Ci sono delle storie che meritano di essere raccontate perché assomigliano a delle fiabe, racchiudendo in sé tutti quegli ingredienti che piacciono alla nostra parte più profonda: quella che è inconscio puro che si nutre di piccole semplici cose, senza appesantire la vita di altro che delle lievità dei nostri corpi sottili più elevati. Così capita di scrivere di un aspetto che molti chiamano fede, miracolo, eccezionalità, mentre dovrebbe essere la normalità di tutti gli essere umani. Questa storia è la normalità del tutto che siamo. Abbiamo imparato di avere bisogno di esempi per spiegarci e anche per capire meglio la complessità della vita, come per esempi si sono espressi i grandi e si è espresso Dio quando voleva svelare ad ogni essere umano un pezzetto della sua immensità. Allora non dobbiamo stupirci se poi, sullo scenario universale dell’esistenza, compare un esempio che indichi non tanto la strada, quanto che ciascuno di noi ha quella complessità che si perde o che ci si dimentica negli anfratti oscuri dei giorni. Intorno ai 1200 metri di altezza sul livello del mare, un paesino del Veneto povero come solo i territori italiani di un tempo potevano essere, forgiava tempre e saggiava la fede. Perché è molto facile pensare di raggiungere la complessità del nostro animo, quella vicina al Cristo che in piccola parte è in noi, viaggiando in pullman gran turismo verso santuari prossimi ad hotel e ristoranti; meno semplice è esserci già, in un luogo di fede anonimo come tanti, avere la chiesa a pochi metri innevati da casa e fredda, come solo può essere il freddo quando mangi poco e ti scaldi meno. Un paesino che ha forgiato una storia come tante, di tanti figli e molto lavoro, appena il necessario per mangiare, raccolto intorno alla chiesetta che si affaccia su un panorama bellissimo. Una sola navata, la chiesina si rivolge ai gruppetti di case che sono sparse qua e là, a punteggiare la vallata come i bei fiori che aprono le loro corolle in primavera, tempo di fieno e foraggio. Poco distante il cimitero, in modo che i propri defunti che sono già arrivati in quel cielo così vicino, siano sempre a casa, vicini e protettivi per i propri cari ancora sulla terra. I sacramenti dispensati dal parroco erano fondamentali per suffragare il tempo ricco di stenti e così la fede si forgiava nel modo più puro: guardare alle cose con la semplicità di chi non vuole altro che giungere ad essere ciò che Dio vuole che sia. E così anche in casa di una piccola Carmela Cesira accadeva. La recita del rosario, i buoni insegnamenti quotidiani, avevano portato una semplice bambina ad attardarsi sempre un po’, e un po’ troppo per il gusto dei familiari, in camera sua. Forse per le preghiere, forse per qualche gioco troppo difficile da lasciare anche per raggiungere la famiglia a tavola. Carmela era magra e sempre con la testa tra le nuvole. A soli dieci anni, infatti, aveva un amico che i fratelli credevano immaginario. Lei affermava convinta che stava con lui a giocare in camera sua, ma soltanto messa alle strette disse che quel bambino era Gesù. Certo, un innocente gioco di bimba, ma che poi si rivelò affatto un gioco e una verità che verrà condivisa con le persone che Carmela incontrava. Come? Non tardò a sentire la chiamata e a decidere di diventare suora. Suo padre, Benedetto, era contadino ed era riuscito a garantire alla famiglia una vita decorosa, senza troppe privazioni, malgrado i tempi difficili e le tante bocche da sfamare. Pensava già per la figlia, la quinta di nove, la possibilità di studiare e di conseguire un diploma, quindi la sua mentalità di montanaro era aperta per i tempi. I figli erano nati tra il 1905 e il 1925 e la piccola Carmela era del 1914, l’anno di inizio della guerra mondiale. Pertanto non fu affatto felice, malgrado la sua profonda fede, quando la figlia gli disse che voleva diventare santa e che per farlo sarebbe entrata in convento. Già una zia, sorella di mamma Oliva, era suora presso il convento fondato da monsignor Giuseppe Nascimbeni, le Piccole Suore della Sacra Famiglia, e uno zio della mamma era frate minore. Benedetto aveva conosciuto il fondatore delle Piccole Suore che gli aveva detto, a proposito della cognata, che non sarebbe stata l’unica della famiglia Pagani ad entrare a far parte della sua congregazione. Carmela volle seguire l’esempio della zia, infatti, soprattutto dopo avere conosciuto la cofondatrice delle Piccole Suore, suor Maria Mantovani, che la salutò dicendo “Questa sarà la tua casa”. Carmela Cesira un anno dopo, il 28 giugno 1932, entrò in convento. Pronuncerà i voti il 19 marzo 1935 e poi il 12 gennaio 1941. Il suo nuovo nome fu significativo: Suor Pura.
