Etiopia. Conquista e conoscenza

Roberto Matarazzo nasce a Roma nel 1909 e nel 1929 viene arruolato come soldato di leva nel Primo Reggimento Radiotelegrafisti, grazie al diploma di perito radioelettrico conseguito presso il “Galileo Galilei” della capitale. Congedato l’anno seguente, verrà assunto dall’EIAR di Firenze. Appassionato di fotografia, acquisterà una Kodak a soffietto con la quale scatterà fotografie un po’ a tutti e a tutto. Nel 1935 viene richiamato nell’esercito per la Campagna di Etiopia; imbarcatosi a Napoli nel gennaio 1936, aggregato al Quarto Battaglione Radiotelegrafisti, Seconda Compagnia Telegrafisti del Quarto Corpo d’Armata, visiterà e soggiornerà a Massaua, Asmara, Adua, Macallè, Addis Abeba, tra gli altri luoghi di conquista. Scatterà molte fotografie anche laggiù, il suo miglior passatempo, fino al suo rientro in Italia nel 1937, dove ritroverà il suo lavoro alla EIAR. Sarà proprio grazie a quello che potrà essere dichiarato indisponibile per l’arruolamento durante la seconda guerra mondiale. Sposatosi con Livia, con la quale aveva costantemente intrattenuto rapporti epistolari anche durante la sua permanenza in Africa, nel 1942, si trasferirà a Roma, presso il centro trasmittente dell’EIAR. Nel dopoguerra mantenne il suo lavoro in quella che diverrà RAI, per la quale lavorò fino al 1974, morendo poi nel 1982. Il ricco archivio fotografico “Roberto Matarazzo” è stato digitalizzato dal Centro Documentazione Memorie Coloniali, che da anni si occupa di archivi privati del periodo coloniale italiano, su proposta dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico AAMOD. Il Centro Documentazione Memorie Coloniali (CDMC) viene sostenuto ed è stato istituito, dall’Associazione “Modena per gli altri”, che si occupa di cooperazione internazionale in Etiopia, e quindi si è trovata a confrontarsi con il passato coloniale del Paese. Ha promosso pertanto la raccolta di materiale coloniale, soprattutto iconografico, che ha dato origine a due mostre e a pubblicazioni, portate poi anche in Etiopia, fino alla digitalizzazione della notevole mole di fonti storiche, catalogate da un apposito comitato scientifico. Lo stesso è avvenuto per il fondo Matarazzo di cui ha organizzato non soltanto gli apporti fotografici, ma anche i dati appuntati dal radiotelegrafista e le lettere che inviava a casa. Il fotografo è stato testimone della battaglia dello Scirè dal 23 febbraio al 12 marzo 1936, ad esempio, che lo aveva profondamente colpito e di cui annota l’elenco delle tappe, dattiloscrivendo l’occupazione di Amba Alagi, le battaglie di Tembien e dello Scirè appunto. Matarazzo apparteneva al Genio e ai reparti speciali radiotelegrafisti, quindi non torna a casa come sperava dopo la presa di Addis Abeba. Intanto continua a fotografare con la sua Kodak, ma anche con altre macchine fotografiche; sviluppa i negativi sul posto e stampa le foto, probabilmente usando la luce del sole o lampade elettriche della stazione radiotelegrafica, che forse vendeva anche agli altri militari, spesso oggetto dei suoi ritratti fotografici. Anche Matarazzo, come altri soldati, aveva iniziato a scrivere un diario per fissare i ricordi di guerra, ma dedicava più volentieri il tempo alla memoria per fotografie, tanto che il diario smise di scriverlo e andò perduto. La curiosità per il continente africano era tanta, infatti, che era necessario fissare i dati per mantenerli nella memoria e riportarli a casa, dove di certo sarebbero stati raccontati. L’Africa misteriosa dei romanzi era finalmente lì, davanti agli occhi, e diventava impresa coloniale, parte dell’Italia, dove molti avrebbero voluto realizzare i propri sogni di terra, casa, futuro. Pertanto le fotografie ritraggono soldati sulla nave che li portava in terra di conquista, lungo il Canale di Suez, fino alle distese etiopiche dove si stagliavano le linee telegrafiche; varie le immagini di Matarazzo al radiotelegrafo da campo, o con bambini locali, o con le sue fotografie sparse sulla branda. Curioso l’orto militare, ci sono ritratti gli ascari o vengono immortalati oggetti ricordo in bella posa per la fotografia. Si vedono i soldati italiani, oppure gli ascari, mentre lavano i propri panni al fiume, o impegnati nella costruzione di un ponte in muratura al posto di quello di legno, o addetti ai lavori stradali, o ancora su una teleferica. Non mancano momenti di “caccia grossa”, con l’uccisione di un ippopotamo, di un coccodrillo, di un enorme serpente, di un avvoltoio testabianca, di un leopardo. Tra le panoramiche, quelle dei monti Semien, mentre sono molte le fotografie ritratto di ragazze, donne, bambini e uomini indigeni, sia in posa che nelle faccende quotidiane. Tra le foto dei centri urbani, Adua, Gondar con il castello del negus Fasilide, Axum con le steli (di cui una venne trasportata a Roma), per esempio. Grande attenzione da parte dei soldati italiani la ottenne la Festa del Maskal del settembre 1936 ad Adua, una delle più importanti feste della religione ortodossa etiope. Il mese del Maskaram è l’inizio dell’anno etiope e commemora il ritrovamento della Croce di Cristo. Durante le celebrazioni si accende un grande falò che produce molto fumo, ricordando il fumo che guidò Sant’Elena alla ricerca della Croce. La religione cristiana sostituì i riti tribali di cui rimane memoria nella celebrazione, che funge da divinazione per la fine della stagione delle piogge e di buon auspicio per buoni raccolti. Matarazzo documenta la festa, e poi anche la celebrazione del Natale italiano del 1936, con la Messa al campo, un ottimo pranzo comprendente anche il panettone Motta, il ricordo della preghiera. Un racconto per immagini racchiuso in un prezioso libro, dall’ottima veste grafica, che permette di avere tra le mani un pezzo di storia poco raccontata nel nostro Paese. Da leggere.

