Il mondo non mi deve nulla

Teatro e Società, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile d’Arte Contemporanea, CSS – Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, propongono uno spettacolo teatrale davvero interessante dal titolo “Il mondo non mi deve nulla”, di Massimo Carlotto per la regia di Francesco Zecca. Interpretato da Pamela Villoresi e Claudio Casadio, il lavoro, esilarante, sottile, intelligente, ironico-satirico, riflessivo, è un testo intenso sulla vita, sulla quotidianità, sul fatalismo per ciò che il fato può riservarci pur se noi cerchiamo a tutti i costi di essere gli unici, o quasi, artefici della nostra esistenza.

Massimo Carlotto è autore noir italiano e imbastisce proprio in questo genere la storia di Adelmo e Lise. Adelmo pensava di trascorrere tutta la vita in fabbrica, posto sicuro, nessuna idea di dovere cambiare (e per che cosa, poi?), ma l’azienda lo licenzia a poco più di quarant’anni, tramutandolo in un ladro per motivi di sopravvivenza. Certo, non capace e improvvisato, quindi destinato a rubare in case di gente da poco, con pochi guadagni. Abita a Rimini e parla con spiccato, inconfondibile e adorabile accento romagnolo per affermare, in una profonda riflessione ad alta voce, che pur rubando ricava soltanto lo stipendio di quando andava a lavorare, mentre la sua donna gli telefona ad ogni piè sospinto per sapere se ha trovato qualcosa da racimolare. E mentre la povera donna, stanca di lavare le scale, confida che lui possa da un momento all’altro cambiarle la vita, lui la vede spegnersi ogni giorno di più, archetipo del senso di sconfitta nel quale la “crisi” ha messo le persone. Poi, colpo di fortuna, Adelmo entra in un appartamento da una finestra aperta e ci trova argenteria e una ventata di tranquillità. Quell’appartamento rappresenta tutto quello che l’italiano medio chiede: un po’ di quiete, una tregua, un po’ di pace. Ecco, allora, che, sulle ottime scene di Gianluca Amodio (costumi di Lucia Mariani e musiche di Paolo Daniele), l’uomo si trova in una storia assurda. Lize, la donna che abita nell’appartamento nel quale si è introdotto, è stata tradita dalle banche. Lei che ha passato la vita nel lusso, truffando la gente, e poi come croupier di casinò, mettendosi da parte una fortuna per la vecchiaia, adesso si ritrova con il necessario per campare, nel suo tenore di vita, soltanto un anno, due al massimo. E, incapace di sostenere lo smacco di essere stata truffata a sua volta, incapace di pensare di cercare ancora di farsi corteggiare e mantenere, malgrado Adelmo ad un certo punto le proponesse di mettersi in società per cercare di fare un colpaccio, vuole essere uccisa in cambio di 120mila euro. La storia ruota intorno alla volontà della donna di farla finita trovando qualcuno che la ammazzi, e del ladro di finire di patire, mentre si staglia sul fondo della commedia un finale a sorpresa, proprio come il migliore noir vuole. Lo spettatore viene trascinato dal copione e dalla bravura dei due attori in un vortice di risate che sottendono paure e riflessioni profonde della vita che ciascuno di questi tempi fa, anche senza diventare un ladro. In fondo, però, a tutti sembra di avere rubato qualcosa, alla fine della scena e sui lunghi applausi: il tempo alla famiglia, il tempo a “mettere via” soldi che sfumano in un altalenare borsistico, il tempo in giochi fatui che rubano tempo all’amore, quello vero per sé e ciò che conta davvero e che, forse, si ritrova ridimensionando il tempo delle cose per preferire il tempo delle persone. Un lavoro teatrale bellissimo (visto al Teatro Sociale di Brescia) e da non perdere.

 

Alessia Biasiolo

 

 

La grande illusione. Matteo Renzi

Lo spunto è il titolo del famoso film che ha riportato l’Italia in auge nella cinematografia internazionale, ricalcando, pur se in modo rivisitato, la “Dolce vita” in versione anni Duemila. Ma la “grande illusione” per Fabrizio Boschi è il Matteo nazionale, il premier Renzi, analizzato nella sua carriera tra il 2004 e il 2014, cioè “Dalla Provincia di Firenze a Palazzo Chigi” che, per l’autore, sono stati addirittura “dieci anni di giochi di prestigio”. Il libro è assolutamente interessante e da leggere, soprattutto se non si è deboli di cuore, nel senso se si è disposti a sopportare di leggere di veri e propri giochi da “la mano è più veloce dell’occhio”. Travasato in politica, potremmo dire se la quotidianità è più veloce della memoria che noi italiani solitamente abbiamo corta. Il taglio del libro è simpatico, lo stesso Boschi afferma che assolutamente non ce l’ha con Renzi stesso, però lo ha studiato e analizzato per regalarcelo dopo la prefazione di Alessandro Sallusti. Secondo Sallusti, che lo ha conosciuto in dibattiti televisivi, il soggetto è simpatico, capace di rottamare prima di Grillo, di seguire la scuola di Berlusconi in tema di leadership, ma di lui non si fida perché, a differenza di Berlusconi, Renzi non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Certo, ha fatto il politico, ma il lavoro è altro che parlare, viaggiare, incontrare. E su questo punto bisogna ragionarci su.