Parlare di suor Pura non è difficile, perché in molte zone nessuno la conosce o non ne ha mai sentito parlare. Se si sale al paesino verso i 1.200 metri, Campofontana di Selva di Progno, oppure se si viaggia in alcuni paesi della provincia di Verona, si scopre di avere a che fare con un esempio altissimo di semplicità religiosa. In un periodo che sembra non dare troppo peso alle terribili notizie di negazione della religiosità cristiana in molte parti del mondo, l’esempio di una semplice donna, portatrice di un velo scelto come simbolo della dedizione della propria vita, ma soprattutto capace di tramutare i simboli in significati profondi, è fondamentale. Suor Pura diventò come il suo nome, mantenendo inalterato un sorriso aperto, che dalla sua anima giungeva direttamente a chi le stava dinanzi al punto che, molto meno nota del più noto padre pugliese, presso di lei come a San Giovanni Rotondo giungevano centinaia di persone per vederla, parlarle, averne un consiglio, un insegnamento, una parola buona. Suor Pura non voleva se ne parlasse troppo, almeno finché fosse stata in vita, ma la sua casa era come la cella di San Pio. Le testimonianze sono tantissime a raccontare di come la donna fosse davvero un’immagine di Cristo tra la gente. Tanto che sono in corso le pratiche per innalzarla all’onore degli altari e di lei e del suo prezioso dono possano averne parte quante più persone possibile.
Grazie, richieste di preghiere, miracoli sembra fossero già successi mentre suor Pura Pagani era ancora in vita. Oggi pregarla di intercedere per le proprie intenzioni porta a sicuro soddisfacimento della preghiera sincera. Ne è testimonianza quanto accade al suo stesso istituto adesso, 2014. Il semplice bisogno di avere un numero adeguato di persone a cui rivolgere le proprie attenzioni, porta a chiedere a suor Pura, a “chiamarla” come lei diceva di fare, e lei subito pronta accorre, esaudendo la preghiera. E la casa accoglienza si riempie di persone. L’incontro più illuminante lo ebbi alcuni anni fa con la sorella più giovane della suora, Chiarina, classe 1925. Chiarina era una donna alta, buona, semplice. Non smetteva mai di parlare di sua sorella, che aveva conosciuto per poco in casa, ma che aveva imparato a conoscere attraverso la gente che le parlava di lei, dei suoi doni che elargiva abbondantemente. La donna raccontava di sua sorella “santa” in modo diretto e semplice, senza volersene fare un vanto, ma semplicemente per dedizione non alla parte della famiglia che suor Pura rappresentava, quanto alla parte di lei che era diventata appannaggio degli altri.