Letizia Cortini, Elisabetta Frascaroli, Anna Storchi (a cura di): “Etiopia. Conquista e conoscenza. Rappresentazioni per immagini di Roberto Matarazzo (1936-1937)”, AAMOD, Roma, 2022, pagg. 192, euro 20,00.

Alessia Biasiolo

Il diverso, tra passato e futuro. La giudeofobia nella nostra società

“I numeri della memoria”, Ivo Compagnoni. La poesia originale è di Renato Hagman

È uscita per i tipi Edizioni Nuova Cultura di Roma, scritta per l’Istituto del Nastro Azzurro e il CESVAM, una ricerca storica sul diverso, inteso espressamente come il popolo ebraico in Italia, nell’ambito dell’impegno storico dell’Istituto in occasione del triste anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia.

Oggetto del volume è quello di tracciare, nel modo più chiaro e lineare possibile, gli aspetti di intolleranza e chiusura verso il “diverso”, espressamente riferito al popolo ebraico. Attraverso uno studio storico che inizia dai primordi del Popolo eletto, si arriva fino a noi e si descrivono le vicissitudini di un popolo che ha sempre mantenuto le sue caratteristiche nell’ambito delle varie collettività che lo hanno ospitato dai tempi della Diaspora. Si è scelto, tra i tanti “diversi” possibili, appunto il popolo ebraico, il “diverso” per antonomasia nelle varie comunità e lungo i secoli, e attraverso lo studio delle sue vicissitudini, presentare in modo indiretto la giudeofobia nella nostra società, sia nel passato che nel presente. I limiti di tempo vanno da circa duemila anni prima di Cristo ad oggi, con particolare riguardo al Secolo definito breve. I limiti di spazio sono ampi: riguardano i luoghi sacri delle Tribù d’Israele e poi principalmente l’Italia, dove esistono da tempi remoti le Comunità ebraiche, tra le prime in Europa. Si analizzano dati spagnoli e portoghesi, francesi e balcanici, tracciando un percorso storico spesso, capace di dare al lettore più di uno spunto di riflessione che renda completo lo studio e la possibilità di approfondimento personale. L’accento cade poi soprattutto sul periodo razzista europeo, non tralasciando di prendere in esame anche casi che interessavano gli ebrei dell’Unione Sovietica.

Affrontare il tema della giudeofobia significa addentrarsi nel mondo millenario dei nostri Padri, scritto a partire dai testi sacri che costituiscono la storia dell’Umanità. Capire le nostre origini e approfondire argomenti troppo spesso sulle bocche di tutti soltanto per notizie di cronaca o per fatti riportati senza verifica e senza contraddittorio, magari a sostegno dell’ideologia del momento, è doveroso in una società che si vanta della propria evoluzione, ma che retrocede in tema di comprensione di testo e di cultura. Il vanto di non aver mai letto un libro da parte di molti, si scontra con la profonda cultura che ha da sempre caratterizzato il mondo ebraico, dal quale la cultura italiana ha tratto molti insegnamenti e più di una radice. Il piacere della cultura, di conoscerla e di tramandarla, così come di crearla innovando la società, è proprio delle anime elette di ogni tempo e luogo, e di certo è sempre stato proprio della cultura ebraica. Nel presente volume, l’accento è posto su questo particolare tratto ebraico, ma anche su tanti motivi o su tante scusanti per definire, considerare, vivere l’ebreo come diverso. I dati storici qui riportati sono una meditata sintesi che traccia un percorso puntuale, capace di dare una spiegazione dell’odio atavico verso gli ebrei, origine della giudeofobia.

Molte sono state le ragioni per detestare gli ebrei e molte le loro ragioni per nascondersi o non apparire per quello che erano: persone colte, istruite, desiderose di riuscire, spesso benestanti proprio grazie ai loro studi o in risposta ai limiti loro imposti. Spesso, invece di imparare i migliori aspetti della cultura ebraica, sono stati usati per giustificare ruberie, soprusi e violenze, teorie e leggi razziali, epurazioni ed eliminazioni sistematiche. È evidente che la società tutta non accetta la diversità nel suo interno, mentre è più semplice accettare le diversità di chi non mette in gioco il potere e il sapere della società stessa. Il denso excursus che ne risulta in questo lavoro, permette di avere un quadro chiaro di quanto siamo tutti chiamati a difendere lo studio e la conoscenza, per non cadere in errori che, come è chiaro in questo volume, si sono ripetuti nei secoli sempre presentandoli come le migliori novità.

