Vederci: un dono da utilizzare bene

Sembra un titolo scontato, ma non vuole essere un monito moralista, soltanto una considerazione. Conosco Bruno da tanti, tantissimi anni e, anche in questo caso, non mi lascio distrarre dall’amicizia quando devo recensire un libro. Di certo la prima nota da scrivere su di lui è che è cieco, e così l’ho sempre definito se serviva, non amo definire le persone, tanto meno gli amici. Bruno è cieco, parola correttamente italiana per dire che non vede. Eppure ho passato ore al telefono a sentirgli raccontare e, soprattutto, descrivere la vita intorno a lui, tra il serio e il faceto, qualche volta l’arrabbiato. Ad esempio quando gli chiedono di leggere il codice di qualcosa, magari proprio gli organi preposti ad aiutare chi non vede. Tornando ai racconti di Bruno, non soltanto sono accurati, ma divertiti e divertenti. E a me piacciono un sacco, perché non sono mai superficiali, mai scontati, mai ovvi. Viaggiare… Avere paura di perdersi, di non trovare le coincidenze degli aerei, delle strade, i taxi che ti accompagnano all’albergo (sbagliandolo poi), i bagagli che non arrivano, i musei da visitare, le conferenze da tenere in Sud America o il corso di arabo negli Emirati. Negli anni della nostra amicizia, Bruno ha riempito la mia mente di colori, di risate, di appunti precisi che sono in grado di disamine che talvolta nemmeno gli esperti d’area sanno fare. Eppure Bruno non ci vede, o almeno non ci vede con gli occhi. Che dire allora del suo libro? Ne abbiamo parlato tanto, per tanti motivi, e alla fine ecco raccolti alcuni capitoli della sua vita e dei suoi viaggi scritti, e descritti, così, com’è lui, senza mettere righe in mezzo alla vita e senza la paura di non saper preparare una valigia e poi un’altra ancora, per capire cosa ci sta attorno, in quel buio della mente che è molto ma molto peggiore del non vederci affatto. Qui si sprecano le belle parole, anche dei poeti che amo, e le considerazioni che ho avuto modo di fare frequentando gruppi di non vedenti o ipovedenti, oppure visitando (io che ci vedo) il bellissimo Museo Omero di Ancona. Cos’è la vita per chi non può goderne appieno, come si suol dire? E cosa vuol dire viaggiare? Prima di tutto in se stessi, nella propria mente, nella capacità di farsi carico del sé e condurlo per mano senza paura di dover cercare qualcun altro disposto a farlo. Imparare a capirsi e accettarsi e poi, appunto, accompagnarsi per le strade della vita a conoscerla per imparare un po’ più di se stessi e di quel tesoro che i saggi, e i grandi scrittori, hanno identificato come sepolto nel giardino di casa. Proprio quella “geografia della mente” che ha portato Bruno a studiare musica, a scrivere, ad imparare e ad insegnare e non già adesso, che se vedi una persona cieca camminare con il bastone bianco o il cane guida non ci fai neanche caso, ma da anni, quando (e lo ricordo io personalmente, quante volte l’ho sentito con le mie orecchie) si sentiva dire: “Ma perché non è stato/a a casa?”, oppure “Perché ha portato fuori di casa un ragazzino Down che non capisce niente? Perché non se lo tengono a casa?”, e cose così. Passiamo dalla persona che ha indicato a Bruno la strada con il numero preciso di passi da percorrere prima di girare a destra e a sinistra, al tassista che non si è accorto che lui non è arabo, tanto l’aveva imparato bene in un mese di studio. E gli aneddoti sono tanti. Li leggiamo in “Allora ci vedo” che comincia a raccontare il viaggio in Egitto del 1980 per finire con quello in Madagascar nel 2014. Non sono tutti e nemmeno gli ultimi, ma abbastanza perché questo scrittore si faccia conoscere e permetta a chi ne dovesse avere bisogno, di imparare a fidarsi di sé e degli altri, della vita e delle abilità che si possono sviluppare ed allenare semplicemente senza porsi il limite da soli.

Dati i tempi tristi che stiamo vivendo, mi soffermo sul capitolo dedicato al viaggio in Giordania e in Israele, effettuato da Bruno nel 1985. “È impressionante, ad esempio, la strettissima sorveglianza degli israeliani sul confine ed in tutti i punti sensibili del territorio. A tal proposito, non posso fare a meno di raccontare un aneddoto simpatico. Come detto in precedenza, le frontiere sono sorvegliate e ci era stato severamente proibito fare delle fotografie in questi punti sensibili. Sono allora andato in fondo al pullman e ho detto ad alta voce: “Ferma ferma! Voglio fare una foto”. Ricordo molto bene come la guida si sia precipitata in fondo per cercarmi e dicendomi affannosamente: “No! Per favore!”. Mi ha poi trovato accucciato dietro ad un sedile, ma naturalmente senza la macchina fotografica ed a quel punto c’è stata una ilarità generale.

Uno scherzo davvero ben riuscito dove si sono divertiti un po’ tutti, meno il nostro accompagnatore.

Eravamo nel 1985, quando esistevano seri problemi tra lo Stato di Israele e gli stati confinanti. Tutti sono stati perquisiti all’entrata del cosiddetto Muro del Pianto, ciò che resta del Tempio di Salomone.

Abbiamo dovuto lasciare fuori le borse e le macchine fotografiche, ma a me è stato consentito di entrare con il borsello senza subire alcun controllo perché, dopo avermi osservato attentamente, i soldati di guardia hanno “chiuso un occhio”.

Durante quella visita ho provato moltissime emozioni: ho potuto ascoltare i Rabbini in preghiera mentre recitavano i Salmi e, nel contempo, osservare i soldati armati che controllavano il flusso dei turisti, cosa assolutamente normale da queste parti.

Ho avuto inoltre l’opportunità di conoscere alcuni archeologi francescani. In particolare, ho avuto l’onore di conoscere Padre Michele Piccirillo, il predecessore di Padre Pizzaballa Custode di Terra Santa, archeologo che ha portato avanti degli scavi importantissimi. Mentre giravamo per Gerusalemme, siamo andati a visitare quello che un tempo era stato il Cenacolo, oggi trasformato in una scuola ebraica. Siamo poi passati per l’Orto degli Ulivi, dove Gesù iniziò il cammino denominato “La Passione”, momento fondamentale nella nascita del Cristianesimo. Mentre camminavo in compagnia di una signora, due ragazzini ci hanno distratto e mi hanno rubato quei pochi soldi che avevo. Una delle persone del gruppo, allora, mi ha regalato un piccolo pezzetto di legno che ho conservato per molti anni, in cui aveva scritto: “Remember di uno scippo al Getsemani”. Devo comunque precisare che, dopo alcune verifiche, l’agenzia mi ha restituito la somma che mi era stata rubata ed in questo modo ho potuto proseguire il mio viaggio tranquillamente”.

