A Lecce una nuova sede per artisti voluta dalla gallerista Lucia Pezzulla

Lucia Pezzulla

Nasce nel cuore di Lecce, in via Bonaventura Mazzarella 18, la nuova sede espositiva e operativa della Red Lab Gallery, un percorso che parte da Milano nel 2018 e che oggi approda nella città salentina, luogo d’origine della gallerista Lucia Pezzulla. Le due città, agli antipodi della Penisola, dialogano così rivolgendosi al pubblico di entrambe le latitudini, e il linguaggio utilizzato per farlo è quello artistico, il più universale. Da sempre convinta che l’arte, per sua stessa funzione civile, debba essere ovunque, Lucia Pezzulla si è impegnata nel cercare di collocarla fuori dai contesti dove normalmente la si trova: “Credo che in questo momento storico, dove le restrizioni imposte per contenere la diffusione del Covid-19 hanno impedito l’accesso a luoghi tradizionali pensati per l’arte e la cultura, sia necessario cambiare nuovamente le regole del gioco, sparigliare idee e convenzioni e proporre format espositivi innovativi, in grado di arrivare e sensibilizzare un pubblico sempre più vasto”. Da qui l’idea di implementare la sede espositiva milanese chiamando Lecce a supportarla con uno spazio-laboratorio in cui, di volta in volta, autori differenti trascorreranno un periodo di residenza al termine del quale restituiranno un progetto che sarà presentato come risultato del lavoro svolto sul territorio.

Un interno della Galleria di Lecce

La prima residenza, affidata al fotografo leccese classe 1975 Ulderico Tramacere sotto la curatela artistica di Giovanna Gammarota, avrà luogo nel periodo febbraio/giugno 2021, e la presentazione del lavoro che ne sortirà avverrà a inizio estate. Ulderico Tramacere, che per sua stessa ammissione impiega nella fotografia la stessa dedizione che avrebbe avuto nel fare il pilota, il pompiere, il palombaro, l’inventore, il poeta o il pittore, precisa: “Faccio fotografie e non voglio informare. Mi piace invece pensare che le mie immagini creino, stimolando il desiderio dell’informazione”. L’artista – dopo aver esposto a Milano la sua coinvolgente mostra Nylon (Premio MIA Photo Fair / RAM Sarteano) prima alla Red Lab Gallery (2019) e successivamente negli spazi dedicati alla fotografia d’arte dell’Università Bocconi (2020) – nell’ambito della residenza intende porsi all’ascolto della terra che lo circonda ritrovando le inquietudini e i nessi che legano indissolubilmente territori e individui, i quali si amalgamano in un coagulo di umori e respiri troppo spesso rassegnati dinanzi al destino. “La pietas che Tramacere prova” afferma la curatrice Giovanna Gammarota “per il proprio territorio flagellato, come un novello Cristo, e i corpi di coloro che si addensano lungo i confini di un’Europa sempre meno propensa ad accoglierli, è la base dalla quale egli parte per creare un corale di immagini cantato da più voci che solo apparentemente sembrano contrastare tra loro ma che, invece, si completano”. Il cellophan, il nylon o il pluriball, materiali sui quali Tramacere lavora da tempo, proprio attraverso la nuova residenza creata da Red Lab Gallery, troveranno la loro piena realizzazione divenendo, come sottolinea lo stesso artista “drammatici Sudari che avvolgono la storia di un intero Paese […] sipari interposti tra lo sguardo e il mondo […] paesaggi surreali irrimediabilmente mutati”, per dare infine vita a quelle immagini che “stimolano il desiderio di informazione”.

Red Lab Gallery: Via Solari 46, Milano / Via Bonaventura Mazzarella 18, Lecce

De Angelis (anche per le fotografie)

Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito

IV DOMENICA DI QUARESIMA – LAETARE – ANNO B – GIOVANNI 3,14-21

14. In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, La quarta Domenica di Quaresima è chiamata Domenica in Laetare perché la liturgia ci invita alla gioia di saperci amati da Dio Padre. Egli ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio per salvare gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi e ammetterli alla piena comunione con Lui. Il Vangelo presenta la seconda parte dell’incontro di Gesù con Nicodemo e il monologo che compendia il mistero della salvezza. La riflessione che scrive Giovanni è una interpretazione che va “oltre”, una visione più profonda che appartiene solo a chi ha fede in Cristo. Dio ci accoglie sempre come suoi figli, qualunque sia la nostra situazione o la nostra condizione. Il Padre ama il Figlio e il Figlio non desidera altro che rispondere all’amore che riceve dal Padre. Noi viviamo perché siamo amati e perché ogni momento Dio ci dona il respiro, il battito del cuore, la luce dell’intelligenza per conoscerlo di più e amarlo di più. Il suo amore ci spinge ad amare gli altri perché non possiamo fare altro che donare quanto riceviamo. Il suo amore è traboccante ed eccedente. “Come Mosè innalzò il serpente”: il serpente innalzato su un’asta da Mosè nel deserto portava salvezza a chiunque l’avesse guardato. Così Gesù deve essere innalzato sulla croce per portare salvezza, come dicono i Padri della Chiesa. Per i primi cristiani il verbo “innalzato” equivale a “glorificato”. Proprio con il suo innalzamento sulla croce, Cristo libera dalla morte. “Così bisogna che sia innalzato”: l’innalzamento di Gesù avviene quando è appeso alla croce. Nel momento della più ignominiosa delle morti si rivela lo splendore della sua gloria. Soffre per amore. Perdona per amore. Muore per amore. Crocifisso e glorioso: due aspetti di un unico mistero di amore. Al rifiuto più grande risponde l’amore più grande ancora. “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Giovanni 12,32); “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo”, ossia lo avrete fisicamente messo in croce, “allora conoscerete che Io Sono” (cfr Esodo 3,14). Giovanni evangelista ha visto morire Gesù (vigilia della Pasqua, 7 aprile anno 30), è stato testimone dei suoi supplizi, era presente al disprezzo dei carnefici. È stato anche testimone, però, della risurrezione, per cui può dire con cognizione di causa che “era necessario”, “bisognava” (necessitas) che Gesù patisse tutto questo per entrare nella gloria e per salvarci. Era la strada obbligatoria per essere creduto. Giovanni evangelista penetra il mistero e afferma che la croce è una gloria, mentre per i sinottici è una tortura, un supplizio, un’infamia. Sono letture diverse dell’unico evento. Anche per noi, discepoli del Signore, quello che sembra un fallimento e una tragedia può diventare un evento che cambia la vita in meglio. Per questo dobbiamo sempre approfondire la nostra fede e stare uniti a Dio come tralci alla vite. Egli ci fa conoscere le profondità della Verità, perché Lui è Verità. “Il Figlio dell’uomo”: l’espressione ebraica designa l’essere umano nella sua condizione creaturale di fronte a Dio (cfr. Salmo 8,5; 80,18; Ezechiele 2,1; ecc.); assume pertanto il significato di un essere che fa parte “della stirpe umana”, nella sua situazione di caducità, di esposizione alla sofferenza e alla morte. Nei Vangeli, Gesù preferisce utilizzare questa espressione quando parla di se stesso. Rivela che Egli è veramente entrato nella storia come uomo, che è solidale con la condizione di fragilità di noi creature limitate e finite. Nel libro di Daniele 7,13 il “Figlio dell’uomo” designa un personaggio che viene dalle nubi del cielo e che ha il potere di esprimere il giudizio finale. Pertanto il “Figlio dell’uomo” è il Messia, l’Inviato di Dio che, venendo nella gloria, alla fine dei tempi, giudicherà il mondo e l’umanità.