Quindi, dopo l’analisi personale di Salllusti, passiamo alla vita di Matteo Renzi secondo Boschi, da com’era a scuola, a quando partecipava ai quiz di Mediaset, per arrivare all’affinamento della volontà di riuscire. Ragazzo un po’ goffo, sembra che abbia voluto a tutti i costi riuscire, al punto che ha messo a frutto in politica il suo equilibrismo, parlando tanto al punto che convince tutti di tutto, se soprattutto perdono il filo da dove è iniziato il discorso. Ad esempio, sostenendo di non volere affatto assecondare Angela Merkel, ma dando l’impressione di avere fatto proprio questo. Un’impressione che per Boschi fa pensare alla “velocissima parabola di Renzi” come ad una “grande illusione”. Continua l’autore: “Dopo i primi passi del governo Renzi, tutti si sono accorti che questo giovanotto di Rignano sull’Arno, altro non è che un fuoco fatuo, strabordante di belle parole, ma piuttosto vuoto nei contenuti”.

Renzi chi è per Federico Boschi quindi? “Uno nuovo, troppo nuovo, nuovista o, invece, un vecchio politicante, un giovane virgulto di perfetta scuola democristiana con la faccia da giovane, ma i metodi da vecchio?”. Viene proposto spesso il paragone con Machiavelli, un confronto che personalmente trovo ironico, dato che del potere di governo alla Niccolò c’è solo la facciata. Come se si trattasse dello specchio dei tempi, una sorta di brutta copia tipica dei giovani di oggi che, se non sono più che preparati, prendono la prima pagina di internet che risponde alla ricerca, oppure si accontentano di una App, per farsi una storia e una ragione senza, tuttavia, averne spessore e costrutto. Boschi propone una lettura diversa del renzismo, per fare ragionare e, soprattutto, capire dove sta l’Italia oggi, con quella sequela di provvedimenti, di leggi e leggine che si rincorrono dando la sensazione di non cambiare nulla. Ad esempio, cos’è cambiato nella politica? Hanno tolto i vitalizi, li hanno abbassati, hanno davvero cambiato, oppure soltanto si sono limitati ad imbonirci di parole? La solidarietà di cui tanto si parla in questi giorni la dobbiamo avere noi comuni mortali tra noi, come al solito. Perché la Corte Costituzionale non ha ridotto i propri privilegi, nemmeno Renzi ha messo le tasse a quello che i politici prendono e andiamo avanti così, preoccupandoci di tagliare le pensioni se una persona, dopo avere lavorato quarant’anni, vive con un’altrettanta persona che ha lavorato quarant’anni. Perché fanno i conti in tasca rispetto a cosa deve spendere una persona e come, ma di loro sì, si dice tanto, ma non cambiano abitudini.

Renzi: chierichetto, figlio di una famiglia cristiana praticante, scout, negato per il calcio, cominciò ad arbitrare, per poi abbandonarlo. Perse le elezioni per diventare rappresentante d’istituto, ma venne ripescato come primo dei non eletti. Lo chiamavano “i’ Bomba” perché amava spararle grosse e, aggiunge Boschi, “Quel vizio di essere, o sembrare, sempre il primo in tutto non se l’è mai tolto di dosso. Era un tantinello prepotente e si divertiva a rubare la scena agli altri, di mettere in ombra i ragazzini che frequentava”. Uno dei suoi miti divenne Fonzarelli della serie televisiva “Happy Days”, più volte citato, ma anche imitato quando si presentò agghindato da Fonzie alla trasmissione di Maria De Filippi nel 2013. Al punto che sui social network venne soprannominato Arthur Renzarelli. Boschi fa sorridere definendo Renzi un folgorato sulla via del Valdarno dalla politica quando aveva soltanto dieci anni e quella divenne la sua strada. La sua tesi di laurea si intitolava “Firenze 1951-1956: la prima esperienza di Giorgio La Pira sindaco di Firenze” e si laureò, nel 1999, in Giurisprudenza. Intanto, la sua carriera politica proseguiva spostandosi nel 2001 dalla zona di centro un po’ più a sinistra quando venne nominato coordinatore fiorentino della Margherita. Segretario del Partito Popolare, riuscì a fare tenere il primo congresso nazionale della Margherita proprio a Firenze, dove il Partito Popolare subì la trasformazione. Si scagliò subito così contro la vecchia politica, iniziando quella rottamazione che caratterizzerà il suo diventare primo ministro. Divenne presidente della Provincia di Firenze a 29 anni, il più giovane d’Italia. Eppure poi considererà questo ente inutile. Durante il mandato scrisse il secondo libro, questa volta da solo, e lo fece diventare un manuale della rottamazione scrivendo nell’introduzione “Anche i dinosauri prima o poi si estinguono”. In quel periodo il suo protagonismo cominciò a infastidire, afferma l’autore. Invece di ricandidarsi alla Provincia, si candidò alle amministrative e divenne il sindaco più amato d’Italia, secondo i sondaggi del 2010. Anno che diede il via alla mitica “Leopolda”, dal nome della ex stazione ferroviaria, la prima di Firenze, dedicata al granduca Leopoldo, luogo di aggregazione non nuovo per Renzi e che diverrà famoso anche in seguito.