Passando al Venezuela, stralciamo: “A Caracas ho conosciuto una coppia simpaticissima, lui giornalista e lei studentessa, con cui sono stato in diversi locali di Caracas ed ho potuto imparare molte cose sulla “Repubblica Bolivariana”, così chiamata perché liberata dal “libertador” Simon Bolivar.

In questo mio viaggio non poteva ovviamente mancare un aneddoto in albergo. Le pulizie in camera mia venivano fatta da una signora molto cortese, la quale aveva la premura di non spostare mai gli oggetti (cosa fondamentale per un cieco). Dopo un po’ di giorni eravamo entrati in confidenza e le avevo chiesto dove fosse possibile trovare le tipiche banane piccoline di quelle zone. Gentilissima, ci pensò lei stessa a portarmele il giorno dopo ed erano talmente buone che la sera, non avendo particolarmente voglia di uscire, ne mangiai ben otto”.

E leggiamo anche qualche aneddoto sugli Emirati Arabi: “Per concludere il mio primo viaggio negli Emirati, ovviamente non poteva mancare una piccola disavventura: ho raggiunto l’aeroporto con un taxi mandato dall’agenzia viaggi ma, una volta lì, il conducente è subito ripartito, senza accompagnarmi all’interno. Non mi sono comunque fatto prendere dal panico: mi sono avvicinato all’ingresso principale e, parlando in arabo, ho spiegato la situazione ad un poliziotto che controllava l’entrata, il quale, molto gentilmente, dopo aver controllato il mio passaporto ed il mio biglietto aereo, mi ha accompagnato sotto braccio al banco del check-in. Quella terra caratterizzata dall’incontro di mare e deserto mi aveva molto affascinato e, nel 2011, decisi di tornarci. In quella occasione ho chiesto aiuto a mio cugino che abitava lì, il quale mi ha consigliato sia una scuola di arabo ed inglese, sia un buon hotel (avevo intenzione di fermarmi per una lunga permanenza). Al mio arrivo, ho trovato una città completamente modernizzata. Appena sbarchi dall’aereo ti viene scattata una foto ed opplà! Si è immediatamente rintracciabili, qualora ci si trovasse coinvolti in qualcosa di illegale o comunque vietato.

Mi avevano detto che avrei potuto girare senza problemi ed infatti così è stato: effettivamente, se si conosce un po’ l’inglese è possibile cavarsela ovunque. Per un disguido con la mia banca, non avevo aumentato il plafond della mia carta di credito e, al mio arrivo in albergo, mi viene fatto notare che la somma a disposizione non è sufficiente a coprire tutto il periodo di permanenza. Fortunatamente mio cugino ha potuto fare da garante. Nell’hotel in cui sono stato era la prima volta che ospitavano un non vedente, perciò alcune volte è accaduto che il mio accompagnatore non sapesse come comportarsi. In uno dei primi giorni, infatti, una manager, volendomi aiutare, mi ha preso per la spalla; al che, per sdrammatizzare, le ho detto: “Guarda che non sono il cane!”. Abbiamo così rotto il ghiaccio con una bella risata e da lì in poi la permanenza è stata ottima.

I primi giorni in albergo sono di solito i più difficili, ma piano piano si conoscono un po’ tutti e, con alcune persone, si può instaurare una conoscenza più profonda. In questo viaggio, ad esempio, ho fatto amicizia con una donna proveniente dal Myanmar, che mi ha confidato il suo sogno di entrare in un monastero buddista. Era una donna semplice, ma molto risoluta: dopo dei piacevoli appuntamenti a cena, nel ristorante vietnamita, sono riuscito a convincerla a mettere via una somma di denaro da mandare alla sua famiglia, in quanto molto povera e bisognosa del suo aiuto. Questa donna mi ha molto colpito, anche perché non si incontrano facilmente delle persone così spirituali: non dimenticherò mai la sua bellezza interiore e la sua umanità”.

Ecco alcuni esempi di appunti di viaggio che hanno un sapore desueto, ma che credo dovrebbero tornare di moda, dato che i nostri milioni di messaggi si perdono nell’etere e, soprattutto, sono troppo immediati e ricchi di immagini. Il ricordo meditato e scritto, poi riletto, è invece costruzione del viaggiatore che impara e sa spiegare, tramutando il viaggio in quello che davvero dev’essere, non l’impressione spot da correre a postare senza avere le parole per descrivere le proprie emozioni. Lasciandosi condurre per mano da Bruno, penso che possiamo studiare delle prossime vacanze, ma anche lasciarsi trasportare nel viaggio del pensiero che, in fondo, è quello che ci riempie di più di magia.

Da leggere.

Bruno Bertucci: “Allora ci vedo”, scritto.io. Richiedibile all’Autore.

Alessia Biasiolo

Un protagonista dello spettacolo del Novecento. Renato Rascel

Un interessante libro da regalare e regalarsi per ogni occasione, ma senz’altro come dono per le imminenti festività di fine anno, questo scritto da Elisabetta Castiglioni con il taglio della ricerca universitaria, ma con la passione di chi ha davvero a cuore l’approfondimento di una figura del recente passato che ha creato la televisione italiana, formando menti, ipotesi, metodologie, donando sorrisi, risate e anche molto materiale di studio e lavoro. Tutto in un libro edito da Iacobelli Editore, corredato da fotografie, una ricca bibliografia su Rascel, con l’elenco dei suoi scritti, canzoni, spettacoli, partecipazioni radio e televisive, premi ricevuti, teatro e pubblicità che Renato Rascel ha realizzato in tanti anni di attività.