15. “perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Giovanni in questo versetto afferma che chi crede in Gesù ha la vita eterna. L’unica condizione è “credere”. A somiglianza degli Israeliti che, per essere salvati, dovevano guardare il serpente di bronzo innalzato, così noi cristiani, per avere la salvezza, dobbiamo alzare gli occhi e guardare a Gesù Cristo innalzato sulla croce, glorificato e risuscitato.

16. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Questo versetto costituisce il nucleo centrale del Vangelo di Giovanni: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Per Dio siamo talmente importanti che non ha esitato a dare quanto aveva di più prezioso e di più caro: il proprio Figlio. Ciascuno può affermare che è amato da Dio alla pari di quanto Egli ha amato Gesù. Non solo l’umanità è amata, ma tutta la creazione, perché Dio è per sua natura Amore. “Dio infatti ha tanto amato il mondo”: è un’affermazione presente solo nel Vangelo di Giovanni. Il verbo indica un’azione che è iniziata nel passato, ma che continua nel presente. Per “mondo” si può intendere la terra, il nostro pianeta, l’universo creato, ma anche “tutta l’umanità, tutto l’essere umano”. L’amore di Dio è la fonte da cui scaturisce tutta l’opera della creazione e tutta la salvezza. Siamo amati da Dio e nulla ci può distogliere dal Suo amore. “Il mondo sappia che li hai amati come hai amato me” (Giovanni 17,23): il Padre ama ciascuno di noi come ha amato il Figlio, al di là di ogni nostra debolezza, di ogni nostro peccato. Ognuno di noi è il figlio prediletto di Dio. Non siamo noi ad amare Dio, ma è Lui che ama noi. “Da dare il Figlio unigenito”: Dio manda il Figlio a compiere la missione nel mondo. Lo dà a noi come Padre. Infatti Dio non è un Dio inaccessibile, ma Colui che ci dà la vita e che continua a darci l’ossigeno del suo amore. “Figlio unigenito”: il riferimento è al figlio di Abramo, Isacco, figlio unico e tanto amato (cfr. Genesi 22). Credere nel Figlio di Dio è già avere la vita eterna. “Vita eterna”: la nostra esperienza di vita è una realtà che finisce con la morte. La vita che non finisce mai, la vita eterna, è un’esperienza che ci viene donata da Cristo. Per noi cristiani “Gesù Cristo è la vita eterna”. Fin da ora, Egli, Risorto e vivente, è presente accanto a noi, lo sarà anche nella morte, e al di là della morte. Egli è pronto ad abbracciarci per essere sempre con Lui. Vista da quest’ottica, la vita eterna può essere non solo una speranza, ma anche un desiderio. La consapevolezza del dover attraversare il tunnel della morte incute angoscia, ma non siamo soli: nulla può separarci dal suo amore (cfr. Romani 8,35).

17. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Lo stesso versetto precedente viene ribadito in forma negativa, allo scopo di rafforzare il concetto fondamentale, già espresso. Lo scopo è chiaro: Dio vuole che tutta l’umanità partecipi alla sua stessa vita. Cristo ci presenta Dio come Padre tenero e non come giudice severo. Egli non condanna il mondo, ma lo salva. “Non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo”: Dio non vuole condannare il mondo, ma vuole che tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10,10). Non dobbiamo pensare a un Dio che prepara processi contro di noi. Egli attende la nostra risposta per abbracciarci con tutto il suo amore di Padre. Impariamo da Lui non a convertire gli altri, ma ad amarli; non a cambiare il mondo, ma ad amarlo dal di dentro, così com’è. Non condanniamo gli altri e tanto meno noi stessi perché sappiamo di essere tutti amati e perdonati in partenza.

18. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. Giovanni continua a sviluppare il tema del giudizio, collegato alla fede nel Figlio unigenito di Dio. Se crediamo in Gesù abbiamo fin da ora la vita. Se non crediamo in Lui, scegliamo la morte definitiva. Credere o non credere all’amore dipende solo da noi. La salvezza non viene data o tolta da Dio: Dio vuole che tutti siamo salvi, ma sta a noi operare la scelta di aderire a Lui o di autoescluderci dalla salvezza. Come fare per avere la vita eterna? Semplicemente credendo nel Figlio Gesù, perché, accogliendo Lui, siamo già accolti dal Padre. Se non crediamo, siamo già giudicati da noi stessi e ci autoescludiamo dalla salvezza. Non c’è nessun giudizio, nessuna condanna né da parte di Dio né da parte del Figlio, perché Dio è amore e dove c’è l’amore non c’è né giudizio né condanna. L’esclusione dall’amore avviene solo per nostra libera scelta.

19. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. In questo versetto viene denunciata la situazione dell’umanità che preferisce il male al bene, le tenebre alla luce. Il problema nasce dal fatto che l’uomo che non crede si comporta da malvagio e compie opere malvagie. Chi crede compie anche opere buone.

20. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.

21. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». “Chiunque infatti fa il male, odia la luce”: chi opera il male lo fa nelle tenebre, nel nascondimento. Quando parla di opere, Giovanni evangelista, intende “L’opera di Dio è che crediate in Colui che egli ha mandato” (Giovanni 6, 29). Quello che Dio si aspetta dall’uomo è la fede nel Figlio di Dio. Essere nella verità significa lasciarsi conquistare dalla Parola e aderire con fede a Dio, attraverso Cristo. La nostra libertà consiste nell’accettare o nel rifiutare Cristo. Siamo chiamati alla luce e siamo veramente realizzati come persone se ci apriamo alla fede, dalla quale scaturiscono le opere di bene. “Chi fa la verità viene verso la luce”: Giovanni annuncia che ad ogni uomo è offerta la salvezza, perché in tutti c’è un seme immesso da Dio Creatore, un desiderio profondo di Lui. Chi è fedele a Dio, accetta anche Gesù, il Figlio suo diletto. Al tempo dell’evangelista Giovanni, le comunità cristiane perseguitate traggono forza da queste parole di speranza e di luce. Gesù è più forte del mondo: “Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Giovanni 16,33). Anche noi, cristiani del ventunesimo secolo, abbiamo bisogno di questa luce, di questo incoraggiamento per superare le prove della vita che talvolta sono terribili. Siamo chiamati a credere che veramente siamo oggetto dell’amore di Dio, amore talmente grande che per noi ha dato il Figlio. Non siamo soli, non siamo abbandonati, ma siamo figli pensati, voluti, benedetti, amati dal Padre. Questa certezza ci dia consolazione, speranza, fiducia nell’affrontare la fatica dell’esistere, nell’accettare con pazienza le nostre fragilità, nel rialzarci dalle nostre cadute, perché Dio ama noi suoi figli anche quando siamo imbrattati dal fango. Ci rialza, ci attira a sé, ci fa risplendere della sua stessa luce, e ci rinvigorisce con la sua stessa vita. All’amore di Dio possiamo rispondere solo con un libero consenso personale. Possiamo scegliere di rifiutare la Luce e autocondannarci al vuoto, al male, al nulla, alle tenebre. Viceversa, possiamo scegliere Dio e vivere fin da ora un’esistenza felice, nella luce della verità, nell’amore aperto verso tutti, nell’attesa di incontrarlo un giorno faccia a faccia, nella beatitudine eterna.

Suor Emanuela Biasiolo

Ritrovato a Verona un muro perimetrale del Forte Clam austriaco

Foto storica di Forte Clam

Ritrovamento importante durante i lavori in corso all’ex Manifattura Tabacchi per la rigenerazione del complesso. Gli scavi hanno portato alla luce una piccola porzione di muro perimetrale del Forte Clam, realizzato dagli Austriaci nel 1850 all’interno delle opere di fortificazione del Quadrilatero. Un vero e proprio ‘gigante’, come si evince dalle mappe e dai disegni storici, la cui superficie superava i 22 mila metri quadrati.

Il reperto diventerà parte integrante della valorizzazione del complesso dell’ Ex Manifattura Tabacchi e soprattutto sarà messo a disposizione della cittadinanza, con un progetto ad hoc che permetterà di conoscere e approfondire la storia recente della città e le affinità con quella attuale.

L’idea è quella di creare, in questa parte di area, un parco archeologico dedicato ai resti del forte austriaco; la posizione strategica del complesso e le sue destinazioni contribuiranno alla massima visibilità del reperto, che sarà ammirato da tutti i viaggiatori che vi passeranno davanti in treno o in auto, ma anche da chi si recherà negli spazi pubblici previsti dal progetto, come la grande piazza o l’area verde.

La stretta connessione con l’area dell’ex Scalo Merci e quindi con il futuro Central Park rappresenta infine un ulteriore elemento di prestigio a favore dell’area e di ciò che vi sorgerà.

Parte del muro ritrovato

Dal recupero dell’area ex Manifattura Tabacchi dipende anche lo sviluppo della fiera, che avrà a disposizione nuovi parcheggi e servizi dedicati, oltre ad una riqualificazione delle aree esterne che, con camminamenti e percorsi ad hoc, creeranno un tutt’uno tra i due poli. Ne beneficeranno anche i quartieri limitrofi, grazie alle opere compensative e agli interventi viabilistici che miglioreranno la qualità della vita dei cittadini.

Uno dei punti di forza della rigenerazione dell’area è la presenza della parte storica, quella vincolata e da preservare, che diventa un valore aggiunto straordinario. Agli elementi già presenti come la grande ciminiera e l’archeologia industriale, ora si aggiunge il muro del forte austriaco, un patrimonio da valorizzare per mantenere la memoria di un luogo che fa parte della storia della città, e che rivivrà grazie ad un’architettura contemporanea ma rispettosa del costruito e del suo pregresso.

