca, patrimonio UNESCO dal 5 dicembre 1996 per la sua architettura barocca italianeggiante e la profonda cultura musicale che non deriva solo dall’essere città natale di Mozart, nel 1756.

La sua posizione geografica ai confini delle Alpi e con una dolce pianura, sembrano conciliare rilassatezza e dedizione all’interiorità. Il centro storico cittadino, la Città Vecchia, presenta torri e cupole barocche di chiese e palazzi, che sono fastosi, dalla volontà dei vescovi von Raitenau (figlio di una De’ Medici, molto amante dell’arte e dello stile italiano, fautore tra l’altro della costruzione del Castello di Mirabell), Sittikus conte di Hohenems e Paris conte di Lodron che ne diedero l’impronta attuale. La cupola del Duomo e la casa natale di Mozart furono vittime dei pesanti bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, che non riuscirono completamente a risparmiare il centro storico. Oltre che alla cattedrale, una visita non deve mancare alla chiesa dei Francescani e all’abbazia di Nonnberg, alla Fortezza che risulta essere la più grande d’Europa, ai molti musei, vie e piazze deliziose, magari assaporando un famoso cioccolatino noto come “palla di Mozart”.

A Salisburgo, il 22 agosto 1920 inaugurò il Festival musicale che quest’anno, doverosamente tra molti sfarzi, celebra il centenario. Fondato dal regista berlinese Max Reinhardt, assieme al poeta austriaco Hugo von Hofmannstahl e al compositore bavarese Richard Strauss, il Festival doveva essere un esempio di pace e fratellanza dopo la sanguinosa Grande Guerra, e negli anni si è mantenuto tale, fino ad essere uno dei principali appuntamenti culturali europei. Nata già nel 1877, la kermesse era stata discontinua fino all’idea dei tre amici. Per l’inaugurazione del 1920, von Hofmannstahl già autore de “Il cavaliere della rosa”, musicato da Strauss, scrisse “Jedermann”, che inaugurò il Festival, opera che verrà riproposta ogni anno, sempre su un palco all’aperto davanti al Duomo. L’opera, in italiano “Ognuno”, narra di un uomo ricco e potente visitato dalla Morte durante un banchetto, per sottolineare l’ineluttabilità della stessa e porre allo spettatore una riflessione, tanto più immanente nel 1920, dopo gli orrori bellici. L’uomo, infatti,verrà accompagnato nella tomba da Fede, Speranza e Carità. Cresciuto di anno in anno, anche con rappresentazioni di opere di Verdi e Beethoven e la costruzione di un apposito teatro, il Festival visse una triste parentesi con l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, e la chiusura dal 1943, ma riprese già nel 1945. Indimenticabile fu l’edizione 2006, quando la celebrazione del 250esimo anniversario della nascita di Mozart e l’allestimento delle sue 22 opere, fece ottenere al Festival un largo consenso di critica e pubblico.

La celebrazione del centenario inizierà con la mostra “Il gran teatro del mondo. Il centenario del Festival di Salisburgo”, organizzata dal Salzburg Museum dal 25 aprile al 31 ottobre in Neue Residenz, dove sarà possibile ripercorrere tutte le tappe dei cent’anni, tra contributi storici, archivistici, documentari e molto altro. Al Salzburg Museum sarà allestita una mostra di Stato. Il programma operistico inizierà il 27 luglio con “Elektra” di Richard Strauss affidato ai Wiener Philarmoniker, per poi vedere “Don Giovanni” diretto da Castellucci, “Tosca” diretta da Armiliato, per citarne solo alcuni.

 

Alessia Biasiolo

 

 

Save the Book. London by Gian Butturini

 Gian Butturini

Una mostra in difesa della libertà di immagine e di pensiero. Una mostra contro l’intolleranza e la censura che, senza motivazioni reali e senza discussioni, hanno imposto il ritiro del libro fotografico London by Gian Butturini (Damiani editore, 2017, reprint del volume London del 1969). In questo modo è stata anche offesa la memoria di un autore che per tutta la vita ha sempre usato l’obiettivo contro ogni forma di discriminazione e di violenza per raccontare e difendere i più deboli e svantaggiati.

SAVE THE BOOK London by Gian Butturini, a cura di Gigliola Foschi e promossa dall’Associazione Gian Butturini, è la mostra che dal 10 al 23 dicembre sarà allestita allo Spazio d’Arte Scoglio di Quarto a Milano, visitabile in uno slide-showonline 24h su 24 collegandosi al sito www.gianbutturini.com oppure recandosi in galleria.