Molto interessante è lo studio che la Castiglioni ha condotto, anche con interviste a Giuditta Saltarini, sua moglie dal 1980 al 1991, anno in cui l’attore, nato a Torino il 27 aprile 1910, ha lasciato le scene della vita. Cosa ricordare di Renato Rascel, al secolo Renato Ranucci? I suoi personaggi? Un po’ macchietta, un po’ parodia della televisione e quindi della vita, un po’ colto modo di ricordare e trasmettere i grandi personaggi al pubblico, di Rascel si ricordano in modo particolare le pubblicità spassose ma assolutamente basate su studio, su quelle storielle che erano caratteristica delle pubblicità dell’inizio della televisione italiana. Così come degli sketch celeberrimi che portano a quei ritmi che, per chi ha avuto la fortuna di viverli, ha nelle corde della propria esistenza: “E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale…”, il bersagliere e il cantante di “Arrivederci Roma”, il suo essere ballerino e saper ridere di se stesso (e quindi di tutti noi, assieme a tutti noi) per le sue caratteristiche fisiche che lo rendevano grande e grandioso, malgrado la statura non deponesse per questo. E a ridosso della notte dei morti viventi, come non ricordare “Tempi duri per i vampiri” del 1959? E così anche tutti quei nomi che della televisione e/o del cinema italiano sono le fondamenta: Mike Bongiorno, Sylva Koscina, Gina Lollobrigida, Gianni Agus, Wanda Osiris, Totò, Silvana Pampanini, Primo Carnera, Alberto Lattuada, Lauretta Masiero per citarne solo alcuni, accanto a Marlene Dietrich o Kirk Douglas sulla scena internazionale. Un grande “piccoletto”, la cui grandezza andava proprio scritta e spiegata passo passo, come in questo lavoro tratto dalla tesi di dottorato “Renato Rascel. Il comico in trasformazione” discussa all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel 2000 da Elisabetta Castiglioni. È importante nella storia, piccola e quindi anche quella grande, lasciare parlare i protagonisti, senza aggiungere troppi punti di vista propri, per non discostarci troppo da quella verità che si andava costruendo giorno dopo giorno in un tempo fantastico in cui era facile e possibile costruire tutto, anche senza avere punti di riferimento se non la propria intelligenza e il proprio acume. Così “Padre Brown”, forse un progetto un po’ raffazzonato sulla carta, si tramuta in un successo clamoroso grazie alla capacità di recitare con il sé interiore che diventava apporto all’immaginazione comune e rendendo, pertanto, il personaggio di turno parte di ciascuno e impersonato da ciascuno nella semplicità di un attore come Rascel che era tanto semplice da diventare maestro. Insomma, un libro tutto da leggere e da studiare, riassaporando il piacere delle piccole cose, anche di “pessimo gusto” come diceva il poeta, ma proprie, che permettono di riflettere e di imparare ad essere maestri di se stessi e accompagnandosi per mano per le strade della vita un po’ tortuose, un po’ rettilinee, che la risata del Rascel della nostra Elisabetta sa ancora oggi costeggiare di fiori.

Da leggere.

Elisabetta Castiglioni: “Renato Rascel. Un protagonista dello spettacolo del Novecento”, Iacobelli Editore, Guidonia (Roma), 2022, pagg. 434, euro 19,80.

Alessia Biasiolo

Pupetta, Gremese Editore

Philippe Vilain, autore di bestseller e professore di letteratura francese a Napoli, dedica alla figura di Assunta Maresca, personaggio balzato alle cronache nazionali per una vicenda che è un perfetto mélange di amore, onore e vendetta passionale, un romanzo per Gremese Editore (pagg. 176, euro 16,00), nella collana “Narratori francesi contemporanei” di cui Vilain è direttore.

Pupetta Maresca cresce nella Napoli degli anni Cinquanta, in un quartiere dove la violenza era all’ordine del giorno: Materdei. Giovane, bella, ambiziosa e con il desiderio di diventare un’attrice, nel 1954 incontra Pasquale – “Pascalone ‘e Nola” per i colleghi camorristi – e se ne innamora convolando a nozze. Appena ottanta giorni dopo il matrimonio, Pasquale viene assassinato da un clan rivale e Pupetta, che nel frattempo ha saputo di essere incinta, rimane improvvisamente vedova prendendo però una drastica decisione: vendicare se stessa e il marito. Ha così inizio la carriera di “Madame Camorra” che, con lucidità e acume, Vilain indaga e descrive ricostruendone la natura e restituendone quella determinazione e sete di rivalsa che l’hanno resa celebre in tutti i rotocalchi, e che ha dato spunto anche alla realizzazione di film e serie tv.

Un connubio di noir, storia e sentimenti nei quali la scrittura scorrevole e analitica di Vilain riflette un contesto partenopeo e una psicologia dei ruoli sotto lo sguardo acuto di un francese innamorato di Napoli, delle sue storie e dei naturali romanzi esistenziali che scaturiscono dalle vicende di questa città dai mille colori.

Philippe Vilain è docente di letteratura francese all’Università Federico II di Napoli. La sua produzione letteraria è molto studiata in ambito universitario, come dimostra la monografia recentemente pubblicata da Francesco Paolo Alexandre Madonia Philippe Vilain, l’amour en ses discours (Mimesis). Vilain è autore di romanzi di grande successo, pubblicati in Francia da Gallimard, Grasset e ultimamente da Laffont. Tra questi, sono editi in Italia da Gremese: Falso padre (2009), Non il suo tipo (2012, adattato per il cinema da L. Belvaux e premio internazionale “Scrivere per Amore”), La moglie infedele (2013, in Francia premio Jean-Freustié), La ragazza dalla macchina rossa (2018), Un mattino d’inverno (2020) e Napoli mille colori (2021). Ha curato volumi collettivi (Bella Italia, 2022, ed Écrivains d’Italie, 2023) e scritto saggi come il Quadernetto sulla timidezza (2011, Gremese) e La Littérature sans idéal (2016, Grasset). 

E.C.