Dopo il ritrovamento circa un mese fa, il manufatto è stato oggetto di un primo intervento di pulizia e di messa in sicurezza. “Un ritrovamento che certifica quanto la nostra città sia incredibile – ha detto il sindaco -. Trovare un reperto di questo tipo in una zona come Verona sud ha davvero dell’incredibile e conferma quanto questa città sia storica in tutte le sue parti, anche fuori le mura. Un’opera che darà lustro a questo importante intervento di riqualificazione, che si inserisce perfettamente nella nostra visione di rigenerazione urbana, che punta al vero recupero delle aree dismesse per reinserirle nel tessuto urbano. Nel caso specifico dell’ex Manifattura Tabacchi, parliamo di un’area a ridosso non solo della fiera ma anche dell’ex Scalo Merci in cui sorgerà il grande parco cittadino. Si va concretamente verso la direzione di spostare a sud il baricentro della città, non è più scritto solo sulle carte, ora ci sono i cantieri a dimostrarlo e soprattutto i tempi certi. La deadline è fissata alle Olimpiadi invernali di Cortina 2026. Tra meno di cinque anni saranno completati i progetti per il ribaltamento del casello di Verona sud, la statale 12, il Central Park, tutti strategici per il grande evento olimpico e che cambieranno completamente il volto di questa parte di città”.

Le informazioni storiche fornite dall’architetto Meneghelli, descrivono il muro rinvenuto come ‘il piccolo tratto di un gigante’. Si tratta del ritrovamento di una parte della grande fortezza che fino al 1809 proteggeva l’accesso alla città per chi proveniva da sud, al crocevia fra la strada “Claudia Augusta”, la “Postumia” e quella che corrisponde all’attuale viale del Lavoro e che si sviluppava in un’area di 22.650 metri quadrati. La fortezza era circondata da un muro di 150 metri, alto 5 metri e circondato da un fossato profondo 7 metri, simile a quello che circonda ancora il centro della città. Al centro, su una collina artificiale si ergeva una torre d’artiglieria semicircolare alta 32 metri. Questa difesa militare è entrata in disuso nel 1809 quando venne concepita l’idea di fare della strada d’accesso a Verona un boulevard alberato. Nel 1847 venne costruita la stazione di Porta Nuova che sostituì quella di Porta Vescovo e venne stabilito definitivamente l’ingresso alla città da sud. Con l’annessione del Veneto all’Italia nel 1866 l’intera area subì una trasformazione che la porterà all’assetto urbanistico di cui abbiamo ancora la testimonianza.

Roberto Bolis (anche per le fotografie)

La scuola. Considerazioni-1

Nell’arco dell’ultimo anno, e mai come prima, la scuola è diventata centro delle attenzioni di tutti. Una nazione ai livelli più bassi nella comprensione di testo, che ha disinvestito soprattutto nella sua area principe, quella umanistica, si è ritrovata a sapere tutto e di più. Non potendo dedicarsi allo sport, sembra quindi che la passione per essere tutti Commissario Tecnico della nazionale di calcio si sia trasformata in un esercizio a fare didattica sulla scuola. Estraendo dal cassetto ricordi forse un po’ sbiaditi, di banchi e sedie, di cattedre e bidelli, senza curarsi di verificare quanto di vero ci fosse ancora di quella scuola nel mondo attuale. Spesso infatti si accompagnano i figli a scuola restando in automobile o sul cancello, relazionandosi poco con gli insegnanti. Nell’ultimo anno, miseramente, di discorsi pedagogici se ne sono sentiti davvero pochi, mentre sono emerse molte criticità, zittite dalle rotelle ai banchi, dalla Didattica a Distanza (prima osannata e poi demonizzata), dai concorsi e dalle assunzioni. L’elenco è lungo.

Vorrei iniziare a scrivere alcune considerazioni sulla scuola, per contribuire a fare un po’ di chiarezza e dare spunti di riflessione, ora che abbiamo abbastanza le idee chiare sulle casistiche accadute in questi ultimi mesi.

A partire dalla Pedagogia, tristemente sostituita da una schiera di professionisti che, spesso al pari della gente comune, parla di scuola senza conoscerla davvero.

Oggi la scuola viene discussa fuori sede da neuropsichiatri, psicologi, assistenti sociali, politici, che non si confrontano quasi mai, o troppo poco, con il corpo insegnante. E quel che è peggio, spesso senza riconoscerne la professionalità. L’insegnante è esautorato non solo di autorità, ma anche di riconoscimento, fermo restando che deve, deve, deve un sacco di cose. Il territorio non ha quasi più strutture intermedie alla scuola, dove gli assistenti sociali operino per l’inserimento e il reinserimento. Viene scaricato sulla scuola il fallimento delle attività (vedi l’insegnamento della Lingua Italiana agli stranieri, i corsi di preparazione al conseguimento della Licenza media, le attività di reinserimento concertate con il Tribunale nel caso di percorsi di recupero di comportamenti errati, eccetera) appaltate spesso senza troppo controllo ad enti terzi come varie cooperative, delle quali non tutte lavorano come si deve. E mentre in classe il corpo insegnante non ha potere, il potere degli altri sulla scuola stessa svilisce la possibilità di avere una Scuola, in Italia, degna di questo nome e del sapere che potrebbe creare, al di là della valutazione (per la quale serve un capitolo a parte) e del pezzo di carta.

E poi il lessico. Pezzo di carta. La scuola non fornisce soltanto attestati, qualifiche, diplomi, ma una formazione della persona che si forgia sulla personalità stessa di un insegnante, figura di certo differente da quella dello psicologo, dell’assistente sociale, del neuropsichiatra, del genitore, eccetera.

Chi riesce male a scuola riesce bene nella vita. Altro luogo comune per il quale non esiste substrato civile in grado di arginarne la deriva. Ascoltando le prospettive di molti ragazzi adolescenti di oggi, ma purtroppo anche di bambini in età scolare, il mito non è comportarsi bene e studiare o almeno frequentare la scuola, quanto fare soldi, avere potere, essere rispettati. Quasi nessuno (o troppo pochi, in troppo pochi casi) compie azioni territoriali ex ante valide per questo, temendo quell’idea desueta di autorità e autorevolezza per cui si pensa sinonimo il termine autoritarismo. E tutti coloro che volessero portare aria fresca su questo, vengono demonizzati o scherniti, perché il professore si dileggia, viene trattato come quello che non sa proprio perché insegna, altrimenti farebbe un altro lavoro.