Renzi continua ad imparare: come parlare, come vestirsi, come rispondere, ancora come parlare, soprattutto come continuare a parlare. Diventa quello che Vittorio Feltri sintetizza così: “Quando uno scopre l’acqua calda spacciandola per un’idea geniale bisogna diffidarne”. Il tono del lavoro di Boschi è questo, preparato, e divertente in fondo, molto ben scritto, ma un’idea vi è imperante, e che mette in soggezione e in ansia: che tipo di persone siamo per avere dei rappresentanti che ci “imboniscono”, se la teoria proposta è vera? Ci facciamo piacere l’apparenza? Renzi che si opponeva al vecchio dei giochi di potere, ne è di fatto un artefice?

Questo è il merito del lavoro di Federico Boschi, praticamente coetaneo di Renzi, giornalista e scrittore. Un’analisi che, a parte i dati precisi, ci permette di ragionare, processo che in Italia è stato appiattito al punto che quando qualcuno tra i comuni mortali ha un vago sentore di domanda tra sé e sé su cosa non va, in realtà si chiede se è l’unico fuori luogo tra tutti.

Da leggere.

Federico Boschi: “La grande illusione. Matteo Renzi 2004-2014”, Amon, 2014.

 

Alessia Biasiolo

Concerto Sinfonico diretto da Stanislav Kochanovsky al Carlo Felice

Venerdì 13 febbraio 2015 alle ore 20.30, prosegue la Stagione Sinfonica al Teatro Carlo Felice con il decimo concerto in abbonamento.

Sul podio, a dirigere l’Orchestra del Teatro Carlo Felice sarà la bacchetta del Direttore russo Stanislav Kochanovsky, giovane promessa della scena musicale russa, Direttore Principale dell’Orchestra Filarmonica di Kislovodsk, la cui carriera internazionale si è andata sviluppando con i primi importanti debutti presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, la hr-Sinfonieorchester di Francoforte, la Finnish Radio Symphony, gli Hamburger Symphoniker.

Protagonista al violino, Viktoria Mullova, solista conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo  per la straordinaria versatilità ed integrità musicale, la cui curiosità fa sì che ella abbia  esplorato ed  esplori tutto il repertorio per violino, dal barocco alla musica contemporanea, dalla world fusion alla musica sperimentale. Per l’ampiezza e la diversità di interessi,  Viktoria Mullova è protagonista di importanti cicli di concerti nelle più prestigiose sale Europee, dal Southbank di Londra alla Konzerthaus di Vienna, dall’Auditorium del Louvre di Parigi, al Musikfest Bremen, dall’Orchestra Sinfonica di Barcellona al Festìval di Helsinki.

In apertura di programma verrà eseguito il Concerto per violino e orchestra in Re maggiore op. 77 di Johannes Brahms, un brano che presenta notevoli difficoltà tecniche e interpretative, una partitura di natura sinfonica e d’incessante tensione espressiva, in cui il violino dialoga costantemente con l’orchestra, ma al tempo stesso ha modo di esibirsi esprimendo appieno le proprie potenzialità. Una partitura bollata inizialmente come “anti-violinistica”, proprio a causa di un virtuosismo, secondo alcuni interpreti dell’epoca, esasperato.

La Sinfonia n.2 in Re maggiore, op. 36 di Ludwig van Beethoven, sarà protagonista della seconda parte della serata. Più estesa, più varia, più ricca di materiale tematico, più salda e complessa nella sua tensione dialettica rispetto alla “Prima”, la Sinfonia n. 2 propone un linguaggio che ha fatto tesoro delle tante sperimentazioni condotte dal genio tedesco in ambito pianistico e cameristico. Pagina solare e piena di energia, a dispetto del periodo difficile in cui il compositore la scrisse, venne terminata nell’estate del 1802 ed eseguita pubblicamente per la prima volta a Vienna, il 5 aprile 1803.

Alle ore 19.00, presso la sala Paganini, precederà il concerto una breve conferenza introduttiva a cura di Giorgio De Martino.

Il Teatro, quindi, sarà aperto al pubblico a partire dalle ore 18.45.