Etiopia. Conquista e conoscenza

Roberto Matarazzo nasce a Roma nel 1909 e nel 1929 viene arruolato come soldato di leva nel Primo Reggimento Radiotelegrafisti, grazie al diploma di perito radioelettrico conseguito presso il “Galileo Galilei” della capitale. Congedato l’anno seguente, verrà assunto dall’EIAR di Firenze. Appassionato di fotografia, acquisterà una Kodak a soffietto con la quale scatterà fotografie un po’ a tutti e a tutto. Nel 1935 viene richiamato nell’esercito per la Campagna di Etiopia; imbarcatosi a Napoli nel gennaio 1936, aggregato al Quarto Battaglione Radiotelegrafisti, Seconda Compagnia Telegrafisti del Quarto Corpo d’Armata, visiterà e soggiornerà a Massaua, Asmara, Adua, Macallè, Addis Abeba, tra gli altri luoghi di conquista. Scatterà molte fotografie anche laggiù, il suo miglior passatempo, fino al suo rientro in Italia nel 1937, dove ritroverà il suo lavoro alla EIAR. Sarà proprio grazie a quello che potrà essere dichiarato indisponibile per l’arruolamento durante la seconda guerra mondiale. Sposatosi con Livia, con la quale aveva costantemente intrattenuto rapporti epistolari anche durante la sua permanenza in Africa, nel 1942, si trasferirà a Roma, presso il centro trasmittente dell’EIAR. Nel dopoguerra mantenne il suo lavoro in quella che diverrà RAI, per la quale lavorò fino al 1974, morendo poi nel 1982. Il ricco archivio fotografico “Roberto Matarazzo” è stato digitalizzato dal Centro Documentazione Memorie Coloniali, che da anni si occupa di archivi privati del periodo coloniale italiano, su proposta dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico AAMOD. Il Centro Documentazione Memorie Coloniali (CDMC) viene sostenuto ed è stato istituito, dall’Associazione “Modena per gli altri”, che si occupa di cooperazione internazionale in Etiopia, e quindi si è trovata a confrontarsi con il passato coloniale del Paese. Ha promosso pertanto la raccolta di materiale coloniale, soprattutto iconografico, che ha dato origine a due mostre e a pubblicazioni, portate poi anche in Etiopia, fino alla digitalizzazione della notevole mole di fonti storiche, catalogate da un apposito comitato scientifico. Lo stesso è avvenuto per il fondo Matarazzo di cui ha organizzato non soltanto gli apporti fotografici, ma anche i dati appuntati dal radiotelegrafista e le lettere che inviava a casa. Il fotografo è stato testimone della battaglia dello Scirè dal 23 febbraio al 12 marzo 1936, ad esempio, che lo aveva profondamente colpito e di cui annota l’elenco delle tappe, dattiloscrivendo l’occupazione di Amba Alagi, le battaglie di Tembien e dello Scirè appunto. Matarazzo apparteneva al Genio e ai reparti speciali radiotelegrafisti, quindi non torna a casa come sperava dopo la presa di Addis Abeba. Intanto continua a fotografare con la sua Kodak, ma anche con altre macchine fotografiche; sviluppa i negativi sul posto e stampa le foto, probabilmente usando la luce del sole o lampade elettriche della stazione radiotelegrafica, che forse vendeva anche agli altri militari, spesso oggetto dei suoi ritratti fotografici. Anche Matarazzo, come altri soldati, aveva iniziato a scrivere un diario per fissare i ricordi di guerra, ma dedicava più volentieri il tempo alla memoria per fotografie, tanto che il diario smise di scriverlo e andò perduto. La curiosità per il continente africano era tanta, infatti, che era necessario fissare i dati per mantenerli nella memoria e riportarli a casa, dove di certo sarebbero stati raccontati. L’Africa misteriosa dei romanzi era finalmente lì, davanti agli occhi, e diventava impresa coloniale, parte dell’Italia, dove molti avrebbero voluto realizzare i propri sogni di terra, casa, futuro. Pertanto le fotografie ritraggono soldati sulla nave che li portava in terra di conquista, lungo il Canale di Suez, fino alle distese etiopiche dove si stagliavano le linee telegrafiche; varie le immagini di Matarazzo al radiotelegrafo da campo, o con bambini locali, o con le sue fotografie sparse sulla branda. Curioso l’orto militare, ci sono ritratti gli ascari o vengono immortalati oggetti ricordo in bella posa per la fotografia. Si vedono i soldati italiani, oppure gli ascari, mentre lavano i propri panni al fiume, o impegnati nella costruzione di un ponte in muratura al posto di quello di legno, o addetti ai lavori stradali, o ancora su una teleferica. Non mancano momenti di “caccia grossa”, con l’uccisione di un ippopotamo, di un coccodrillo, di un enorme serpente, di un avvoltoio testabianca, di un leopardo. Tra le panoramiche, quelle dei monti Semien, mentre sono molte le fotografie ritratto di ragazze, donne, bambini e uomini indigeni, sia in posa che nelle faccende quotidiane. Tra le foto dei centri urbani, Adua, Gondar con il castello del negus Fasilide, Axum con le steli (di cui una venne trasportata a Roma), per esempio. Grande attenzione da parte dei soldati italiani la ottenne la Festa del Maskal del settembre 1936 ad Adua, una delle più importanti feste della religione ortodossa etiope. Il mese del Maskaram è l’inizio dell’anno etiope e commemora il ritrovamento della Croce di Cristo. Durante le celebrazioni si accende un grande falò che produce molto fumo, ricordando il fumo che guidò Sant’Elena alla ricerca della Croce. La religione cristiana sostituì i riti tribali di cui rimane memoria nella celebrazione, che funge da divinazione per la fine della stagione delle piogge e di buon auspicio per buoni raccolti. Matarazzo documenta la festa, e poi anche la celebrazione del Natale italiano del 1936, con la Messa al campo, un ottimo pranzo comprendente anche il panettone Motta, il ricordo della preghiera. Un racconto per immagini racchiuso in un prezioso libro, dall’ottima veste grafica, che permette di avere tra le mani un pezzo di storia poco raccontata nel nostro Paese. Da leggere.

Letizia Cortini, Elisabetta Frascaroli, Anna Storchi (a cura di): “Etiopia. Conquista e conoscenza. Rappresentazioni per immagini di Roberto Matarazzo (1936-1937)”, AAMOD, Roma, 2022, pagg. 192, euro 20,00.

Alessia Biasiolo

Il diverso, tra passato e futuro. La giudeofobia nella nostra società

“I numeri della memoria”, Ivo Compagnoni. La poesia originale è di Renato Hagman

È uscita per i tipi Edizioni Nuova Cultura di Roma, scritta per l’Istituto del Nastro Azzurro e il CESVAM, una ricerca storica sul diverso, inteso espressamente come il popolo ebraico in Italia, nell’ambito dell’impegno storico dell’Istituto in occasione del triste anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia.