Poi, improvvisamente, i genitori, il corpus dei vari professionisti, i politici, si sono accorti di cosa significa non avere qualcuno al quale delegare la propria genitorialità per alcune, anche molte ore al giorno. Se non si portano i figli a scuola, bisogna gestirseli. Il professore è, per un momento, diventato alleato, capace, addirittura un santo, perché si è compreso quanta pazienza serva per “sopportare e supportare” i propri figli. Sembrava un buon momento per costruire una vera e valida alleanza tra genitori e insegnanti, fatta di collaborazione, nella quale si facesse squadra PER i figli, per le nuove generazioni. Molti però purtroppo, dopo un iniziale smarrimento, sono diventati migliori degli insegnanti, che spesso ora devono difendersi dalle loro “ricette” di istruzione come il cuoco di un ristorante quando, andando a pranzo o a cena da lui, non ti serve la pietanza identica a quella dei cuochi delle svariate trasmissioni di ricette televisive. Di nuovo, per molti (sempre non per tutti) l’occasione è diventata una modalità superficiale di relazionarsi con gli studenti, inneggiando alla necessità di tornare ad una scuola in presenza non tanto per la formazione, quanto per la relazione: la ricreazione, l’incontro per strada, il parlarsi. Perché la scuola, e questo si è letto ovunque, serve per parlare, non per imparare; serve per accedere alle macchinette e non per svolgere attività culturali. Si sente solo parlare di questo, svuotando la relazione docente/studente e studente/studente di fondamento pedagogico, per darne solo una funzione psicosociale.

Una ricetta importante, alla fine di questa prima riflessione, che non intende puntare il dito ma suscitare una riflessione un po’ più approfondita dei corti e immediati messaggi sui social, è fermarsi, in questo nuovo lockdown, a pensare alla scuola come fucina di sapere, di crescita economica, coesione sociale. La scuola che insegna davvero e ancora, dato che ne è rimasta l’unica istituzione grande sul territorio dopo la famiglia. La scuola fatta prima di tutto da chi insegna, che deve mettere le basi di un programma che già tiene conto di quanto indicano altri specialisti, perché gli insegnanti sono formati per svolgere il loro lavoro. Si deve cominciare da un corpo insegnante solido, stabile, aggiornato e lasciato libero di dare quella parte di Sé che si trasmette sempre con l’insegnamento.

Ci leggiamo alla prossima puntata.

Alessia Biasiolo

Vini dell’Emilia-Romagna e pizze gourmet per inediti abbinamenti

Tinto e Zinzani

Per il secondo anno consecutivo i vini dell’Emilia-Romagna sono protagonisti della trasmissione “Mica Pizza e Fichi” in onda per la terza stagione su LA7 dal 7 marzo (ore 11.35, con successive venti repliche su LA7d), condotta da Tinto (al secolo Nicola Prudente), storica voce della trasmissione radiofonica cult “Decanter” di RaiRadio2.

10 puntate, tutte le domeniche fino al 9 maggio, nel corso delle quali i sapori delle pizze di alcuni dei più rinomati pizzaioli italiani si fondono alle parole degli scrittori ospiti, il tutto accompagnato dai vini emiliani-romagnoli per un connubio dai sapori inediti e tutt’altro che scontati. Un confronto al termine del quale si scoprirà che una pizza fatta a regola d’arte, un buon libro e un calice di vino sono dei piccoli piaceri quotidiani irrinunciabili.

«Da Piacenza a Rimini saranno rappresentati tutti i nostri vini – spiega Giordano Zinzani, Presidente di Enoteca Regionale Emilia Romagna – Con questa collaborazione, vogliamo ancora una volta promuovere e far scoprire i nostri vini e le loro potenzialità, anche in abbinamenti inusuali come quelli con la pizza». Prosegue Zinzani: «In questa fase storica, condizionata dalla pandemia di Covid-19, è ancora più importante fare promozione sfruttando le opportunità più interessanti che ci si prospettano, considerando che molte delle attività che solitamente facevamo sono state annullate o rimandate in data da destinarsi, vedi le fiere internazionali che ci hanno sempre visti protagonisti».

Tinto: «La pizza è indubbiamente il cibo italiano più amato (e consumato) al mondo, perché forse è davvero di tutti e per tutti, così come i vini dell’Emilia-Romagna: rossi, bianchi, rosati, fermi, mossi, spumanti, fruttati, secchi, amabili… Insieme rappresentano l’abbinamento perfetto, non è solo una questione sensoriale ma mentale, sociale. È tutto molto naturale, forse perché hanno molti significati in comune e si sposano senza troppi ragionamenti e forse queste, oggi come oggi, sono le cose più belle della vita».

I pizzaioli protagonisti delle 10 puntate: Renato Bosco, Mattia Cicerone, Luca Doro, Sergio Russo, Francesco Martucci, Sasa’ Martucci, Mirco Petracci, Alberto Rundo, Gianluigi Di Vincenzo, Jacopo Mercuro, Corrado Scaglione, Massimo Travaglini, Pier Daniele Seu, Roberto Davanzo, Daniele Donatelli, Pier Luigi Fais, Luca Pezzetta, Giuseppe Pignalosa, Gianfranco Iervolino, Giovanni Santarpia.

Gli scrittori che assaggeranno insieme a Tinto le loro creazioni e i vini dell’Emilia-Romagna: Francesca Serafini, Vincenzo Filosa, Leonardo Patrignani, Valentina Ferrari, Andrea Pomella, Liana Orfei, Valentina Farinaccio, Giampaolo Simi, Cinzia Giorgio, Giacomo Bevilacqua.

Pierluigi Papi (anche per la fotografia)

Inferno alle Scuderie del Quirinale

Le Scuderie del Quirinale hanno annunciato “Inferno”: una nuova grande mostra, curata da Jean Clair, in programma dal 5 ottobre 2021 al 9 gennaio 2022.