“Arrivano la mattina presto tante persone, su a Campofontana. Vogliono andare in cimitero, dove mia sorella è stata portata [infatti, le suore hanno il proprio cimitero a Castelletto di Brenzone, ma possono essere seppellite presso la famiglia su richiesta di quest’ultima]. Ci vanno a volte all’alba, prima di andare in chiesa o appena dopo. A volte le trovo lì, quando vado alla tomba, e se ne vanno senza dire niente. Mi guardano da lontano. Qualcuno mi chiede di dire qualcosa di mia sorella, ma io di per me so poco, racconto quanto mi raccontano tante persone. A volte mi dicono di essere arrivate fin qui perché hanno ricevuto una grazia. Ma quello che mi dispiace di più è quando piove o fa freddo: vengono lo stesso, anche in mezzo alla neve. E poi trovo le cose. Io non sono tutto il giorno in cimitero, così quando ci vado trovo messi lì vicino alla tomba, un sacco di oggetti. Fiori, corone del rosario, orsacchiotti, di tutto! A me dispiace, perché è tanta roba che portano a mia sorella e rimane lì che si bagna ed è un peccato. Mi faccio riguardo per la gente che viene fin qui”, negli occhi sempre un filo di malinconia, quasi di pianto. Era come se la donna si immedesimasse nei problemi delle persone comuni, quelle che magari di sua sorella avevano visto soltanto un santino, o forse ne avevano solo sentito parlare.
“Così ho fatto preparare una specie di teca dove mettere dentro tutto. Perché io la roba la porto anche a casa, e la tengo lì, apposta, per chi ha voluto rendere omaggio e ringraziare mia sorella, ma non è bello che poi non si trovino più le loro cose, oppure che non stiano vicino a suor Pura. Allora ho pensato di far fare qualcosa dove mettere tutto dentro, perché non si bagni. È bello che tutto resti lì in cimitero…”, ma lo diceva e ripeteva come se fosse contenta che sua sorella, lì in cimitero, non fosse da sola.
“Forse vengono anche per ché è un bel posto, ma d’inverno… penso che vengono apposta per lei”. E la semplicità era quella di chi non capiva fino in fondo come fosse davvero successo di essere la sorella di una santa. Carmela ci era riuscita davvero, come aveva sempre desiderato!
Infatti la sua vita è quella di coloro che sono eletti per eccellenza. Ma come può essere successo? Certo, non tutti i bambini giocano con Gesù, ma suor Pura continuò a giocare con i bambini per tutta la vita. Insegnava alla scuola materna e l’incarico la portò a Folgaria, Cavazzale, Verona Porta Nuova, Ferrara, Stienta e Porto Sant’Elpidio, Monte Romano. Era una maestra premurosa e gentile, che si dedicava con impegno e solerzia anche all’insegnamento del catechismo in parrocchia. Tuttavia, è risaputo che la vita delle persone sante non può essere senza spine, senza difficoltà, e infatti a suor Pura capitò addirittura che la volessero cacciare dal convento, esortandola a rinunciare ai voti. Il caso coinvolgeva un sacerdote, parroco del paese dove suor Pura prestava servizio da anni già in qualità di superiora, che venne trasferito in altra sede; l’uomo fece intendere attraverso terzi che il suo trasferimento era dovuto alla presenza della suora e che anch’ella sarebbe dovuta, finalmente, partire. In realtà erano scaduti i tre mandati previsti come massimo di permanenza in una casa, e la suora sarebbe stata trasferita comunque, ma le maldicenze erano circolate in fretta, costringendo il vescovo a chiedere il prolungamento dell’incarico della suora, non soltanto perché preziosa per le sue qualità, ma per evitare che si alimentassero le malelingue. Fu autorizzato un quarto mandato, ma la casa madre chiedeva alla religiosa che si attenesse a partire quando fosse giunto il momento. Suor Pura si rifiutò, essendo ancora in circolazione le calunnie sul suo conto e non volendo dare adito di cattivo comportamento quando non ce n’era ragione. La mancata obbedienza comportò una sospensione e la sorella si sentì tradita. Venne ricoverata presso le Terziarie Francescane di Verona perché non mangiava più, non dormiva più. Il suo