Oggetto del volume è quello di tracciare, nel modo più chiaro e lineare possibile, gli aspetti di intolleranza e chiusura verso il “diverso”, espressamente riferito al popolo ebraico. Attraverso uno studio storico che inizia dai primordi del Popolo eletto, si arriva fino a noi e si descrivono le vicissitudini di un popolo che ha sempre mantenuto le sue caratteristiche nell’ambito delle varie collettività che lo hanno ospitato dai tempi della Diaspora. Si è scelto, tra i tanti “diversi” possibili, appunto il popolo ebraico, il “diverso” per antonomasia nelle varie comunità e lungo i secoli, e attraverso lo studio delle sue vicissitudini, presentare in modo indiretto la giudeofobia nella nostra società, sia nel passato che nel presente. I limiti di tempo vanno da circa duemila anni prima di Cristo ad oggi, con particolare riguardo al Secolo definito breve. I limiti di spazio sono ampi: riguardano i luoghi sacri delle Tribù d’Israele e poi principalmente l’Italia, dove esistono da tempi remoti le Comunità ebraiche, tra le prime in Europa. Si analizzano dati spagnoli e portoghesi, francesi e balcanici, tracciando un percorso storico spesso, capace di dare al lettore più di uno spunto di riflessione che renda completo lo studio e la possibilità di approfondimento personale. L’accento cade poi soprattutto sul periodo razzista europeo, non tralasciando di prendere in esame anche casi che interessavano gli ebrei dell’Unione Sovietica.

Affrontare il tema della giudeofobia significa addentrarsi nel mondo millenario dei nostri Padri, scritto a partire dai testi sacri che costituiscono la storia dell’Umanità. Capire le nostre origini e approfondire argomenti troppo spesso sulle bocche di tutti soltanto per notizie di cronaca o per fatti riportati senza verifica e senza contraddittorio, magari a sostegno dell’ideologia del momento, è doveroso in una società che si vanta della propria evoluzione, ma che retrocede in tema di comprensione di testo e di cultura. Il vanto di non aver mai letto un libro da parte di molti, si scontra con la profonda cultura che ha da sempre caratterizzato il mondo ebraico, dal quale la cultura italiana ha tratto molti insegnamenti e più di una radice. Il piacere della cultura, di conoscerla e di tramandarla, così come di crearla innovando la società, è proprio delle anime elette di ogni tempo e luogo, e di certo è sempre stato proprio della cultura ebraica. Nel presente volume, l’accento è posto su questo particolare tratto ebraico, ma anche su tanti motivi o su tante scusanti per definire, considerare, vivere l’ebreo come diverso. I dati storici qui riportati sono una meditata sintesi che traccia un percorso puntuale, capace di dare una spiegazione dell’odio atavico verso gli ebrei, origine della giudeofobia.

Molte sono state le ragioni per detestare gli ebrei e molte le loro ragioni per nascondersi o non apparire per quello che erano: persone colte, istruite, desiderose di riuscire, spesso benestanti proprio grazie ai loro studi o in risposta ai limiti loro imposti. Spesso, invece di imparare i migliori aspetti della cultura ebraica, sono stati usati per giustificare ruberie, soprusi e violenze, teorie e leggi razziali, epurazioni ed eliminazioni sistematiche. È evidente che la società tutta non accetta la diversità nel suo interno, mentre è più semplice accettare le diversità di chi non mette in gioco il potere e il sapere della società stessa. Il denso excursus che ne risulta in questo lavoro, permette di avere un quadro chiaro di quanto siamo tutti chiamati a difendere lo studio e la conoscenza, per non cadere in errori che, come è chiaro in questo volume, si sono ripetuti nei secoli sempre presentandoli come le migliori novità.

Il motivo dell’opera lo leggiamo dalle righe del presidente nazionale dell’Istituto del Nastro Azzurro fra combattenti decorati al Valor Militare, generale Carlo Maria Magnani: “L’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare ha voluto ricordare l’80° anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia attraverso l’adozione, lo sviluppo e la realizzazione di un progetto appositamente dedicato alla vicenda. Sono già stati pubblicati nel 2018 e nel 2019 due volumi […]. Questo volume completa il trittico previsto e programmato nel progetto e ci offre un excursus della vicenda del diverso, in questo caso l’appartenente alla razza ebraica, nell’arco dell’era cristiana […]”.

Mentre il generale Massimo Coltrinari, Direttore del CESVAM, Centro Studi sul Valore Militare dell’Istituto del Nastro Azzurro, scrive: “Il volume si apre con la storia del popolo ebraico: una carrellata dall’antichità ad oggi con riferimento temporale alle organizzazioni statuali che si sono succedute nei secoli.

Ne emerge in questa stesura un quadro variegato del popolo ebraico che, pur mantenendo e coltivando rapporti cordiali nelle collettività che lo ospitano e collaborando con esse nel migliore dei modi, mantiene, appunto, le sue caratteristiche e le sue peculiarità, dando indirettamente forma al diverso, a colui che non è maggioranza per libera scelta e non si vuole integrare con la maggioranza stessa.

Si affronta poi il tema spinoso delle teorie razziali che si sono via via affermate dal Settecento in poi; che videro l’Ottocento il secolo proprio della nascita di idee e miti antisemiti che trovano la loro realizzazione nel Secolo breve. Un crescendo di concezioni contro il popolo ebraico fino a raggiungere la ignominia, per un pensiero civile ed evoluto quale voleva essere quello europeo di prima metà del Novecento, di dare credibilità scientifica oggettiva ad un falso documento costruito a tavolino da elementi di una polizia segreta screditata che è rimasto in auge, ed è citato perfino oggi, anche quando questo documento, “I Protocolli dei Savi di Sion”, fu palesemente dimostrato essere, appunto, un falso con prove inoppugnabili.

Indi si affronta il tema del rapporto tra gli ebrei e il nazismo che apre un quadro di come il popolo tedesco affronta questo tema complesso ogni oltre dire; un variegato quadro in cui c’è di tutto, persino l’ebreo nazista convertito; vi si sottolinea il dramma personale di molti tedeschi che si consideravano tedeschi autentici e null’altro che tedeschi, ancorché ebrei che pur di sopravvivere ruppero con il padre, la madre, le nonne, i nonni, le sorelle, i fratelli, i parenti e gli amici fino anche ad arrivare a rinnegare il loro nome, in un’abiura che ricorda il periodo medievale, quando per sopravvivere ci si doveva dichiarare Cristiano.