Le celebrazioni del settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri e del Dantedì del prossimo 25 marzo, data dallo scorso anno istituzionale ed imperitura come la fama del Sommo Poeta, sono il risultato di un lavoro straordinario per il quale ringrazio, in primis, il Comitato, presieduto dal Professor Carlo Ossola, che ha patrocinato oltre 400 eventi e tutti gli attori coinvolti. La ricorrenza del Dantedì di quest’anno – afferma il Ministro Franceschini – ricopre un grande valore simbolico, per l’anniversario in cui ricorre ma anche per il Paese. Ed è per questo che sarà celebrato con un grande evento di rilievo nazionale: la lettura di un canto della Divina Commedia da parte di Roberto Benigni al Quirinale, proprio il 25 marzo, un evento che verrà trasmesso in diretta su Rai1. Un momento ‘corale’ – prosegue il Ministro – per celebrare colui che, in un momento così critico, ci ricorda l’importanza di sentirci parte di una comunità nazionale. L’ultimo verso dell’Inferno dantesco, ‘E quindi uscimmo a riveder le stelle’, deve accompagnarci come un monito verso la speranza di tornare presto a teatro, al cinema, ai concerti e ad animare le nostre piazze in un clima di grande solidarietà”.

Come già avvenuto in occasione delle esposizioni dedicate ad Ovidio e Raffaello, Le Scuderie del Quirinale partecipano alle celebrazioni di un importante anniversario con un evento di prima grandezza, privilegiando, come di consueto, un approccio peculiare volto ad invitare il pubblico a nuove visioni e riflessioni.

Dal 5 ottobre 2021 al 9 gennaio 2022, Inferno alle Scuderie del Quirinale sarà una mostra potente, capace di condurre il visitatore in territori inattesi– dichiara Mario De Simoni, Presidente di Ales – Scuderie del Quirinale. Attraversando l’iconografia dell’Inferno dantesco, si giungerà nei territori non solo della forma e del gusto nelle arti, ma in quelli delle idee, delle mentalità, dell’indagine sulla persistente presenza, nella storia e nella coscienza umana, dei concetti di peccato e castigo, di dannazione e salvezza. La mostra coglierà e rappresenterà, con la forza delle immagini, il totale impulso morale della Commedia, che attraverso una visione apocalittica del mondo tende a una prodigiosa azione di redenzione individuale e collettiva, con il superamento del mondo che mal vive. È la prima volta che una grande esposizione d’arte affronta il mondo dell’Inferno, raccontando la sua fortuna iconografica dal Medioevo ai nostri giorni, con oltre 180 opere, provenienti da 80 prestatori di 10 Paesi. Opere che accompagneranno la potenza creativa e visiva dei versi di Dante, mentre come tradizione delle Scuderie alla mostra si affiancherà un denso programma di incontri, letture, riflessioni sui temi dell’Inferno dantesco, anche in rapporto alla complessità dei nostri tempi.

La cura del progetto è affidata a Jean Clair, sommo storico dell’arte e uno degli intellettuali che più ha indagato i temi del nichilismo, del male, della possibilità di una redenzione. D’altro canto, l’Inferno costituisce quello sfondo di abiezione su cui viene proiettato il disegno finale di giustizia e provvidenza.

Con i suoi importanti contributi internazionali, la mostra vuole anche richiamare il respiro universale di Dante e la sua importanza per tutta l’Europa. Dante crea la nostra lingua e ancora oggi ognuno di noi ha le sue sacre frasi dantesche, ma al contempo è la summa della cultura classica e della cultura cristiana. Tanto che l’ultimo traduttore francese della Divina Commedia, René de Ceccatty, ha sottolineato con molta forza la rilevanza internazionale del Dantedì, auspicandone la ripresa anche in Francia. Le 10 sale delle Scuderie illustreranno il viaggio dantesco nelle sue rappresentazioni succedutesi nei secoli, dalle opere medievali, con la loro iconografia strutturata e orrifica, al Rinascimento e al Barocco, dal tormento delle tele romantiche alle interpretazioni psicoanalitiche del Novecento. Con due sale dedicate alla traslitterazione dell’Inferno sulla terra: la follia, i totalitarismi, la guerra. Come è stato osservato, è proprio nelle battaglie di massa della I Guerra Mondiale che si invera l’immagine dantesca dell’avanzarsi camminando sui corpi (o meglio sulle ombre) dei dannati. Dopo questo intenso tragitto, la mostra si chiude con l’evocazione dell’idea di salvezza che Dante affida all’ultimo verso della Cantica: e quindi uscimmo a riveder le stelle.

Fra i temi e le sezioni della mostra- conclude De Simoni- la caduta degli Angeli ribelli, il Giudizio Universale, la Porta dell’Inferno, Caronte, gli abitanti dell’Inferno, la topografia dell’Inferno dantesco, i viaggiatori all’Inferno, il viaggio di Dante e Virgilio, diavoli e demoni, le tentazioni e il peccato (quando l’Inferno si avvicina a noi), Dante poeta e politico in esilio, l’inferno in terra con le guerre, la follia, i totalitarismi, e infine la sala ove lo sguardo, come per Dante, finalmente si alzerà verso il Cielo, a riveder le stelle”.

Rachele Mannocchi

Incoronato in Arena Papà del Gnoco

Arrivo di Papà del Gnoco in Piazza Bra

L’incoronazione del 491° Papà del Gnoco resterà nella storia. Per la prima volta in assoluto la tradizionale cerimonia è avvenuta all’interno dell’Arena di Verona, nel luogo simbolo della città.

Una scelta per nulla casuale, voluta dal sindaco per dare un messaggio forte alla comunità in questo particolare momento storico. A causa del perdurare della pandemia e delle ristrettezze ad essa legate, la sfilata del venerdì Gnocolar è stata rimandata di qualche mese. Tuttavia proprio l’emergenza Covid ha rafforzato ancora di più le tradizioni veronesi e il legame con i cittadini, a cominciare dal Carnevale e da ciò che questa ‘istituzione’ rappresenta per la città.

Papà del Gnoco incoronato dal Sindaco

Ecco perché Andrea Bastianelli detto ‘bisteca’ è stato eletto 491° Papà del Gnoco in Arena, con una cerimonia per la prima volta senza pubblico ma senza uguali, con il trono collocato al centro di un anfiteatro vuoto, vestito solo della sua straordinaria bellezza.