senso di giustizia era stato violato, e assomiglia molto alla scelta di questi giorni da parte di una donna condannata a morte, di non cedere alle adulazioni di professarsi colpevole di qualcosa che non aveva commesso in cambio di aver salva la vita, per non essere disonorata agli occhi della sua stessa anima per tutta la vita. Presso la casa di preghiera veronese, la giovane suora si trovò a sbagliare il piano della stanza e, credendo di entrare nella propria, era entrata nella camera di un frate. All’uomo la suora raccontò la sua triste vicenda e il buon frate le consigliò di recarsi subito in Vaticano per spiegare la sua posizione. Lui stesso si sarebbe occupato di spiegare al vescovo il motivo di quella partenza improvvisa, tramite un biglietto scritto di pugno da suor Pura. Ella, in Vaticano, incontrò papa Pio XII che, sentita la storia, chiese alla suora di restare in Vaticano per occuparsi di un vecchio sacerdote malato. Era il monsignore Fortunato Raspanti, che in breve chiamava suor Pura “La mia nuova mamma”, tanto era l’amore e la dedizione con cui veniva curato. Suor Pura, grazie al voto di povertà espresso, non aveva nemmeno un secondo abito per potersi cambiare, così il monsignore le regalò una sua veste dalla quale la religiosa ricavò un abito adatto a lei. Suor Pura era solita leggere libri di morale, che poi discuteva con i preti che incontrava sulla sua strada. Iniziò anche l’abitudine di attardarsi sotto il colonnato di Piazza San Pietro dove trascorreva molto tempo ascoltando poveri e pellegrini, dando loro sempre la giusta parola di conforto. Da Roma ebbe l’occasione, poi, di recarsi in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo e poté seguire la santa messa celebrata da padre Pio, del quale divenne figlia spirituale. Ebbe modo di recarsi altre numerose volte dal padre con il quale restava in preghiera. Così la sua anima venne perfezionata dall’incontro con colui che Giovanni Paolo II volle santo. Il legame tra padre Pio e suor Pura divenne molto forte e si consolidò nel tempo, anche se lui stesso le consigliò di scegliere come padre spirituale padre Cappello, a Roma. Noto per il dono dell’ubiquità, padre Pio divenne protagonista di un episodio particolare della vita della suorina. Infatti, suor Pura doveva recarsi in Svizzera in treno, viaggiando di notte da sola. Lo scompartimento del treno era vuoto oltre a lei, fino al momento in cui non arrivò a sederlesi accanto un uomo dall’aspetto minaccioso. La suora, impaurita, pregò padre Pio di aiutarla. Il padre era ancora vivo. Poco dopo arrivò nello scompartimento un controllore, chiese il biglietto al tizio e lo invitò a scendere dal treno perché non in regola. Il viaggio fu poi regolare e la suora arrivò a destinazione tranquillamente. Ovviamente si dimenticò dell’accaduto fino al giorno in cui, tornata a Prietrelcina, padre Pio sorridendo la ammonì di non fargli fare più il controllore del treno! Negli anni suor Pura affermò di essere sempre in contatto spirituale con padre Pio, tanto che, ad esempio, teneva un suo ritratto nella stanza dei colloqui dove incontrava le persone in provincia di Verona. Un giorno, una donna a lei devota era nella stanza per parlare con suor Pura che la esortava a prendere una coroncina del rosario e, mentre suor Pura le parlava, la donna vide il ritratto di padre Pio muoversi. Voltata la testa verso di lei, il padre del ritratto, sorridendo, la esortava a fare come la suora le stava suggerendo.
Piccoli atti, piccoli gesti che sembrano inverosimili o addirittura dettati da paranoie pericolose. Eppure pensiamo a quante volte vorremmo che qualcuno ci dicesse se ciò che stiamo facendo, la decisione che stiamo prendendo è quella giusta o quella sbagliata. Pura e Pio sono stati dei tramiti di infinita importanza nella vita di molte persone, a immagine di quel Gesù di Nazareth che trascorreva il tempo a guarire chi aveva fede dalle piccole cose di tutti i giorni, senza occuparsi di costruire imperi nel deserto.