Il capitolo IV tratta del rapporto tra gli ebrei e il popolo italiano, un rapporto che si esaltò durante il Risorgimento nazionale e il processo unitario e si suggellò nel sangue e nei sacrifici della Prima Guerra Mondiale, per poi precipitare nella negazione del Ventennio. […] Infine, il volume propone una sintesi della situazione attuale in cui i germi della avversione al diverso sono sempre presenti. Un dato che permette di dire che in futuro avremo situazioni come quelle che abbiamo visto nel recente passato, se tali germi non vengono distrutti o contenuti.

Attraverso questo lavoro, l’Autrice ci offre un quadro ben documentato in cui dimostra che quando si rompono gli argini della tolleranza, della competenza e della accettazione del diverso si va incontro, come già accaduto, a grandi tragedie. Tragedie che non sono solo di un popolo, ma di tutta l’umanità.

Una lettura attenta di questo volume serve a tutti, compresi gli amici ebrei che non possono non riflettere su come anche il loro atteggiamento può contribuire a mantenere equilibri e tolleranze in un contesto sia nazionale che internazionale. […] L’educazione alla tolleranza e alla comprensione del diverso è il messaggio che proviene da questo volume, più volte sottolineato dall’Autrice.

Questa educazione è il baluardo per non avere in futuro, nelle nostre comunità, né le une, le vittime, né gli altri, i carnefici, ma solamente il rispetto dell’uomo inteso come tale”.

Il volume ha un denso apparato fotografico specifico, ma una menzione particolare va alle opere espressamente prodotte dall’artista Ivo Compagnoni. l’Artista è riuscito a condensare le pagine in quadri dal forte impatto emotivo, particolarmente significativi per riassumere la sofferenza, ma anche la forza, di un popolo e di tutto ciò che ha rappresentato nei secoli.

Ci stiamo avvicinando al Giorno della Memoria, doveroso atto di ricordo nazionale, eppure questi argomenti non si devono esaurire soltanto nell’arco di una giornata: questa deve essere un punto di arrivo e di ripartenza, per non dimenticare davvero che la società civile deve essere tale, sempre, in tutte le sfumature della sua esistenza.

Alessia Biasiolo: “Il diverso, tra passato e futuro. La giudeofobia nella nostra società”, I Libri del Nastro Azzurro, Editrice Nuova Cultura, Roma, 2020, euro 30,00, ISBN 9788833653259

Alessia Biasiolo

Madri per sempre

Il nuovo libro di Federica Storace, scrittrice che vive e lavora a Genova, denota uno spessore linguistico e di contenuti alla quale l’Autrice è arrivata in questi anni, dopo i suoi “La famiglia non è una malattia grave”, “Banchi di squola” e “Impossibili ma non troppo”. In questo nuovo lavoro si nota una capacità narrativa densa, con uno stile fresco, ma con una padronanza dell’estro davvero matura. L’argomento è attuale e originale, malgrado tratti ciò di cui si parla e discute da sempre: la maternità. Infatti, Federica propone differenti modi di vivere la maternità a partire dalla dicotomia donne/madri che è insita nel femminile, causa di riflessioni personali anche profonde, conflitti tra sé e con la figura di riferimento materna, conflitti sociali e antropologici. Storace analizza Antigone, cita la silente donna che compare nel Vangelo di Luca quando Gesù partecipa ad un banchetto; troviamo Rosa Parks e Rosanna Benzi; le Madri di Plaza de Mayo e Rachele; Anna, Rut, Elisabetta, Santa Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Edith Stein, Iacopa dei Settesoli. Donne che hanno a che fare con la maternità e si interrogano su essa, mentre Federica si chiede che cosa provassero, che cosa pensassero. La gestazione è lunga, per qualsiasi cosa, dalle più piccole alla più grande, la vita. E anche un libro è un figlio, si diventa madri quando lo si scrive, con una lunga gestazione e un parto finale. Dunque la maternità si circoscrive all’avere figli, oppure è qualcosa di diverso, di più alto, che da sempre è stato reso soltanto una faccenda anatomica e di progressione della specie umana? Federica Storace affronta la maternità con una profonda autoanalisi rispetto alla sua amicizia con Anna Maria Frison, superiora di una comunità e malata di Parkinson con cui ha condiviso parte della propria vita, la stesura di un libro, una crescita personale che costituisce un punto di non ritorno nella vita personale e professionale della nostra.

Il confronto tra chi non ha generato una vita ma ne ha create tante, con la necessità di stendere un bilancio delle proprie motivazioni e con la malattia che interroga sul senso del vivere e su cosa si è dato, costruito, realizzato, e la nostra Autrice, ha portato a un percorso intimo con se stesse tale da dare al senso materno, della maternità e della madre, che sono concetti differenti e non per forza derivati, un significato proprio ma anche universale. Dall’esperienza del Sé si arriva, quindi, ad una riflessione che travalica le pagine e le singole identità, per farsi costruzione di un significato nuovo e diverso, sempre nuovo e sempre diverso, di quell’essere madri che è sempre stato iscritto alla donna come un dovere, una necessità intrinseca, biologica; un orologio dal quale non prescindere; una sorta di nevrosi imposta che diventava un’isteria davvero e che, in quanto tale, in quanto uterina, è da donna per forza. Una situazione sulla quale le donne non si sono mai interrogate abbastanza, in un mondo al maschile, e che diventava una pecca. Perché interrogarsi sull’essere madri, se madri lo si era dalla nascita per una questione anatomica, diventava il simbolo del peccato, un abominio personale ingiustificato e, soprattutto, ingiustificabile. Imperdonabile. Per la società, per la Chiesa, per la donna. Se la donna non diventava madre, doveva per forza farsi suora. Allora ecco che Storace racconta anche di donne attuali che hanno dedicato la vita ad una maternità differente e “per sempre”, eterna, atto d’amore. Sono suor Alessandra Smerilli, madre Maria Emmanuel Corradini, suor Gabriella Bottani, suor Caterina Cangià che Federica intervista e delle quali racconta la vita. Interessante questa scelta, non tanto per l’intervista in sé, quanto per avere dato voce ad una maternità che non si vede e la società non vive come tale. Certo, oggigiorno si accettano donne non sposate, donne con relazioni omosessuali che non possono intrinsecamente diventare madri (non affrontiamo altre considerazioni in questa sede), donne che vivono da sole, anche donne sposate che non vogliono figli. Ma di esse la maternità non si considera. Sono madri? Possono essere madri comunque? Una suora, allora, è madre? Può essere madre in modo differente dall’appellativo “madre” che le viene conferito dall’ordine di appartenenza? L’interrogativo viene posto intrinsecamente e suggerisco a ciascun lettore di trovare una risposta, se lo ritiene necessario, ma nell’ottica di chiedersi cosa sia la maternità e soprattutto che ruolo abbia nella società d’oggi.