 

Venerdì 13 febbraio 2015 alle ore 20.30

decimo concerto in abbonamento

Direttore

Stanislav Kochanovsky

Violino

Viktoria Mullova

Johannes Brahms

Concerto per violino e orchestra in Re maggiore, op. 77

Ludwig van Beethoven

Sinfonia n. 2 in Re maggiore, op. 36

Orchestra del Teatro Carlo Felice

 

Marina Chiappa

Warega. Una mostra etnica a Brescia

Conoscere i Warega, i signori della foresta congolese, attraverso i feticci e le maschere che caratterizzano la loro concezione della vita, è un’esperienza indimenticabile. La bella mostra allestita nella spettacolare cornice del complesso di San Cristo, a Brescia, sottolinea l’impegno dei missionari saveriani in varie parti del mondo, e nel Congo in particolare, dato il tema dell’esposizione di quest’anno. È già la tredicesima mostra di questo genere organizzata annualmente, stavolta già a partire da novembre, fino al prossimo 1 marzo.

La mostra è a ingresso libero, allestita magistralmente da un gruppo di volontari coadiuvati da ingegneri e architetti che hanno saputo ben organizzare la raccolta di un missionario saveriano, Gianandrea Tam, al quale la tribù congolese dei bwami ha affidato gli oggetti esposti. La mostra multimediale non manca di filmati che spiegano la storia recente del Congo e le abitudini degli abitanti delle varie regioni. Il Congo, stato dell’Africa centrale indipendente soltanto dal 1960, occupa il bacino del fiume omonimo, immerso in una foresta pluviale, seconda al mondo dopo quella amazzonica. Paese otto volte più grande dell’Italia, ricco di risorse minerarie e naturali, vanta diamanti, oro, uranio, petrolio, animali come i gorilla di montagna, le cui colonie sono ampiamente studiate, e l’okapi, antilope rarissima, entrambi viventi soltanto laggiù. La popolazione si distingue in oltre trecento etnie delle quali una si chiama Warega, stanziata nella parte orientale del Congo. I Warega hanno fatto della misteriosa e affascinante arte congolese una preziosa risorsa tramutando in feticci, maschere, amuleti, insegne di potere, il senso della propria concezione del mondo. Conosciamo così una popolazione che misura la capacità dalla realizzazione personale, permettendo a tutti la scalata sociale per ottenere migliori condizioni lavorative e di vita, oltre al rispetto della propria tribù. Un uomo potrà avere mogli e prestigio in base al numero di animali da cortile, bovini e ovini che avrà a disposizione e che dimostrerà, pertanto, di poter mantenere, attestando così la sua forza come lavoratore, la sua saggezza nel sapersi gestire e organizzare, la sua voglia di migliorarsi, pur nel rispetto delle regole sociali, dei vecchi e della comunità. Soprattutto, i Warega tramandavano il sapere attraverso detti che diventavano insegnamento ai bambini: i vecchi, ad esempio, misuravano e misurano la società, perché solo l’ambiente che rispetta gli anziani è garanzia di saggezza, buon senso, sana visione del mondo.

Gli oggetti menzionati, e visibili in mostra, sono il senso della religiosità e delle tradizioni dei Warega, mezzo per il trascendente e per meditare sul mondo e sui suoi equilibri. Grazie all’iniziativa dei missionari saveriani possiamo così scoprire e approfondire una interessante etnia, carica di molto da insegnarci. L’allestimento è originale, con scaffalature ricavate da scatole nelle quali sono posizionate statuette, maschere e vari oggetti, tutti scolpiti in vari tipi di legno, alcuni molto rari, non mancando l’ebano o il palissandro. Ogni oggetto è poi arricchito di piume, conchiglie, stoffe, filamenti vari naturali, testimonianza della vita e della natura locale. Interessanti le varie maschere, utilizzate in feste o riti, dalle espressioni che richiamano sentimenti, emozioni, pezzi di vita di persone così chilometricamente lontane eppure così simili a noi, malgrado le abitudini e la civiltà differenti.

Non mancano gli strumenti musicali, gli oggetti per la pesca, la caccia e l’agricoltura, momenti di vita vissuta che trasmettono un’intensità unica, da apprendere tramite oggetti che vivono sotto i nostri occhi. Al termine della mostra, la vendita di oggetti missionari e del mercato equo e solidale. La raccolta fondi andrà finalizzata alla costruzione di una nuova missione saveriana nella città di Kindu, la città dei giovani. Verranno attrezzate due aule per lo studio e la lettura degli studenti. I soldi serviranno per l’acquisto degli infissi, dell’illuminazione, dei tavoli e delle panche. Il finanziamento per la costruzione degli arredi verrà dato ad artigiani locali, in modo da garantire che l’iniziativa dia lavoro in loco. L’attività sarà finalizzata a settecento ragazzi e il tutto si otterrà con quindicimila euro. Il prossimo 7 marzo verrà organizzata una cena con un ricco menù tradizionale congolese, su prenotazione ad euro 25 a persona. La mostra allestita nel complesso di San Cristo è accessibile in zona a traffico limitato parcheggiando nell’ampio piazzale del complesso stesso, che permette una superba vista panoramica su Brescia.

Alessa Biasiolo

Ara Malikian a Genova

La Stagione dell’Auditorium E. Montale prosegue con due appuntamenti, nei quali spicca la presenza del violinista Ara Malikian.