Suor Pura, sempre a Roma ad accudire l’anziano monsignore, patì lo sconforto di vederlo morire. Sola, lontana dal suo convento, timorosa di doversi trovare ancora in mezzo alle incomprensioni che l’avevano fatta andare a Roma evidentemente per il segreto disegno di farla arrivare in Puglia da padre Pio, si trovava per strada assorta nei suoi tristi pensieri, quando vide camminare davanti a sé una suora. Non sapeva chi fosse, non l’aveva vista in volto, ma prese a seguirla mentre quella camminava sicura per le strade della capitale. Entrò infine nella chiesa di Sant’Ignazio e indicò a suor Pura un confessionale. Nel farlo si voltò a guardarla sorridendo. Era madre Maria Mantovani, la cofondatrice delle Piccole Suore, ora beata. In quel momento sparì. Suor Pura iniziò la confessione senza sapere che aveva trovato padre Felice Cappello, già indicatole tempo prima da padre Pio. Il padre la seguì spiritualmente fino al suo ritorno alla casa madre, consigliandole di mantenersi ferma nella fede e rafforzarla. Prima della partenza le consigliò di chiedere una grazia al Signore e suor Pura chiese di non provare rancore nei confronti di coloro che l’avevano indotta ad allontanarsi dal suo convento per dissipare il momento di calunnie nei suoi confronti. Venne esaudita. Tornata alla casa madre di Castelletto di Brenzone nel 1960 con una festa pacificatrice, riprese ad essere una suora serena capace di superare le difficoltà della vita. Fino al 1970 quando venne inviata a San Zeno di Mozzecane, sempre in provincia di Verona, dove avrebbe dovuto occuparsi di chiudere una scuola materna. Invece di pensare alla chiusura della scuola, suor Pura organizzò un migliore servizio per le famiglie, iniziando ad aprire la scuola dalla mattina presto per andare incontro alle esigenze dei genitori lavoratori, migliorò la mensa e le attività al punto che la scuola non chiuse. Riprese anche a San Zeno l’ascolto delle persone come aveva fatto a Roma, convinta sempre più che quella fosse la sua vocazione. Fu proprio a San Zeno che divenne la suora dell’accoglienza e del sorriso, come viene ricordata. Le ore dedicate agli altri, a cercare di capire e non soltanto ascoltare le sofferenze furono importantissime per lei e per coloro che ebbero la fortuna di incontrarla. Per quello il motto è “Chiamatemi e verrò”, anche ora che non manca di ascoltare e capire chi le parla con cuore sincero. La sua empatia era tale che le persone si sentivano a loro agio e venivano rassicurate da un fatto semplicissimo: suor Pura avrebbe pregato per loro. Questa era la sua formula. Nessuna promessa, nessuna esortazione se non la preghiera. Se proprio non riusciva a trovare una soluzione da sola, allora risolveva il problema con una semplicità estrema: avrebbe pregato con i bambini.
E non solo con loro. La sua preghiera era costante, spesso notturna per avere il giusto momento di comunione con Dio. E la sua preghiera procurava miracoli, sia spirituali che materiali, come un naso che non era più rotto grazie ad una notte di intense orazioni. I miracoli di suor Pura accadevano anche durante la sua esistenza terrena, ancorati alla certezza che nulla avviene per caso. Concetto che ripeteva spesso. E non era stato un caso se da piccola lei giocava con Gesù: lo racconterà adulta, proprio a San Zeno, svelando che non solo aveva conosciuto il piccolo Gesù, ma tutta la Sacra Famiglia che le faceva visita anche nel suo studio di San Zeno dove effettivamente la gente la sentiva parlare con qualcuno anche quando nella stanza con lei non c’era alcun mortale.