Ho trovato il libro molto buono, scritto molto bene, facilmente leggibile e denso di spunti di pensiero. Oggi la società è scarsa di maternità. Sembra che a pochi interessi l’essere “madri” della realtà, della società, della propria vita, del prossimo. Si è abdicato al ruolo materno al di là del dover generare, non ci si prende cura degli altri se non per dovere e, talvolta, per sbandierata appartenenza al volontariato. Certo, quest’ultimo è carico di motivazioni e per la maggioranza di persone che davvero si prodigano, non è ciò che intendo, ma che manca in generale il senso di creazione, di generazione di ciò che scaturisce da noi e diventa altro, da parte di uomini e donne, al di là che si tratti di un figlio o di altra creatura. Dare voce alle suore è molto importante, non soltanto un gesto editoriale utile. È dare voce a chi scompare dietro alla propria scelta, questo è basilare tenerlo presente. Tuttavia dà voce a quell’essere donna ed essere donna-madre importantissima per plasmare una società carica di significati che sta perdendo.

Assolutamente da leggere.

Federica Storace: “Madri per sempre. Donne raccontano maternità possibili”, Erga edizioni, Genova, 2020

Alessia Biasiolo

Voci capitoline di Sabrina Sciabica

Le voci della capitale, Roma, sono distinte. Si comprendono bene, anche se rimangono schiacciate tra le chiusure delle porte di una metropolitana, il Tubo, spesso troppo affollata. Non è possibile immaginare Roma deserta, quindi ci immergiamo, in questi giorni deserti, nelle pagine di Sabrina Sciabica e conosciamo meglio quel mondo che appare come un organismo grande e indistinto se visto tutto insieme. Poi ci si avvicina, tipo l’immagine di Sherlock con la lente d’ingrandimento, e si capisce sempre più, e quindi niente, cosa vuol dire attendere un autobus che non arriva; cosa significa il 60; cos’è una gattara senza gatti; perché non è tutto dritto come la Nomentana e come ci si può sentire quando il ritardo del 90 fa affogare nel proprio dolore.

“Nella città eterna i tramonti sono meravigliosi”, leggiamo. Ed è proprio così, se si ha il tempo di soffermarsi un attimo su quella culla di storia e cultura che, forse, non è tenuta in palmo di mano come meriterebbe. Roma cambia colore a seconda del momento della giornata e della stagione, ma anche a seconda dell’umore della gente che se ne appropria, assoggettandola e venendone assoggettata senza requie. Tutti corrono tranne i turisti, che si mettono di mezzo alla vita frenetica di tutti i giorni. I turisti si prendono il tempo per Roma, quello che noi italiani, e anche i romani, pensano dato come patrimonio nazionale. Alcuni vengono folgorati dalla bellezza stanca e triste, superba e altera, immaginifica e stupefacente e la bevono venendone per forza contagiati.

In questi giorni non si può parlare di contagio nemmeno come metafora, ma di fatto bisogna lasciarsi contagiare dalla nostra patria della quale ci ricordiamo nei momenti del bisogno. Proprio come si fa con la madre, proprio come si fa con Roma, città materna, accogliente, casa di tutti, italiani e no. Allora ecco venuto il momento di leggere il libro profondo e leggiadro di Sabrina Sciabica e di girovagare per Roma in modalità virtuale, per assaporarla quietamente, come merita. Come un sonnacchioso gatto del Colosseo, come una statua imperitura, come uno scherzo del destino che fa essere alle stelle e all’inferno nello stesso stralcio di vita. Seguire il percorso dell’autrice grazie alla tecnologia può essere un’interessante scoperta per tutti. Roma c’è e resta. Ed è di buon auspicio.

Da leggere.

 

Sabrina Sciabica: “Voci capitoline”, L’Erudita, Roma, 2019, pagg. 186

 

Alessia Biasiolo

 

 

Un tempo per ogni cosa

È vero che c’è un tempo per ogni cosa? Oppure dobbiamo trovarcelo, quel tempo per noi e per le nostre riflessioni? Le parole che non troviamo per i nostri pensieri sono scritte in questo prezioso manuale scritto da Magliano che, a partire da frasi celebri, riflette sul presente, sull’uomo e sul suo significato nella storia universale. Al 26 ottobre troviamo: “I libri servono a capire e a capirsi, e a creare un universo comune anche in persone lontanissime”, come scrisse Susanna Tamaro, e Magliano ne approfitta per ricordare anche Francesco Petrarca, per il quale i libri cantavano e parlavano. Pochi giorni dopo, gli fa eco Pablo Neruda con “Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità”, mentre l’argomento ecologico che sembra così solo attuale, viene ricordato da Willa Silbert Cather che afferma di amare gli alberi perché sembrano più rassegnati di ogni altro essere o cosa al mondo al posto e al modo in cui devono vivere. E se questo può sembrare “un senso generale di perdita”, secondo Linus Mundy, con Erry Hillesum è facile affermare: “Mai rassegnarsi, mai scappare. meglio affrontare tutto, e soffrire”, al 3 novembre. Ogni giorno si possono leggere massime come quelle citate, sulle quali trovarsi e riflettere, pensare che anche ad altri sono venuti in mente gli stessi ricordi, ma anche le stesse immagini, con la possibilità di sperare e di rigenerarsi anche quando ci si sente più una pianta decidua in autunno che un virgulto primaverile di maggio. Soffrire è anche lo stare fermi a leggere qualcosa di più spesso che un messaggio di saluti sui moderni mezzi di comunicazione, per dare maggiore spessore alla nostra anima, dare alimento al pensiero che sempre più si vuole assottigliare per strumentalizzarlo più facilmente. Le letture sono brevi e giorno per giorno ci possono dare elementi per conoscerci meglio, capire che possiamo pensare e avere un parere, oltre che sapere leggere, dato che risultiamo sempre più in fondo alle classifiche culturali anche di base.