Lunedì 9 febbraio alle ore 9.30 e alle ore 11.00, “L’Arte del violino”, incanto, divertimento e gioia di apprendere. Nello spettacolo/concerto musiche di Bach, Paganini, Ysaÿe e dello stesso Malikian, spiegate, spezzate, ricomposte e infine suonate da questo musicista straordinariamente comunicativo, capace da solista di trascinare il pubblico  in un mondo di invenzioni  e di emozioni, un vero e proprio fuoriclasse del palcoscenico.

Martedì 10 febbraio ore 9.30 e ore 11.00 e Mercoledì 11 febbraio ore 9.30 e ore 11.00, andrà in scena “Le mie prime 4 Stagioni” in cui Ara Malikian intende trasmettere ai bambini l’esperienza della musica in modo ludico ed eloquente, spiegando e mettendo in scena prima di ogni movimento i sonetti che lo stesso Vivaldi compose per questi concerti.

Infatti durante tutta l’opera, Vivaldi fa riferimento a situazioni, fenomeni naturali, animali, personaggi, stati dell’animo, riti, che danno forma alla musica e questi testi sono stati utilizzati per dar forma teatrale al concerto. In maniera semplice, la parola introduce e facilita la comprensione della musica in modo che il pubblico entri in un’avventura e il concerto si trasformi in una fantastica esperienza musicale tanto per bambini, quanto per adulti.

 

Lunedì 9 febbraio 2015 ore 9.30 e 11.00

Auditorium Eugenio Montale

L’ARTE DEL VIOLINO

Violino       Ara Malikian

 

Martedì 10 febbraio ore 9.30 e ore 11.00

Mercoledì 11 febbraio ore 9.30 e ore 11.00

Auditorium Eugenio Montale

LE MIE PRIME 4 STAGIONI

Violino       Ara Malikian

Violino       Pier Domenico Sommati

Viola Giuseppe Francese

Violoncello Giulio Glavina

Contrabbasso Elio Veniali

Voce recitante

Testo Marisol Rozo

Musica di Antonio Vivaldi

 

Marina Chiappa

Concerto aperitivo al Teatro Carlo Felice

Domenica 8 febbraio alle ore 11.00 appuntamento con i Concerti Aperitivo della domenica mattina nel Primo Foyer, con l’Orchestra del Teatro Carlo Felice e l’esibizione al violino di Ara Malikian.

Un musicista straordinariamente comunicativo, capace da solista di trascinare il pubblico  in un mondo di invenzioni  e di emozioni, un vero e proprio fuoriclasse del palcoscenico.

Malikian salta, balla, si inginocchia, si stende suonando il suo strumento con maestria inimitabile e conferendo al concerto una teatralità intenzionalmente distante dalla rigida compostezza delle usuali esecuzioni di musica classica, fino a coinvolgere attivamente il pubblico nella performance.

In programma “Le mie prime quattro stagioni” di Antonio Vivaldi, con testo di Marisol Rozo e la voce recitante di Tony Contartese.

In maniera semplice, la parola introduce e facilita la comprensione della musica in modo che il pubblico entri in un’avventura e il concerto si trasformi in una fantastica esperienza musicale tanto per bambini, quanto per adulti.

L’iniziativa dei concerti aperitivo conferma l’attenzione di un pubblico genovese sempre più attento e desideroso di novità culturali, abbinate anche alla possibilità di ascoltare della buona musica sorseggiando un aperitivo nel primo foyer, ambiente suggestivo e raffinato a cura di Mentelocale.

Marina Chiappa

Satira per Renzi, Merkel e papa Francesco al Carnevale di Viareggio

Il premier Renzi nei panni di Pinocchio, di un grande robot, come illusionista e a cavalcioni della tartaruga delle riforme, la Merkel partoriente, papa Francesco ai fornelli e in braccio a Putin, Berlusconi che tenta la scalata al Colle, l’Italia allo sbando. La satira è protagonista sui carri del Carnevale di Viareggio 2015, accanto a temi sociali e ambientali, come la violenza sui minori e l’uccisione degli elefanti per l’avorio. Tra le maschere anche Mina. Ecco i soggetti delle costruzioni che sfileranno ancora sui Viali a Mare di Viareggio l’8, il 15, il 22 e il 28 febbraio. In concorso ci saranno dieci carri di prima categoria, quattro di seconda, nove mascherate in gruppo e dieci maschere isolate. Per Viareggio sarà il 142esimo anno del suo Carnevale.

Elisabetta Castiglioni

“Il cappotto” di Vittorio Franceschi

Esilarante la commedia messa in scena da Emilia Romagna Teatro Fondazione, liberamente tratta dal racconto omonimo di Gogol’ “Il cappotto” da Vittorio Franceschi, per la regia di Alessandro D’Alatri, con lo stesso Vittorio Franceschi, Umberto Bortolani, Marina Pitta, Federica Fabiani, Andrea Lupo, Giuliano Brunazzi, Matteo Alì, Alessio Genchi, Stefania Medri.