Trenta fotografie per restituire dignità intellettuale all’uomo prima ancora che al fotoreporter Gian Butturini, da sempre impegnato a denunciare disuguaglianze, disagi e povertà, dolori e umiliazioni, guidato dalla convinzione che le immagini abbiano una forza intrinseca capace di abbattere muri, censure e conformismi.

Gian Butturini, grafico, regista e fotografo pluripremiato, scomparso nel 2006, è tornato suo malgrado al centro delle cronache perché tacciato incredibilmente di razzismo. Circa un anno fa la giovane studentessa britannica di colore Mercedes Baptiste Halliday si è scagliata via Twitter contro l’accostamento di due fotografie tratte dal libro London by Gian Butturini facendole finire nel tritacarne della Cancel Culture: da una parte l’immagine di una donna di colore che vende i biglietti della metropolitana, dall’altra quella di un gorilla in gabbia “che riceve  con dignità imperiale sul muso aggrottato le facezie e le scorze lanciategli dai suoi nipoti in cravatta”,  come scrisse lo stesso Butturini.

Gian Butturini, Donna e gorilla

L’anatema della ventenne Mercedes – che vede nelle due immagini messe vicine lo stereotipo infamante donna nera = scimmia – crea un tale clamore sui social e media britannici che in poco tempo travolge non solo l’autore del libro, ma anche il curatore della ristampa del libro Martin Parr, celebre maestro della fotografia contemporanea. Dopo aver definito l’edizione del 1969 di London un “gioiello trascurato” da riportare all’attenzione del grande pubblico sollecitandone la ristampa, di fronte agli attacchi dell’opinione pubblica e dei media Martin Parr nel luglio del 2020 ammette una presunta connotazione razzista nell’accostamento delle due immagini incriminate, si scusa pubblicamente, si dimette dalla direzione artistica del prestigioso Bristol Photo Festival e chiede addirittura la messa al macero del volume.

Nessuno tra i media e i critici fotografici britannici verifica che l’accusa di razzismo lanciata a Gian Butturini è palesemente infondata. Sarebbe bastato leggere le parole dell’autore stesso nell’introduzione del libro per spegnere subito la polemica e la campagna diffamatoria: “Ho fotografato una donna nera, chiusa in una gabbia trasparente; vendeva biglietti per la metropolitana: una prigioniera indifferente, un’isola immobile, fuori dal tempo nel mezzo delle onde dell’umanità che le scorreva accanto e si mescolava e si separava attorno alla sua prigione di ghiaccio e solitudine”.

L’intera narrazione di London è empatica e solidale, in linea con il suo impegno politico di uomo di sinistra e con la critica sociale portata avanti in quegli anni dalla controcultura e dalla Beat Generation.

La prospettiva che il libro vada al macero sconcerta gli eredi di Gian Butturini, i figli Tiziano e Marta che ottengono dalla casa editrice la restituzione delle copie ritirate dal mercato e iniziano una battaglia per ristabilire la verità contro una controversia grottesca e surreale. In questo modo vogliono con forza ribadire che il libro va visto e letto come una preziosa testimonianza artistica, politicamente impegnata e volutamente provocatoria.

Scrive Gigliola Foschi, curatrice della mostra: “London di Butturini è un libro rivoluzionario nei contenuti perché racconta la Londra di fine anni Sessanta da una prospettiva nuova e non patinata. È un diario di immagini spontanee e autentiche, vive e graffianti, di giornate vissute intensamente girando per la città tra giovani della Swinging London, ragazze in minigonna, drop-out che si fanno di eroina, immigrati, neri, emarginati, abitanti della City che paiono esistere in un mondo a parte dove tutto è ‘per bene’.  Butturini crea immagini dirette, sgranate, ombrose o troppo schiarite, ma anche ritagliate, manipolate, accostate a elementi grafici, a frammenti di testi…”.

La mostra, arricchita da una decina di fumetti con interventi spiazzanti in stile situazionista realizzati da Butturini negli anni Settanta, è dunque un’importante occasione per riscoprire un autore e un libro cult della fotografia internazionale.

Il libro “London by Gian Butturini” potrà essere richiesto ad archiviogianbutturini@gmail.com a fronte di una sottoscrizione di 40 euro – oltre alle spese di spedizione – a sostegno delle attività dell’associazione.