E spesso si tramutano i dati generali in sfide e gare alle quali le persone si dicono disinteressate, perché non serve gareggiare in comprensione di testo con inglesi o tedeschi. In realtà la fotografia dei dati è la nostra e non ci rendiamo conto che non siamo quelle bellissime persone migliorate con tecniche digital, ma siamo appassite bucce vuote sempre con più emergenza da riempire, prima che siano avvizzite inutilmente.

Un libro da avere tra le mani o sul comodino sempre, per riempirsi di amore, ricordi, pensieri.

 

Biancarosa Magliano: “C’è un tempo per ogni cosa”, Paoline, Milano, 2018; pagg. 416; euro 15,00

 

Alessia Biasiolo

 

 

Sciallare e splendere nel 2019

La capacità di Federica Storace è quella di scrivere di ragazzi, imprimendoli sulla carta e facendoli uscire edulcorati al punto da poterli moltiplicare con le facce di tutti quei giovani e giovanissimi che ci troviamo attorno. Allo stesso tempo, sono i ragazzi a potersi identificare nelle storie di cui sono protagonisti personaggi/studenti che Storace vede o immagina con le caratteristiche degli studenti che conosce. In un caso o nell’altro, interessante avere tra le mani un libro adatto alla lettura scolastica, didattica, di gruppo classe; avere un libro da regalare a Natale, da proporre ai genitori perché sappiano “leggere” i propri figli e capire che i figli sono reali, veri, qualcosa di cui occuparsi. Davvero. Riconoscendo in loro un’identità e non soltanto alcuni tratti genetici parentali. La tecnica è la solita: proporre argomenti attraverso il storytelling, per suscitare riflessioni e dibattiti. Soprattutto nel nuovo libro della nostra, “Scialla e poi splendi”, la positività è padrona e sottolinea come dai problemi si può uscire, con un’iniezione di ottimismo non inutile nella società di oggi. Ai nostri ragazzi manca sempre più una proposta alternativa all’offerta superficiale tipica del presente. Lo stesso strumento “libro” è pedagogicamente innovativo, perché pensare di risolvere tutto con l’appiattimento dello schermo e del video, con i selfie e la mancanza tridimensionale della quale abbiamo tutti bisogno quotidiano, non è una risposta.

I bisogni non si semplificano con l’economia del loro costo, così come i sogni sono ben altro di quello che si può trovare spiegato in qualsiasi buon dizionario della Lingua Italiana. Interpretare i ragazzi e comprenderli necessita di un osservatorio privilegiato, come quello della scuola, in cui approdano disperanti bisogni di affetto, di attenzione, di considerazione che, in effetti, è difficile sintetizzare o anche solo riassumere in un volumetto di poco più di cento pagine. Federica offre sempre un trampolino, in cui trovare uno spazietto di protagonismo da utilizzare per crescere e cercare, così, di capire quel panorama infinito di giovani che, anche se “razza in via di estinzione”, date le basse natalità, sono lo spavento del tempo, l’innovazione incomprensibile perché non si capisce nemmeno lei stessa, l’incognita della nascita di ciò che è nuovo e per questo tenuto alla lontana, come il salto nel vuoto che affascina e terrorizza. Ancora una volta i giovani, i ragazzini soprattutto, fanno paura ma solo perché rappresentano la società contemporanea che ha abdicato alla sua funzione, che non riesce più a programmarsi e a lasciare qualcosa di diverso dall’essere immediato, tipo il messaggio sgrammaticato senza filtri che tutti ormai scrivono. A forza di demonizzare il primo della classe, scialliamo tutti, ma speriamo anche di splendere. Almeno leggendo il bel libro di Storace.

Federica Storace: “Scialla e poi splendi”, Pedrazzi Editore, 2019

 

Alessia Biasiolo

 

Leggere Paul Claudel

La vita di Paul Claudel è un esempio per tutti. All’inizio del nuovo anno scolastico, la storia di una conversione, nella laicissima Francia, segna la via per un itinerario che ci ponga delle domande, molte più e molto più approfondite rispetto a quelle che possono venirci, edulcorate, dal presente.

Domande sul noi e l’io, sull’esistenza, sul percorso di vita al quale dobbiamo dare interezza, completezza, orizzonti ampi e proiettati al futuro, senza fermarci alla notizia flash di cronaca, che ci fa effetto per un istante, e senza crogiolarci solo sull’oggi.

La storia del diplomatico Claudel, drammaturgo, è costellata da nomi altisonanti, come quello della sorella Camille, una delle scultrici più importanti del Novecento, e del suo amato Rodin. La lettura spazia tra Paesi e continenti, tra fatti di storia dalla caduta della monarchia francese alle guerre mondiali. E in mezzo c’è Dio che Paul trova inaspettatamente. Spesso il nostro cammino si fa arduo o semplice, o cambia improvvisamente direzione, per un istante. Eppure questo libro, scritto da Flaminia Morandi, ci conduce per strade diventate un romanzo e lascia la netta sensazione della comprensione profonda. Il cambiamento e il potenziamento delle proprie doti, è un processo nel quale le porte devono essere aperte. Claudel lasciava non solo la porta aperta, ma anche le valigie pronte, per andare nei consolati e nelle ambasciate dove veniva incaricato, interrogandosi sempre e, soprattutto, confrontandosi. Aveva seri padri spirituali, termine inusuale oggi, eppure avere delle guide, e saperle cercare e scegliere, è fondamentale. Possono essere insegnanti o amici, sacerdoti o autori letterari che si leggono costantemente, ma senza curiosità e domande, la vita acquista quella piattezza che genera il senso di confusione attualmente imperante. Guide scelte non perché creano una nuova moda del momento o perché da qualche parte, in TV o sui social, tutti dicono che “spaccano”, ma guide vere, profonde, in cammino.

Camille, sorella adorata, soffre e crea capolavori; finirà purtroppo in una clinica psichiatrica. Paul mette nei suoi scritti i suo tormenti e le sue, di domande, che divengono opere geniali, ancora oggi rappresentate con successo in teatro. Imperante il desiderio di sentirsi vivo, anche gioendo dei ventuno nipoti e dell’esegesi biblica che lo impegnava negli ultimi anni. Ecco: l’impegno. Ciò che contraddistingue l’essere umano e ciò che viene chiesto a tutto tondo sempre più, perché sembra spesso di vivere a sole due dimensioni.

Da leggere.

Flaminia Morandi: “Paul Claudel. Un amore folle per Dio”, Paoline, Milano, 2018; pagg. 288, euro 18,00

 

Alessia Biasiolo