A fare gli onori di casa è stato il sindaco Federico Sboarina, insieme all’assessore alle Tradizioni popolari Francesca Toffali, che hanno accolto un sire visibilmente felice quanto emozionato, accompagnato dalla fedelissima corte.

Immancabile la consegna di tutti i simboli del Papà del Gnoco, dalla corona allo scettro fino all’onorificenza del Senato del Papà del Gnoco, ovvero lo stendardo tricolore che contraddistingue ogni Sire del Carnevale veronese, che rimane Papà del Gnoco per tutta la vita. E infatti erano almeno una quindicina i Papà del Gnoco delle passate edizioni che oggi hanno voluto partecipare alla giornata di festa, un’ ulteriore dimostrazione del forte radicamento di questa tradizione nel tessuto cittadino.

Foto di gruppo degli intervenuti alla cerimonia

L’incoronazione del Papà del Gnoco all’interno dell’Arena non era mai stata fatta, questa è la prima volta in assoluto – ha detto il sindaco -. Una scelta motivata dal particolare momento che stiamo vivendo, con la pandemia ancora in corso e le restrizioni che ci hanno costretto a rimandare la sfilata dei carri. Volevo dare un segnale forte alla nostra comunità, perché il Covid non ferma le nostre tradizioni e i nostro simboli più significativi, anzi ne rafforza ulteriormente il valore. L’immagine di oggi rimarrà nei libri di storia, a memoria di quelli che stiamo vivendo ma anche come messaggio di speranza e fiducia per una comunità forte ed unita”.

La commozione del nuovo Papà del Gnoco conferma quanto oggi più che mai sia importante mantenere vive le nostre tradizioni – ha detto Toffali -. Un momento di festa, reso speciale dal contesto unico del nostro anfiteatro”.

Un’emozione unica – ha detto il Sire Bastianelli . Un sogno che si realizza, è da quando avevo 7 anni che aspetto questo momento, il sindaco lo ha reso ancora più speciale con questa indimenticabile incoronazione. Mi aspetta un compito importante, portare allegria e spensieratezza in un anno così difficile. Ce la metterò tutta”.

Roberto Bolis (anche per le fotografie)

Photology Online Gallery

Gianfranco Gorgoni Ugo Rondinone Seven Magic Mountains 2016

In occasione dell’80esimo anniversario della nascita di Gianfranco Gorgoni, scomparso prematuramente nel settembre del 2019, Photology presenta “Gorgoni Art U.S.A”, approfondita retrospettiva dedicata a uno dei più noti fotografi italiani a livello internazionale, che nel corso dell’anno sarà anche celebrato dal Nevada Museum of Art con un focus sulle sue opere legate alla Land Art.

Gorgoni Art U.S.A” – fruibile in modalità virtuale fino al 31 maggio 2021 su Photology Online Gallery (http://www.photology.com/photology-online-gallery) – vuole essere un doveroso omaggio a uno straordinario autore che ha attraversato e fotografato buona parte dell’arte del secondo Novecento, e che proprio grazie a Photology aveva esposto il progetto “Land Art in America” durante l’edizione 2019/2020 di “Photology AIR”, il primo parco per l’arte contemporanea fotografica in Sicilia, aperto nel 2018 a Noto all’interno di Tenuta Busulmone.

Gianfranco Gorgoni Robert Smithson Spyral Jetty 1970-2010

Nato a Roma nel 1941 da una famiglia di origine abruzzese, nel 1986, all’età di ventisette anni, Gorgoni si trasferisce negli Stati Uniti, New York, e da qui inizia il suo “corpo a corpo” col mondo della fotografia e dell’arte, con particolare attenzione alle nuove dinamiche sociali americane legate al mondo dei giovani e dell’arte. Autore di immagini memorabili, la sua attività di foto-giornalista internazionale lo porta a lavorare nelle aree più a rischio del mondo. Collabora con diversi magazine internazionali, quali L’Espresso, il New York Times, Life, Newsweek, che ne hanno riconosciuto l’unicità delle sue fotografie, capaci di immortalare le figure più rappresentative del secolo scorso, dal presidente Carter a Papa Woytila. Nel 1969 attraversa l’America coast-to-coast a bordo di una vecchia Pontiac acquistata per 99 dollari e realizza un reportage sulle comuni hippies. Sulla via del ritorno decide di fermarsi a Woodstock in occasione del concerto rock più famoso della storia.

Gianfranco Gorgoni Warhol Show at Pasadena Art Museum California 1973

Importantissimo l’incontro con il gallerista newyorkese Leo Castelli, che gli permette di conoscere e lavorare con gli artisti americani più importanti del XX secolo, come Andy Warhol, Richard Serra, Keith Haring, Robert Rauschenberg, James Rosenquist.

Leo Castelli affianca Gorgoni anche nel suo progetto sulla nuova avanguardia, che lo porterà a diventare il principale testimone del movimento della Land Art negli sconfinati paesaggi dei deserti non antropizzati americani, espressione del disagio degli artisti nei confronti dell’artificialità e della commercializzazione dell’arte, nonché dell’esigenza rivoluzionaria verso una nuova forma d’arte che porta alla scoperta e all’accettazione del non possesso dell’opera prodotta.

Nel 1976 fonda con altri fotografi l’Agenzia Contact, mentre nel 1985 esce il suo libro “Cuba Mi Amor”, con una prefazione scritta da Gabriel Garcia Marquez e un testo di Fidel Castro. A partire dalla fine degli anni Sessanta Gorgoni immortalò i principali artisti della Land Art anche durante l’esecuzione delle loro stesse opere, da Christo a Walter De Maria, da Michael Heizer a Nancy Holt, da Richard Serra a Robert Smithson, in alcuni casi dei veri e propri lavori condivisi. In particolare, proprio negli anni delle missioni Apollo della Nasa alcuni artisti della cosiddetta “New Avant – Garde” decisero di abbandonare gli spazi ristretti di una normale galleria per progettare lavori monumentali in territori aperti e solitari, idealmente visibili dallo spazio. Le opere di Land Art furono spesso realizzate a quattro mani con Gianfranco Gorgoni, proprio per poter costruire nel modo più efficace possibile una “memoria” fotografica, l’unica traccia concreta di quei lavori performativi effimeri. Non si può dimenticare in anni più recenti la collaborazione con Ugo Rondinone e altri giovani artisti che rendono Gorgoni una vera e propria icona fotografica della storia dell’arte contemporanea della seconda metà del Novecento.