Il motivo dell’opera lo leggiamo dalle righe del presidente nazionale dell’Istituto del Nastro Azzurro fra combattenti decorati al Valor Militare, generale Carlo Maria Magnani: “L’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare ha voluto ricordare l’80° anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia attraverso l’adozione, lo sviluppo e la realizzazione di un progetto appositamente dedicato alla vicenda. Sono già stati pubblicati nel 2018 e nel 2019 due volumi […]. Questo volume completa il trittico previsto e programmato nel progetto e ci offre un excursus della vicenda del diverso, in questo caso l’appartenente alla razza ebraica, nell’arco dell’era cristiana […]”.

Mentre il generale Massimo Coltrinari, Direttore del CESVAM, Centro Studi sul Valore Militare dell’Istituto del Nastro Azzurro, scrive: “Il volume si apre con la storia del popolo ebraico: una carrellata dall’antichità ad oggi con riferimento temporale alle organizzazioni statuali che si sono succedute nei secoli.

Ne emerge in questa stesura un quadro variegato del popolo ebraico che, pur mantenendo e coltivando rapporti cordiali nelle collettività che lo ospitano e collaborando con esse nel migliore dei modi, mantiene, appunto, le sue caratteristiche e le sue peculiarità, dando indirettamente forma al diverso, a colui che non è maggioranza per libera scelta e non si vuole integrare con la maggioranza stessa.

Si affronta poi il tema spinoso delle teorie razziali che si sono via via affermate dal Settecento in poi; che videro l’Ottocento il secolo proprio della nascita di idee e miti antisemiti che trovano la loro realizzazione nel Secolo breve. Un crescendo di concezioni contro il popolo ebraico fino a raggiungere la ignominia, per un pensiero civile ed evoluto quale voleva essere quello europeo di prima metà del Novecento, di dare credibilità scientifica oggettiva ad un falso documento costruito a tavolino da elementi di una polizia segreta screditata che è rimasto in auge, ed è citato perfino oggi, anche quando questo documento, “I Protocolli dei Savi di Sion”, fu palesemente dimostrato essere, appunto, un falso con prove inoppugnabili.

Indi si affronta il tema del rapporto tra gli ebrei e il nazismo che apre un quadro di come il popolo tedesco affronta questo tema complesso ogni oltre dire; un variegato quadro in cui c’è di tutto, persino l’ebreo nazista convertito; vi si sottolinea il dramma personale di molti tedeschi che si consideravano tedeschi autentici e null’altro che tedeschi, ancorché ebrei che pur di sopravvivere ruppero con il padre, la madre, le nonne, i nonni, le sorelle, i fratelli, i parenti e gli amici fino anche ad arrivare a rinnegare il loro nome, in un’abiura che ricorda il periodo medievale, quando per sopravvivere ci si doveva dichiarare Cristiano.

Il capitolo IV tratta del rapporto tra gli ebrei e il popolo italiano, un rapporto che si esaltò durante il Risorgimento nazionale e il processo unitario e si suggellò nel sangue e nei sacrifici della Prima Guerra Mondiale, per poi precipitare nella negazione del Ventennio. […] Infine, il volume propone una sintesi della situazione attuale in cui i germi della avversione al diverso sono sempre presenti. Un dato che permette di dire che in futuro avremo situazioni come quelle che abbiamo visto nel recente passato, se tali germi non vengono distrutti o contenuti.

Attraverso questo lavoro, l’Autrice ci offre un quadro ben documentato in cui dimostra che quando si rompono gli argini della tolleranza, della competenza e della accettazione del diverso si va incontro, come già accaduto, a grandi tragedie. Tragedie che non sono solo di un popolo, ma di tutta l’umanità.

Una lettura attenta di questo volume serve a tutti, compresi gli amici ebrei che non possono non riflettere su come anche il loro atteggiamento può contribuire a mantenere equilibri e tolleranze in un contesto sia nazionale che internazionale. […] L’educazione alla tolleranza e alla comprensione del diverso è il messaggio che proviene da questo volume, più volte sottolineato dall’Autrice.

Questa educazione è il baluardo per non avere in futuro, nelle nostre comunità, né le une, le vittime, né gli altri, i carnefici, ma solamente il rispetto dell’uomo inteso come tale”.

Il volume ha un denso apparato fotografico specifico, ma una menzione particolare va alle opere espressamente prodotte dall’artista Ivo Compagnoni. l’Artista è riuscito a condensare le pagine in quadri dal forte impatto emotivo, particolarmente significativi per riassumere la sofferenza, ma anche la forza, di un popolo e di tutto ciò che ha rappresentato nei secoli.

Ci stiamo avvicinando al Giorno della Memoria, doveroso atto di ricordo nazionale, eppure questi argomenti non si devono esaurire soltanto nell’arco di una giornata: questa deve essere un punto di arrivo e di ripartenza, per non dimenticare davvero che la società civile deve essere tale, sempre, in tutte le sfumature della sua esistenza.