Tra le testimonianze sulla sua vita, leggiamo l’opinione comune di come fosse umile: pur essendo stata nominata superiora, spesso le decisioni le prendevano le consorelle e lei non si imponeva. Inoltre, chiedeva sempre la preghiera, per sé e per le intenzioni per cui pregava, non riteneva una via privilegiata quella che aveva con la Sacra Famiglia, ma un modo per comunicare e per esortare gli altri a farlo, con la fede nel cuore. Anche l’esortazione a pregare, infatti, era convinzione, non modo per occuparsi delle anime altrui, come spesso accade a chi si sente investito o investita da una missione così importante. La richiesta di pregare di suor Pura era la certezza che quella fosse l’unica via per risolvere i problemi. L’unica via efficace per rivolgersi al Padre. Non teneva nulla per sé: quello che riceveva donava, serenamente, allegramente. Se riceveva doni di valore li inviava alla Casa Madre. Rispettava l’imperativo del Decalogo di amare il prossimo e questo atto d’amore si concretizzava nel farsi carico di insegnare a prepararsi ai tempi nuovi. Dio le comunicava come i tempi futuri sarebbero stati difficili e suor Pura esortava non tanto a spaventarsi, pentirsi, ma a cambiare preparandosi al cambiamento. Le persone sagge sanno, infatti, che non porta buoni frutti cambiare tutto d’un tratto, tuttavia l’esortazione evangelica di vegliare veniva ricordata dalla suora affinché si fosse pronti a cogliere le opportunità offerte dalla modifica delle situazioni esterne. Pregare con suor Pura o suor Pura, significa ottenere grazie potenti, perché lei ha ottemperato alla volontà divina di seguire la strada che era stata segnata per lei. Come accade alle persone tramite del Bene, il Male la attanagliava e la minacciava: le diceva che l’avrebbe fatta impazzire, oppure andavano da lei persone alle quali era stata praticata qualche forma di maledizione. E suor Pura consigliava di pregare e pregava per loro, oppure metteva in guardia contro certi tipi. Poteva accadere che alcune persone, cercando di raggiungerla per un colloquio, avessero incidenti o rotture all’automobile. Da posizioni di assoluta ragione finivano per passare dalla parte del torto, insomma, una serie di situazioni negative e spiacevoli si abbattevano su di loro. Alla fine tutto si risolveva in modo semplice e misterioso allo stesso tempo, come se ci fosse stato un intervento divino, chiesto dalla buona suora. Accadevano pertanto anche episodi reali di problemi anche seri, che venivano risolti dalla fede e dall’intervento divino. Come il giorno in cui la stanza della suora era avvolta nel fumo, un mobile era mezzo bruciato, ma la statua della Madonna che vi era appoggiata sopra era rimasta intatta. Il demonio l’aveva più volte minacciata di bruciarle l’immagine sacra, ma suor Pura non gli aveva creduto, non si era impaurita. Infatti, non l’ebbe vinta e ancora una volta la fede nel Bene trionfò. Che aggiungere? Le testimonianze raccolte dalle persone sulla vita di suor Pura, le sue parole, la sua testimonianza terrena, non narrano nulla di straordinario. Raccontano di una semplice donna dall’immensa fede. Certo, avere il quadro di padre Pio che si muove, ospitare la Sacra Famiglia in camera, essere esaudita ad ogni preghiera non sono certo fatti ricorrenti nella vita delle persone, anche se suore. Ma il punto fondante della storia di questa religiosa che è destinata a diventare beata, è proprio nella quotidianità che l’avvicina al Maestro al quale ha dedicato l’esistenza terrena. Ogni suo gesto era animato da fede profonda, non importa se si trattava di comprendere i problemi di qualcuno osservandolo in fotografia portatale dai fedeli, oppure raccogliere i soldi per le mamme che non potevano pagare la retta scolastica per i figli, oppure vivere con il sorriso sempre sul viso. L’importanza data ai singoli giorni e al senso che ciascuno di noi deve dare ad ognuno di essi è l’esempio più grande. I cristiani si riconoscono proprio da questo operare in silenzio, ma assiduamente per le cose più alte, senza creare clamori, ma infondendo pace, amore, consolazione, certezza nel prossimo. Essere punti di riferimento certi, senza tentennamenti e senza cedimenti. Quando la situazione diventa difficile, deve diventare più sicura la preghiera e la richiesta di aiuto. Non dobbiamo, infatti, sentirci così importanti oppure così soli da non essere in grado di chiedere di essere aiutati. E l’incontro con suor Pura, anche attraverso uno scritto, rassicura proprio che lei c’è. C’è sempre. Per sempre. Per tutti.
Alessia Biasiolo