Inaugurazione mostra giovedì 10 dicembre ore 21. Evento Zoom a cura di Percorsi Fotografici. Presenta Gigliola Foschi. Interviene Oreste Pivetta, giornalista e scrittore. Segue Microfono aperto

https://us02web.zoom.us/j/83098017534

Venerdì 18 dicembre alle ore 18.30 si terrà inoltre un incontro online organizzato dalla Casa della Cultura con interventi di: Tiziano Butturini (presidente Associazione Gian Butturini), Gigliola Foschi (curatrice della mostra), Alberto Prina (direttore del Festival di Fotografia Etica di Lodi), Stefania Ragusa (giornalista della rivista Africa) e Ferdinando Scianna (fotografo).

 

Spazio d’Arte Scoglio di Quarto, Via Scoglio di Quarto 4, Milano

Ingresso libero dalle 17 alle 19 con obbligo di prenotazione

tramite Sms al 348.5630381 oppure mail a info@galleriascogliodiquarto.com

 

De Angelis (anche per le fotografie)

 

Idee per il restauro delle consoles rococò di Galleria Corsini

Il fregio di una consolle

 Le Gallerie Nazionali di Arte Antica avvieranno il restauro delle straordinarie consoles rococò collocate nella Prima Galleria della Galleria Corsini, grazie ai proventi raccolti con la vendita del Vino Civitas che, anche quest’anno, rinnova l’impegno dell’Associazione Civita, in partnership con la Tenuta Caparzo di Montalcino, nel sostenere il restauro di opere particolarmente significative del museo, in seguito all’accordo sottoscritto nel 2019 e valido fino al 2021.

I proventi delle vendite dello scorso anno del Vino Civitas, prodotto da Caparzo, hanno già coperto gli interventi di restauro avviati lo scorso mese sulla Madonna del latte di Bartolomé Esteban Murillo, mentre quelli di quest’anno saranno utilizzati per i lavori sulle preziose consoles.

La Galleria Corsini

Un modello vincente di collaborazione tra pubblico-privato, in grado di contribuire alla valorizzazione, tutela e fruibilità del nostro impareggiabile patrimonio artistico. La reciprocità tra le istituzioni pubbliche e le aziende private diventa chiave strategica per incrementare le risorse economiche e migliorare la capacità di intervento dei nostri musei. Grazie a Civita, sarà possibile scoprire e ammirare in tutto il loro splendore opere che hanno avuto un ruolo importantissimo per la famiglia Corsini, di cui noi tutti siamo debitori eredi e doverosi custodi, dichiara Flaminia Gennari Santori, Direttrice delle Gallerie Nazionali di Arte Antica.

Il progetto “Vino Civitas” nasce dalla volontà di contribuire, con un sostegno concreto, alla salvaguardia e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico, legando così l’attività vitivinicola al mondo della cultura, afferma Giovanna Castelli, Direttore dell’Associazione Civita, che prosegue: Grazie all’acquisto del vino anche da parte di numerose aziende associate a Civita, unite dal comune interesse a qualificare la propria immagine associandola al “mondo valoriale dell’arte”, sono stati restaurati, nel tempo, numerosi capolavori. Siamo lieti che, anche per quest’anno, i proventi della vendita siano stati devoluti al restauro di un’opera delle straordinarie collezioni di Palazzo Barberini e della Galleria Corsini, due luoghi di cultura del nostro Paese di assoluto valore storico-artistico.

Le consoles furono realizzate da una delle più prestigiose botteghe di intagliatori romani del Settecento, quella di Giuseppe Corsini e della moglie Lucia Barbarossa. Fu proprio lei – che guiderà la bottega alla morte del marito – a seguire la realizzazione di questi capolavori del gusto rococò, in cui lusso, eleganza e sinuosità si uniscono per ricreare un effetto d’incanto che cattura l’attenzione di chi lo guarda. Commissionate insieme a molti altri arredi dal Cardinal Neri Maria Corsini e suo fratello Bartolomeo per il palazzo su via della Lungara che acquisirono nel 1736 trasformandolo in un grandioso edificio destinato a celebrare la grandezza della famiglia.

Per contribuire ai lavori di restauro, è sufficiente acquistare il Vino Civitas nelle sue diverse tipologie (Brunello di Montalcino “Magnum”, Brunello di Montalcino Docg, Sangiovese Toscana Igt e Bianco Toscana Igt) in eleganti confezioni regalo da 1, 2 e 6 bottiglie.

Per info Caparzo: Tania Pantosti, e-mail  tpantosti@caparzo.com

Rachele Mannocchi (anche per le fotografie)