Alessia Biasiolo: “Il diverso, tra passato e futuro. La giudeofobia nella nostra società”, I Libri del Nastro Azzurro, Editrice Nuova Cultura, Roma, 2020, euro 30,00, ISBN 9788833653259

Alessia Biasiolo

Madri per sempre

Il nuovo libro di Federica Storace, scrittrice che vive e lavora a Genova, denota uno spessore linguistico e di contenuti alla quale l’Autrice è arrivata in questi anni, dopo i suoi “La famiglia non è una malattia grave”, “Banchi di squola” e “Impossibili ma non troppo”. In questo nuovo lavoro si nota una capacità narrativa densa, con uno stile fresco, ma con una padronanza dell’estro davvero matura. L’argomento è attuale e originale, malgrado tratti ciò di cui si parla e discute da sempre: la maternità. Infatti, Federica propone differenti modi di vivere la maternità a partire dalla dicotomia donne/madri che è insita nel femminile, causa di riflessioni personali anche profonde, conflitti tra sé e con la figura di riferimento materna, conflitti sociali e antropologici. Storace analizza Antigone, cita la silente donna che compare nel Vangelo di Luca quando Gesù partecipa ad un banchetto; troviamo Rosa Parks e Rosanna Benzi; le Madri di Plaza de Mayo e Rachele; Anna, Rut, Elisabetta, Santa Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Edith Stein, Iacopa dei Settesoli. Donne che hanno a che fare con la maternità e si interrogano su essa, mentre Federica si chiede che cosa provassero, che cosa pensassero. La gestazione è lunga, per qualsiasi cosa, dalle più piccole alla più grande, la vita. E anche un libro è un figlio, si diventa madri quando lo si scrive, con una lunga gestazione e un parto finale. Dunque la maternità si circoscrive all’avere figli, oppure è qualcosa di diverso, di più alto, che da sempre è stato reso soltanto una faccenda anatomica e di progressione della specie umana? Federica Storace affronta la maternità con una profonda autoanalisi rispetto alla sua amicizia con Anna Maria Frison, superiora di una comunità e malata di Parkinson con cui ha condiviso parte della propria vita, la stesura di un libro, una crescita personale che costituisce un punto di non ritorno nella vita personale e professionale della nostra.

Il confronto tra chi non ha generato una vita ma ne ha create tante, con la necessità di stendere un bilancio delle proprie motivazioni e con la malattia che interroga sul senso del vivere e su cosa si è dato, costruito, realizzato, e la nostra Autrice, ha portato a un percorso intimo con se stesse tale da dare al senso materno, della maternità e della madre, che sono concetti differenti e non per forza derivati, un significato proprio ma anche universale. Dall’esperienza del Sé si arriva, quindi, ad una riflessione che travalica le pagine e le singole identità, per farsi costruzione di un significato nuovo e diverso, sempre nuovo e sempre diverso, di quell’essere madri che è sempre stato iscritto alla donna come un dovere, una necessità intrinseca, biologica; un orologio dal quale non prescindere; una sorta di nevrosi imposta che diventava un’isteria davvero e che, in quanto tale, in quanto uterina, è da donna per forza. Una situazione sulla quale le donne non si sono mai interrogate abbastanza, in un mondo al maschile, e che diventava una pecca. Perché interrogarsi sull’essere madri, se madri lo si era dalla nascita per una questione anatomica, diventava il simbolo del peccato, un abominio personale ingiustificato e, soprattutto, ingiustificabile. Imperdonabile. Per la società, per la Chiesa, per la donna. Se la donna non diventava madre, doveva per forza farsi suora. Allora ecco che Storace racconta anche di donne attuali che hanno dedicato la vita ad una maternità differente e “per sempre”, eterna, atto d’amore. Sono suor Alessandra Smerilli, madre Maria Emmanuel Corradini, suor Gabriella Bottani, suor Caterina Cangià che Federica intervista e delle quali racconta la vita. Interessante questa scelta, non tanto per l’intervista in sé, quanto per avere dato voce ad una maternità che non si vede e la società non vive come tale. Certo, oggigiorno si accettano donne non sposate, donne con relazioni omosessuali che non possono intrinsecamente diventare madri (non affrontiamo altre considerazioni in questa sede), donne che vivono da sole, anche donne sposate che non vogliono figli. Ma di esse la maternità non si considera. Sono madri? Possono essere madri comunque? Una suora, allora, è madre? Può essere madre in modo differente dall’appellativo “madre” che le viene conferito dall’ordine di appartenenza? L’interrogativo viene posto intrinsecamente e suggerisco a ciascun lettore di trovare una risposta, se lo ritiene necessario, ma nell’ottica di chiedersi cosa sia la maternità e soprattutto che ruolo abbia nella società d’oggi.

Ho trovato il libro molto buono, scritto molto bene, facilmente leggibile e denso di spunti di pensiero. Oggi la società è scarsa di maternità. Sembra che a pochi interessi l’essere “madri” della realtà, della società, della propria vita, del prossimo. Si è abdicato al ruolo materno al di là del dover generare, non ci si prende cura degli altri se non per dovere e, talvolta, per sbandierata appartenenza al volontariato. Certo, quest’ultimo è carico di motivazioni e per la maggioranza di persone che davvero si prodigano, non è ciò che intendo, ma che manca in generale il senso di creazione, di generazione di ciò che scaturisce da noi e diventa altro, da parte di uomini e donne, al di là che si tratti di un figlio o di altra creatura. Dare voce alle suore è molto importante, non soltanto un gesto editoriale utile. È dare voce a chi scompare dietro alla propria scelta, questo è basilare tenerlo presente. Tuttavia dà voce a quell’essere donna ed essere donna-madre importantissima per plasmare una società carica di significati che sta perdendo.

Assolutamente da leggere.