Poco meno di due ore di risate, riflessioni quanto mai attuali, ottima recitazione, sulle scene di Matteo Soltanto e costumi di Elena Dal Pozzo.

“Il cappotto” è uno dei racconti più famosi di tutta la letteratura mondiale, scritto da Nikolaj Vasil’evic Gogol’ nel 1842 e già al centro di un adattamento cinematografico firmato nel 1952 da Alberto Lattuada con Renato Rascel protagonista.

Ambientato nella Russia zarista, “Il cappotto” racconta, tra realismo e ironia, la vicenda umana del piccolo funzionario Akàkij Akàkievic Basmàchin che vive serenamente della propria anonima attività di copista, sino al momento in cui, costretto dalle convenzioni sociali e dall’arbitrio degli arroganti più che dal freddo dell’inverno, deve comprarsi un nuovo cappotto, per sostituire il vecchio, troppo liso per essere presentabile. L’arrivo del nuovo indumento, acquistato dal sarto Petròvic risparmiando fino all’ultimo centesimo e grazie ad una insperata gratifica natalizia, è per lui un evento importante, che sembra fargli guadagnare il rispetto dei colleghi e dei superiori, finché non gli viene rubato. L’evento pone subito allo spettatore il dramma di un uomo comune, come tanti, forse come tutti coloro che sono in sala, che sperano di avere realizzato qualcosa nella vita e se lo vedono strappare in questo caso dai ladri, oppure dalle banche, dalla disoccupazione, dalle tasse, non ha alcuna importanza. L’importante è porre l’accento, non senza comicità, sull’essere umano e sull’oggi che assomiglia tanto a un ieri poi non da troppo trascorso.

Vittorio Franceschi, infatti, ne ha tratto una propria versione teatrale diretto da Alessandro D’Alatri, regista diviso tra cinema, teatro e pubblicità, che torna a collaborare con Franceschi dopo “Il sorriso di Daphne”, spettacolo vincitore, tra gli altri, del Premio “ETI – Gli Olimpici del Teatro” 2006 e del Premio Ubu “Nuovo testo italiano” 2006.

Rispettando in larga parte la trama e firmando totalmente i dialoghi, assai scarsi nel testo originale, Franceschi ci consegna la storia di un innocente, di un uomo semplice colpito da uno speciale accanimento del destino. “È la storia, credo – scrive l’autore e protagonista – della maggioranza degli esseri umani, dei “copisti della vita” i quali mandano avanti il mondo pur subendone le violenze e gli insulti, e ripetendone all’infinito le parole e gli usi, i sentimenti e i desideri, i sogni e i naufragi. Quindi si parla di noi, anche se Gogol’ questo racconto l’ha scritto nel lontano 1842. Credo che un grave errore sarebbe stato quello di trasferire la storia di Akàkij nei giorni nostri, come spesso si usa fare con i classici. Non ce n’è bisogno. Siamo tutti vecchi Pietroburghesi. Di quella città conosciamo a fondo gli angoli delle strade, i volti dei passanti, le voci, i rumori e gli odori, perché sono gli stessi di Milano e di Torino, di Bologna e di Genova, di Roma e di Napoli e di tutte le città italiane di oggi e di sempre. La marmaglia rapace dei presuntuosi, dei vili, delle mezze calzette, dei barattieri e dei prepotenti cammina e traffica al nostro fianco, come camminava e trafficava al fianco di Akàkij Akàkievič ai tempi dello Zar Nicola I”.

“Ho affrontato la regia – scrive Alessandro D’Alatri nelle sue note – cercando di dilatare i confini del reale, proprietà esclusiva del teatro, restituendo una continuità al racconto come se non dovesse esistere mai una interruzione. Se fosse un film sarebbe un unico piano sequenza che seguendo il candore di un umile personaggio ci accompagna tra le pieghe dei vizi e della corruzione della condizione umana. Un viaggio che, nonostante la distanza storica, ci fa sentire tutta la contemporaneità dell’opera”.

Quindi una commedia quanto mai contemporanea, ricca di sfumature fedeli alla Russia dei tempi andati, ma capace di portare immediatamente alla corruzione attuale, al clientelismo senza tempo, alla solita derisione di chi si crede superiore ai danni di coloro che pensano solo di fare il proprio meglio, reggendo le sorti di un intero Paese. Un lavoro assolutamente contemporaneo, quindi, pur se con il sapore del passato che suscita non solo riflessione, ma sprone per un presente migliore. Da non perdere.