Federica Storace: “Madri per sempre. Donne raccontano maternità possibili”, Erga edizioni, Genova, 2020

Alessia Biasiolo

Voci capitoline di Sabrina Sciabica

Le voci della capitale, Roma, sono distinte. Si comprendono bene, anche se rimangono schiacciate tra le chiusure delle porte di una metropolitana, il Tubo, spesso troppo affollata. Non è possibile immaginare Roma deserta, quindi ci immergiamo, in questi giorni deserti, nelle pagine di Sabrina Sciabica e conosciamo meglio quel mondo che appare come un organismo grande e indistinto se visto tutto insieme. Poi ci si avvicina, tipo l’immagine di Sherlock con la lente d’ingrandimento, e si capisce sempre più, e quindi niente, cosa vuol dire attendere un autobus che non arriva; cosa significa il 60; cos’è una gattara senza gatti; perché non è tutto dritto come la Nomentana e come ci si può sentire quando il ritardo del 90 fa affogare nel proprio dolore.

“Nella città eterna i tramonti sono meravigliosi”, leggiamo. Ed è proprio così, se si ha il tempo di soffermarsi un attimo su quella culla di storia e cultura che, forse, non è tenuta in palmo di mano come meriterebbe. Roma cambia colore a seconda del momento della giornata e della stagione, ma anche a seconda dell’umore della gente che se ne appropria, assoggettandola e venendone assoggettata senza requie. Tutti corrono tranne i turisti, che si mettono di mezzo alla vita frenetica di tutti i giorni. I turisti si prendono il tempo per Roma, quello che noi italiani, e anche i romani, pensano dato come patrimonio nazionale. Alcuni vengono folgorati dalla bellezza stanca e triste, superba e altera, immaginifica e stupefacente e la bevono venendone per forza contagiati.

In questi giorni non si può parlare di contagio nemmeno come metafora, ma di fatto bisogna lasciarsi contagiare dalla nostra patria della quale ci ricordiamo nei momenti del bisogno. Proprio come si fa con la madre, proprio come si fa con Roma, città materna, accogliente, casa di tutti, italiani e no. Allora ecco venuto il momento di leggere il libro profondo e leggiadro di Sabrina Sciabica e di girovagare per Roma in modalità virtuale, per assaporarla quietamente, come merita. Come un sonnacchioso gatto del Colosseo, come una statua imperitura, come uno scherzo del destino che fa essere alle stelle e all’inferno nello stesso stralcio di vita. Seguire il percorso dell’autrice grazie alla tecnologia può essere un’interessante scoperta per tutti. Roma c’è e resta. Ed è di buon auspicio.

Da leggere.

 

Sabrina Sciabica: “Voci capitoline”, L’Erudita, Roma, 2019, pagg. 186

 

Alessia Biasiolo

 

 

Un tempo per ogni cosa

È vero che c’è un tempo per ogni cosa? Oppure dobbiamo trovarcelo, quel tempo per noi e per le nostre riflessioni? Le parole che non troviamo per i nostri pensieri sono scritte in questo prezioso manuale scritto da Magliano che, a partire da frasi celebri, riflette sul presente, sull’uomo e sul suo significato nella storia universale. Al 26 ottobre troviamo: “I libri servono a capire e a capirsi, e a creare un universo comune anche in persone lontanissime”, come scrisse Susanna Tamaro, e Magliano ne approfitta per ricordare anche Francesco Petrarca, per il quale i libri cantavano e parlavano. Pochi giorni dopo, gli fa eco Pablo Neruda con “Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità”, mentre l’argomento ecologico che sembra così solo attuale, viene ricordato da Willa Silbert Cather che afferma di amare gli alberi perché sembrano più rassegnati di ogni altro essere o cosa al mondo al posto e al modo in cui devono vivere. E se questo può sembrare “un senso generale di perdita”, secondo Linus Mundy, con Erry Hillesum è facile affermare: “Mai rassegnarsi, mai scappare. meglio affrontare tutto, e soffrire”, al 3 novembre. Ogni giorno si possono leggere massime come quelle citate, sulle quali trovarsi e riflettere, pensare che anche ad altri sono venuti in mente gli stessi ricordi, ma anche le stesse immagini, con la possibilità di sperare e di rigenerarsi anche quando ci si sente più una pianta decidua in autunno che un virgulto primaverile di maggio. Soffrire è anche lo stare fermi a leggere qualcosa di più spesso che un messaggio di saluti sui moderni mezzi di comunicazione, per dare maggiore spessore alla nostra anima, dare alimento al pensiero che sempre più si vuole assottigliare per strumentalizzarlo più facilmente. Le letture sono brevi e giorno per giorno ci possono dare elementi per conoscerci meglio, capire che possiamo pensare e avere un parere, oltre che sapere leggere, dato che risultiamo sempre più in fondo alle classifiche culturali anche di base.

E spesso si tramutano i dati generali in sfide e gare alle quali le persone si dicono disinteressate, perché non serve gareggiare in comprensione di testo con inglesi o tedeschi. In realtà la fotografia dei dati è la nostra e non ci rendiamo conto che non siamo quelle bellissime persone migliorate con tecniche digital, ma siamo appassite bucce vuote sempre con più emergenza da riempire, prima che siano avvizzite inutilmente.

Un libro da avere tra le mani o sul comodino sempre, per riempirsi di amore, ricordi, pensieri.

 

Biancarosa Magliano: “C’è un tempo per ogni cosa”, Paoline, Milano, 2018; pagg. 416; euro 15,00

 

Alessia Biasiolo

 

 

Sciallare e splendere nel 2019

La capacità di Federica Storace è quella di scrivere di ragazzi, imprimendoli sulla carta e facendoli uscire edulcorati al punto da poterli moltiplicare con le facce di tutti quei giovani e giovanissimi che ci troviamo attorno. Allo stesso tempo, sono i ragazzi a potersi identificare nelle storie di cui sono protagonisti personaggi/studenti che Storace vede o immagina con le caratteristiche degli studenti che conosce. In un caso o nell’altro, interessante avere tra le mani un libro adatto alla lettura scolastica, didattica, di gruppo classe; avere un libro da regalare a Natale, da proporre ai genitori perché sappiano “leggere” i propri figli e capire che i figli sono reali, veri, qualcosa di cui occuparsi. Davvero. Riconoscendo in loro un’identità e non soltanto alcuni tratti genetici parentali. La tecnica è la solita: proporre argomenti attraverso il storytelling, per suscitare riflessioni e dibattiti. Soprattutto nel nuovo libro della nostra, “Scialla e poi splendi”, la positività è padrona e sottolinea come dai problemi si può uscire, con un’iniezione di ottimismo non inutile nella società di oggi. Ai nostri ragazzi manca sempre più una proposta alternativa all’offerta superficiale tipica del presente. Lo stesso strumento “libro” è pedagogicamente innovativo, perché pensare di risolvere tutto con l’appiattimento dello schermo e del video, con i selfie e la mancanza tridimensionale della quale abbiamo tutti bisogno quotidiano, non è una risposta.

I bisogni non si semplificano con l’economia del loro costo, così come i sogni sono ben altro di quello che si può trovare spiegato in qualsiasi buon dizionario della Lingua Italiana. Interpretare i ragazzi e comprenderli necessita di un osservatorio privilegiato, come quello della scuola, in cui approdano disperanti bisogni di affetto, di attenzione, di considerazione che, in effetti, è difficile sintetizzare o anche solo riassumere in un volumetto di poco più di cento pagine. Federica offre sempre un trampolino, in cui trovare uno spazietto di protagonismo da utilizzare per crescere e cercare, così, di capire quel panorama infinito di giovani che, anche se “razza in via di estinzione”, date le basse natalità, sono lo spavento del tempo, l’innovazione incomprensibile perché non si capisce nemmeno lei stessa, l’incognita della nascita di ciò che è nuovo e per questo tenuto alla lontana, come il salto nel vuoto che affascina e terrorizza. Ancora una volta i giovani, i ragazzini soprattutto, fanno paura ma solo perché rappresentano la società contemporanea che ha abdicato alla sua funzione, che non riesce più a programmarsi e a lasciare qualcosa di diverso dall’essere immediato, tipo il messaggio sgrammaticato senza filtri che tutti ormai scrivono. A forza di demonizzare il primo della classe, scialliamo tutti, ma speriamo anche di splendere. Almeno leggendo il bel libro di Storace.

Federica Storace: “Scialla e poi splendi”, Pedrazzi Editore, 2019

 

Alessia Biasiolo

 

Leggere Paul Claudel

La vita di Paul Claudel è un esempio per tutti. All’inizio del nuovo anno scolastico, la storia di una conversione, nella laicissima Francia, segna la via per un itinerario che ci ponga delle domande, molte più e molto più approfondite rispetto a quelle che possono venirci, edulcorate, dal presente.

Domande sul noi e l’io, sull’esistenza, sul percorso di vita al quale dobbiamo dare interezza, completezza, orizzonti ampi e proiettati al futuro, senza fermarci alla notizia flash di cronaca, che ci fa effetto per un istante, e senza crogiolarci solo sull’oggi.

La storia del diplomatico Claudel, drammaturgo, è costellata da nomi altisonanti, come quello della sorella Camille, una delle scultrici più importanti del Novecento, e del suo amato Rodin. La lettura spazia tra Paesi e continenti, tra fatti di storia dalla caduta della monarchia francese alle guerre mondiali. E in mezzo c’è Dio che Paul trova inaspettatamente. Spesso il nostro cammino si fa arduo o semplice, o cambia improvvisamente direzione, per un istante. Eppure questo libro, scritto da Flaminia Morandi, ci conduce per strade diventate un romanzo e lascia la netta sensazione della comprensione profonda. Il cambiamento e il potenziamento delle proprie doti, è un processo nel quale le porte devono essere aperte. Claudel lasciava non solo la porta aperta, ma anche le valigie pronte, per andare nei consolati e nelle ambasciate dove veniva incaricato, interrogandosi sempre e, soprattutto, confrontandosi. Aveva seri padri spirituali, termine inusuale oggi, eppure avere delle guide, e saperle cercare e scegliere, è fondamentale. Possono essere insegnanti o amici, sacerdoti o autori letterari che si leggono costantemente, ma senza curiosità e domande, la vita acquista quella piattezza che genera il senso di confusione attualmente imperante. Guide scelte non perché creano una nuova moda del momento o perché da qualche parte, in TV o sui social, tutti dicono che “spaccano”, ma guide vere, profonde, in cammino.

Camille, sorella adorata, soffre e crea capolavori; finirà purtroppo in una clinica psichiatrica. Paul mette nei suoi scritti i suo tormenti e le sue, di domande, che divengono opere geniali, ancora oggi rappresentate con successo in teatro. Imperante il desiderio di sentirsi vivo, anche gioendo dei ventuno nipoti e dell’esegesi biblica che lo impegnava negli ultimi anni. Ecco: l’impegno. Ciò che contraddistingue l’essere umano e ciò che viene chiesto a tutto tondo sempre più, perché sembra spesso di vivere a sole due dimensioni.

Da leggere.