Alessia Biasiolo

Dalla Natura al Segno. From Nature To Sign. Harry Bertoia 1915 – 2015

Bertoia

Il 10 marzo 1915, a San Lorenzo di Arzene nasceva Arieto (Harry) Bertoia. Il territorio da cui egli partì, appena quindicenne, con la valigia di cartone deciso a realizzare il suo Sogno Americano, ricorda ora coralmente l’importante centenario: il Comune di Pordenone, il Comune di Valvasone Arzene e la Pro Loco di San Lorenzo hanno voluto promuovere una mostra articolata in due sedi (Galleria Harry Bertoia, a Pordenone; Casa natale a San Lorenzo d’Arzene) che rende omaggio a questo artista il cui lavoro rappresenta ancora un’importante indicazione di metodo, di rigore, di costante dedizione alla ricerca. Emigrato nel ’30 verso gli Stati Uniti, Bertoia riuscì a conquistarsi il successo e a raggiungere notorietà internazionale con la linea di sedie Diamond (1952), un’icona del design mondiale. Ma più in generale con la sua multiforme produzione artistica (sculture, incisioni, disegni, gioielli, ecc.) egli seppe imporsi per la spiccata originalità unita ad un’attitudine sperimentale sia nel campo dei materiali che delle forme. Harry Bertoia appartiene alla schiera non foltissima degli artisti friulani del ‘900 che hanno saputo meritare davvero fama internazionale. Fino a pochi anni fa era però poco conosciuto nella sua terra d’origine: tale lacuna è stata poi colmata da due mostre in successione (la prima presso la sua casa natale a San Lorenzo, nel 2008, e la seconda, più vasta e particolareggiata, a Pordenone nel 2009) esposizioni che hanno fatto conoscere meglio la qualità del suo lavoro anche nella nostra regione. Nel 2014 il Comune di Pordenone ha voluto rimarcare il riconoscimento dell’autorevolezza dell’artista intitolandogli il nuovo spazio espositivo di Palazzo Spelladi, divenuto dunque Galleria Harry Bertoia. Sarà proprio questa prestigiosa sede ad accoglie l’esposizione che il Comune di Pordenone ha deciso di proporre per celebrare il centenario della nascita di Bertoia. Qui il percorso documentario già al centro delle due mostre precedenti è arricchito da materiali prima mai esposti, provenienti dalla collezione personale di Celia Bertoia, figlia del maestro. Si tratta di un importante nucleo di 30 monotipi, raffinate e rare stampe su carta, realizzate in unico esemplare tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’70. Queste opere offriranno al visitatore l’opportunità di confrontarsi con una parte originale ma ancora poco nota della produzione di Bertoia e pure evidenzieranno i diversi apporti, anche europei, che confluirono nella sua arte, mai del tutto appagata dai risultati sia pure innovativi appena raggiunti. I monotipi in mostra, con il loro accostamento espositivo ad alcune sculture e ad alcune sedie Diamond, consentiranno infatti di ben percepire i molti rimandi e le suggestioni tra i diversi generi artisti praticati dall’artista. Un laboratorio didattico, organizzato per l’occasione, permetterà inoltre di analizzare anche le tecniche insolite e particolari con cui sono stati realizzati questi originali e preziosi lavori su carta che costituiscono una sorta di diario creativo dell’artista. Una significativa sezione della mostra, grazie alla collaborazione della Knoll, sarà dedicata alla progettazione della celebre poltrona Diamond (1952) e alla sua produzione in serie (nello stabilimento di Foligno, in Italia). Materiali pubblicitari d’epoca metteranno pure in evidenza la qualità della comunicazione per immagini messa in campo negli anni ’50 dall’azienda produttrice: e ne verrà ancora un utile suggerimento di metodo per l’oggi. Alcuni filmati d’epoca riprodotti sulle pareti del primo piano dello spazio espositivo accoglieranno il visitatore e lo faranno entrare, virtualmente, nello studio-fienile di Barto, in Pennsylvania, e si potrà vedere Harry Bertoia al lavoro con la saldatrice o mentre ci dimostra la naturale reattività delle sue sculture sonore. La musicalità cosmica originata da queste celebri opere caratterizzerà comunque, con discrezione, gran parte dello spazio espositivo quasi fosse l’essenza ultima dell’arte di Arieto Bertoia. Nella casa natale di Harry Bertoia a San Lorenzo di Arzene (Pordenone) l’attenzione sarà innanzitutto incentrata su un altro ambito della produzione di Bertoia, quello dei gioielli. Tre di questi oggetti d’arte verranno posti sul tavolo della cucina quasi fossero appena stati portati da Arieto in dono ai suoi familiari. Le fotografie di 19 gioielli degli anni ’40-’70 e di un disegno progettuale (appartenenti alla collezione Wrigth) troveranno invece collocazione in un’altra stanza della piccola casa in cornici retroilluminate: l’effetto sarà molto intenso e le opere potranno essere esaminate in tutti i loro più minuti particolari. Infine nella vecchia stalla un giovane artista friulano, Michele Spanghero, riprodurrà il suo video dal titolo Translucide che idealmente recupera l’eredità del lavoro di Harry Bertoia e, in modi propri e originali, ne attualizza il messaggio collegato alla volontà di ricerca e di sperimentazione. Con la partecipazione in mostra di un giovane artista verrà dunque sottolineato un ideale passaggio di testimone tra generazioni: com’è sempre, o dovrebbe essere percepita, l’arte in generale. Dalla Natura al Segno. From Nature To Sign. Harry Bertoia 1915 – 2015 dal 7 Febbraio al 29 Marzo 2015, Galleria Harry Bertoia, C.so Vittorio Emanuele II, 60, Pordenone Casa natale di Harry Bertoia, Via Blata, 12, San Lorenzo di Arzene dal martedì al sabato dalle 15.30 alle 19.30; domenica dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 19.30, lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 3,00; ridotto euro 1,00. Sede espositiva Casa natale di Harry Bertoia: San Lorenzo di Arzene, via Blata, 12 aperta il sabato 15.30/19.30; domenica 10.00/13.00 15.30/19.30; aperto in altri giorni, per gruppi, su prenotazione:

Clelia Delponte

 

“Il Sangue” di Pippo Delbono

Lo spettacolo con Pippo Delbono e Petra Magoni “Il Sangue”, già annunciato all’interno del programma del Festival del Vittoriale “Tener-a-mente 2014”, sarà recuperato sabato 7 febbraio presso il Teatro Centrolucia di Botticino Sera, in via Longhetta 1 – 25082 (BS).

Più che uno spettacolo teatrale, Delbono ha progettato un concerto in forma drammatica. Delbono ha intrapreso con una straordinaria Petra Magoni il suo viaggio musicale nella classicità, lavorando sul mito di Edipo. È nato così, primo movimento del progetto complessivo “Concerti sul cielo e la terra”, “Il sangue”, che fin dal titolo cita i temi e i titoli che da qualche tempo costituiscono (in teatro come al cinema, e talvolta anche nelle polemiche che ne sono divampate) il territorio culturale e umano di Delbono. Uno straordinario artista che con una sensibilità tutta personale riesce a leggere la situazione sociale e politica attorno a lui anche attraverso la propria biografia. La condizione tutta particolare della orfanità di Edipo, spogliata dell’aura mitologica della maledizione divina e della Chimera, dell’assassinio ignaro del padre, e della morte che si dà la madre per aver concepito, con lui figlio, altri figli destinati alla maledizione e all’infelicità, diviene la sofferente condizione di sradicamento di una creatura di oggi. Costretto a misurarsi con la morte e peggio ancora con la vita, ovvero il grumo di rapporti malati e dei non/rapporti di sofferenza che lo allontanano da speranze e illusioni, ma anzi tendono a rinchiuderlo in una invalicabile gabbia di sofferenza. “Solo colui che ha attraversato indenne il confine della vita, solo quell’uomo puoi chiamare felice” dice Sofocle del suo Edipo, e in qualche modo è questa la traccia del percorso che Pippo Delbono e Petra Magoni, con le musiche preziose che Ilaria Fantin trae da strumenti antichi come il liuto e l’opharion (e quando serve dalla chitarra elettrica), tracciano sul palcoscenico storico dell’Olimpico. Le parole di Pippo trovano eco e musicalità nei ruggiti e nelle cascate vocali di Petra, per poi ricomporsi nelle volute fascinose di melodie rinascimentali, da Peri e Caccini al sommo Monteverdi. Anche se le performances di lei conquistano il pubblico variando in un gospel o in un hit rock dove freme una condizione umana combattuta e gridata. Ma poi si sprofonda in radici ancestrali,come l’antico canto del contadino pugliese all’Antica terra mia che guarda sconsolato Nebbia alla valle . E con quelle olive benedette e insieme dolorose, siamo già nei territori psicoetnologici indagati dal genio di Ernesto De Martino… Insomma è una grande fascinazione quella che in poco più di un’ora si percorrere sul proprio Sangue. La meta è proprio la speranza, che solo l’arte, in questo caso, può dare. In questo senso, un concentrato, consapevole Delbono, e alla Magoni capace di ogni acustico prodigio, fanno da affidabili battistrada.

Da una parte un’immensa Petra Magoni che veste e spezza le note dentro vertigini, dall’altra Pippo Delbono che, quasi un cristo laico al centro del palco, pianta i chiodi della tragedia e li semina sulla storia personale che poi è la storia di tutti. Un racconto di compassione che parte da lontano e arriva fino al presente fatto di madri che ci hanno lasciato, di esuli, di lontananze, di addii e di vite vissute da un’altra parte, anche dalla parte selvaggia, come cantava Lou Reed. Ma il musicista americano, spesso evocato dallo stesso Delbono non è l’unico Grande ad entrare in questo «concerto sul cielo e la terra». Il pubblico vede prendersi per mano Sofocle e Leonard Cohen, Sinead O’ Connor e Fabrizio De Andrè. L’anima salva, nel finale, è Bobò, attore-feticcio di Delbono, sordo, muto e per quarant’anni rinchiuso in un manicomio. La sua voce senza parole si intreccia alle note scalate da Petra Magoni. E, forse, meglio di qualsiasi altra cosa, ci fa capire che da qualche parte “dev’esserci un modo di vivere senza dolore”.

Marco Guerini