Flaminia Morandi: “Paul Claudel. Un amore folle per Dio”, Paoline, Milano, 2018; pagg. 288, euro 18,00

 

Alessia Biasiolo

 

 

 

 

Educare all’umanesimo solidale

Il titolo del libro a cura di Giuseppe Alcamo consente di aprire una parentesi sulla necessità di innovare l’insegnamento scolastico, in vista del nuovo anno di studi, a nuovi stili di vita, come recita il sottotitolo. Nove autori affrontano un argomento di analisi e riflessione, rispondendo allo specifico appello del Papa a dare il proprio contributo in favore di un migliore rispetto dell’ambiente e del pianeta Terra, un più responsabile atteggiamento ecologico in favore e a tutela della Natura, un modo di pensare unitario, che non utilizzi specialmente la religione come scudo o alibi, o come vessillo per l’argomento.

Il curatore Giuseppe Alcamo, presbitero a Mazara del Vallo e docente di Catechetica e di Introduzione al cristianesimo, esorta ad educare alla luce della “Laudato sì”.

Rino La Delfa, presbitero a Piazza Armerina, docente di Ecclesiologia e Mariologia, si sofferma sul Vangelo secondo san Matteo: “Se non diventerete come i bambini” per delineare la figura del nuovo Adamo.

Massimo Naro, docente di Teologia sistematica, affronta la costruzione della città affidabile, trattando la dimensione sociale del magistero di Francesco.

Fabio Mazzocchio, docente di Filosofia morale, e Giuseppe Notarstefano, docente di Statistica economica ed Econometria, propongono un’analisi sull’importanza antropologica ed etica del lavoro.

Giuseppina D’Addelfio, docente di Filosofia dell’educazione e di Pedagogia generale, sempre partendo dalla “Laudato sì”, esorta ad educare ad avere cura, proponendo riflessioni pedagogiche utilissime a genitori ed insegnanti.

Alessandra Smerilli, docente di Economia politica, si sofferma su “Economia e cooperazione per uno sviluppo umano integrale”, mentre Luca Sucameli, magistrato contabile, sottolinea la necessità di educare alla legalità e al dovere, necessità che non dev’essere pensata come circoscritta ad un’area o ad un Paese, ma che dev’essere obiettivo primario di ogni organo educativo della società, la famiglia prima di tutto.

In conclusione dell’antologia di scritti, Camillo Ripamonti, presidente del servizio dei Gesuiti per i rifugiati, considera l’accoglienza come modo di restare fedeli alla propria umanità.

Un testo ricco di spunti di riflessione di esperti, ma che possono facilmente diventare personali del lettore, perché la sfida educativa transita per ciascuno di noi, a qualsiasi livello e comunque operi nella società.

 

“Educare all’umanesimo solidale”, a cura di Giuseppe Alcamo, Paoline, Milano, 2018, pagg. 304; euro 15,00

 

Alessia Biasiolo

 

Mai più schiavi. Abolire la schiavitù in Mauritania

Maria Tatsos racconta la lotta pacifica di Biram Dah Abeid per l’effettiva abolizione della schiavitù nel suo Paese: la Mauritania. Prefazione di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, e Postfazione di Giuseppe Maimone (CoSMICA), profondo conoscitore della situazione storico-politica in Mauritania.

Le donne lavorano quindici-venti ore al giorno e spesso sono violentate dai padroni e dai loro parenti. I bambini sono bollati come schiavi prima ancora che nascano e avviati al lavoro durante l’infanzia. Gli uomini, in cambio della loro attività, ricevono a malapena di che sfamarsi. Non è cronaca dell’Ottocento, ma viva attualità, realtà quotidiana di un Paese, la Mauritania, nel quale, sebbene la schiavitù sia stata ufficialmente abolita nel 1981, un numero difficilmente quantificabile di neri (tra oltre quarantamila e mezzo milione) è vittima di qualche forma di asservimento da parte della popolazione arabo-berbera. Con il tacito consenso delle autorità politiche e religiose.

Per sovvertire questa situazione, Biram Dah Abeid, nero e nipote di una schiava ma nato libero, ha fondato l’Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista (IRA): dal 2008 lotta con metodi non violenti per la difesa dei diritti umani e per una società senza schiavi. Imprigionato più volte, è riuscito a portare la condizione del suo Paese sotto i riflettori degli osservatori internazionali. Nel 2013 è stato insignito del premio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e l’anno successivo è stato candidato al Nobel per la pace. La stampa internazionale lo ha paragonato a Nelson Mandela e a Malcolm X. In realtà, le modalità della sua lotta lo avvicinano di più al Mahatma Gandhi. « Preferisco essere solo Biram », ribatte con un sorriso l’uomo che promuove marce pacifiche e sit-in, mobilita l’opinione pubblica e porta la voce degli schiavi anche fuori dai confini del suo Paese, la Mauritania. È grazie a Biram Dah Abeid e agli attivisti di Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista in Mauritania (IRA Mauritanie), il suo movimento, se donne e uomini haratin hanno oggi il coraggio di spezzare le catene che li tengono in soggezione economica e psicologica dei loro connazionali arabo-berberi. E ciò senza mai reagire con la violenza a nessuna provocazione. È questa una caratteristica fondamentale di IRA Mauritanie e del suo fondatore: la lotta per rivendicare i diritti dei neri ancora soggetti a forme di schiavitù deve essere assolutamente pacifica. Biram crede nella bontà delle proprie idee e nella giustizia della propria battaglia.

La giornalista Maria Tatsos ne racconta ora la storia e l’impegno nel suo nuovo libro Mai più schiavi, una sorta di biografia narrata dalla voce dello stesso Biram. Scrive l’autrice: “A sentirlo parlare – senza mai un’invettiva né una parola d’odio verso la classe dirigente arabo-berbera responsabile di questa situazione – ricorda un altro grande uomo, più piccolo di statura, che seppe piegare un impero con le sue idee: Mohandas Gandhi. È a lui che Biram, uomo libero che avrebbe potuto felicemente godersi il suo status personale di hartani privilegiato, dice di ispirarsi. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo, suggeriva il Mahatma. Con ostinazione, energia e modestia, Biram sottoscrive, sognando una Mauritania in cui nessun essere umano sia padrone della vita di un altro”.

Nota sull’autrice – Maria Tatsos, di origine greca, è giornalista professionista. Laureata in scienze politiche e diplomata in lingua e cultura giapponese presso l’Isiao di Milano, attualmente lavora come freelance e collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime). Tiene corsi di scrittura autobiografica, svolge attività di ghostwriting ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. Con Paoline ha pubblicato il romanzo storico La ragazza del Mar Nero. La tragedia dei greci del Ponto (20172).

MAI PIÙ SCHIAVI. Biram Dah Abeid e la lotta pacifica per i diritti umani

Maria Tatsos

pp.208 – € 16,00

 

Romano Cappelletto

I sette peccati capitali dell’economia italiana

Carlo Cottarelli ha fondato un Osservatorio Conti Pubblici Italiani presso l’Università Cattolica di Milano, il primo in Italia, mentre un Osservatorio di questo tipo è usuale in altri Paesi. L’esperienza di Cottarelli è solida e indubbia: laureato a Siena e presso la London School of Economics, un’occupazione presso Banca d’Italia ed Eni, quindi al Fondo Monetario Internazionale, poi Commissario straordinario per la revisione della spesa; ancora, Direttore esecutivo del Fondo monetario Internazionale e oggi, oltre che Direttore dell’Osservatorio, è Visiting Professor all’Università Bocconi. Con quasi l’incarico di formare l’ultimo governo, prima della soluzione politica Conte. Insomma, un esperto vero. Che scrive vari libri sull’Economia di cui l’ultimo del 2018 “I sette peccati capitali dell’economia italiana”. Perché l’Italia non cresce, perché l’Italia ha un alto debito pubblico e via così. Scopo delle pubblicazioni di Cottarelli è fare, nel suo piccolo, ciò che unicamente potrebbe essere grande: abituare le persone all’idea di spesa, di debito, di conti pubblici, perché sappiano di cosa si parla e non venga loro liquidata l’Economia come qualcosa di lungo, difficile, ostico e “inutile” da sapere. Dato che poi sono le persone a votare e le persone protagoniste dell’economia del loro Paese, consapevolizzarle o responsabilizzarle o renderle edotte è compito nobile e giusto. Salvo, forse, che dire le parole magiche che cancellano ogni abilità, attestato di studi, capacità riconosciute a livello mondiale: bisogna pagare le tasse. Perché pagandole tutti chi le paga sempre spenderebbe un po’ meno e perché, pagandole tutti, si risolverebbero molti problemi di disponibilità economico-finanziaria per le spese utili: la scuola, gli ospedali, i servizi in genere. Cottarelli viaggia per la penisola per spiegare perché l’Italia è cresciuta poco negli ultimi anni; perché il reddito pro capite è sceso del 2%, mentre il potere d’acquisto dei tedeschi, dal 1999, è cresciuto rispetto a quello italiano del 25%; quali sono i sette peccati capitali dell’economia italiana come l’evasione fiscale appunto, la corruzione, l’eccesso di burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud. Infine, la difficoltà a convivere con l’euro, non potendo più svalutare la Lira, per sistemare i conti, rispetto al resto d’Europa. Il linguaggio del libro è semplice e immediato, di facile comprensione, così come è semplice ascoltare le presentazioni del volume che Cottarelli si presta a ripetere con pacatezza e competenza. Divertente, del resto, sentire come alcuni spettatori, al momento degli interventi personali o delle domande all’Autore, spiegano con dovizia di particolari come è giusto non pagare la fattura dell’idraulico o del meccanico perché “Ho già dato tanto, pagando sempre le tasse quando lavoravo” e similari. Un vizio, quello italiano, che non sarebbe risolto con l’abbattimento delle aliquote o con la possibilità di scaricare ogni spesa, sostiene il nostro, perché il meccanismo economico non è così semplicemente lineare o immediato. Ad esempio, un grosso problema è la mancata crescita demografica senza la quale ogni economia, non soltanto quella italiana, si ferma. Anche in questo caso per vari motivi, forse non ultimo la mancanza di inventiva e di innovazione che i giovani si portano dietro. In ogni caso, un paio di insegnamenti pratici e immediati il libro, quindi anche Cottarelli stesso, li dà. Le tasse bisogna pagarle. Intanto per fare la propria parte, poi il resto, l’economia e i politici, facciano la loro. Politici cha vanno scelti al momento del voto: un voto consapevole, ponderato sul reale operato di chi è stato eletto e ha svolto bene o non, il mandato conferitogli dagli elettori.

Da leggere.

 

Carlo Cottarelli: “I sette peccati dell’economia italiana”, Feltrinelli, Milano, 2018, pagg. 176; euro 15,00.

 

Alessia Biasiolo