Gianfranco Gorgoni Keith Haring in Front of Queens Bridge NYC 1985

A questi maestri della Land Art americana, sono dedicate due complete sezioni della mostra “Gorgoni Art U.S.A.”. In particolare, Special Outdoor Editions, è frutto di un lavoro di ricerca da parte di Gorgoni nel campo dei materiali anti-UV in alta definizione e stampati direttamente su D-Bond. Queste opere dal valore scultoreo per peso e dimensioni possono quindi essere esposte, una volta acquisite, anche all’aperto in condizioni meterologiche estreme.

Nota di pregio va riservata alla sezione Vintage Prints della mostra con una selezione di stampe uniche e realizzate da Gorgoni al momento dello sviluppo dei negativi in bianco e nero: dalla celebre foto che immortala Keith Haring nell’atto di scavalcare una rete metallica di fronte al Queens Bridge (NYC 1985), a quella di Richard Serra che lavora nel magazzino newyorkese di Leo Castelli (NYC 1970); da Robert Rauschenberg rilassato nella piscina della casa di Le Corbusier’s (Hamedabad, India 1975), a “Andy Wahrol with

Hammer and Sickle” (NYC 1976); da “Wahrol Show at Pasadena Art Museum” (California 1973) a “Land Art – Michael Heizer ‘Motorcycle drawing’ Dry Lake” (Nevada 1970) composta da sei fotografie.

Completano “Gorgoni Art U.S.A” i ritratti di Jean-Michel Basquiat (NYC 1983), Andy Wahrol (NYC 1971), Roy Lichtenstein (NYC 1973) e John Chamberlain (NYC 1969), anche questi di grandi dimensioni.

PHOTOLOGY ONLINE GALLERY

Nei suoi 28 anni di attività Photology ha organizzato più di 350 mostre in tutto il mondo, collaborando con artisti internazionali, archivi, fondazioni, gallerie, musei e università.

Dopo le esperienze di Milano (1992-2015), Cortina (1992-1995), Londra (1997-2000), Bologna (2000-2003), Parigi (2007), Noto (2013- on) e Garzón, Uruguay (2015-on), Photology ha deciso di implementare il concetto di galleria come spazio fisico con la creazione di una nuova realtà virtuale: Photology Online Gallery.

Dal 2020, infatti, tutte le mostre prodotte da Photology sono unicamente fruibili sul web, permettendo così a un pubblico sempre più ampio di ammirare e acquistare le diverse opere fotografiche.

La piattaforma 3D è disponibile con un sistema di navigazione semplice e intuitivo che permette agli utenti di muoversi all’interno di uno spazio virtuale ma allo stesso tempo del tutto realistico. I lavori esposti possono essere ingranditi, guardati nei dettagli e

visti da varie angolazioni.

I testi, i contributi video e gli apparati informativi sono inseriti nel contesto espositivo per una omogeneità di informazione. Nel caso di interesse per una visione live privata delle singole opere, vi è la possibilità di fissare appuntamenti specifici accordandosi direttamente con un team di specialisti nelle principali città italiane.

De Angelis (anche per le fotografie)

Renato Brozzi e la scultura animalista italiana tra Otto e Novecento

Cento anni fa, per Renato Brozzi (Traversetolo 1885-1963) il 1920 scoccava all’insegna di commissioni ed eventi che ne avrebbero consacrato definitivamente la fama di animalista, anzi del «più grande Animaliere italiano dopo il Pisanello», secondo la definizione solenne e lapidaria coniata da Gabriele D’Annunzio.

Da qui le ragioni della mostra Renato Brozzi e la scultura animalista italiana tra Otto e Novecento, promossa dal Comune di Traversetolo e dal museo dedicato allo scultore e cesellatore, incisore e orafo traversetolese, nell’anno di “Parma Capitale Italiana della Cultura 2020+21”.

Una mostra che affronta per la prima volta in modo unitario, a livello nazionale, un genere di straordinaria originalità e bellezza – l’animalismo – mai trattato, finora, con uno sguardo globale, mai raccolto ed esemplificato in un’unica esposizione. L’evento, dunque, intende non solo rendere omaggio a un artista che in questo particolare genere fu subito in prima fila, ma anche far conoscere un orientamento specifico proiettato nel contesto artistico internazionale – e all’epoca particolarmente studiato e apprezzato – attraverso le opere dei principali esponenti italiani (molte delle quali poco conosciute o presentate al pubblico per la prima volta, perché appartenenti a collezioni private).

La mostra rimarrà visitabile fino a domenica 30 maggio 2021.

L’esposizione, curata da uno specialista di scultura italiana dell’Ottocento e Primo Novecento come Alfonso Panzetta, e da Anna Mavilla, curatrice onoraria del museo, costituisce, come detto, la prima indagine specifica sulla scultura zoomorfa in Italia, un genere mai sino a ora sondato con precisione e che, con differenti intensità e poetiche, è stato praticato da circa 350 artisti, e ancora oggi, nel contemporaneo, risulta molto amato dagli scultori emergenti.

Vi sono rappresentati, con oltre 100 opere, più di 50 artisti animalieri, dai più memorabili – Rembrandt Bugatti, Duilio Cambellotti, Guido Cacciapuoti, Antonio Ligabue, Guido Righetti, Sirio Tofanari, Felice Tosalli – ad altre importanti personalità, fino a scultori meno rinomati, la cui produzione è ancora in gran parte da ricostruire. Particolare attenzione è anche rivolta alla produzione animalista di quegli artisti del territorio per i quali la presenza tonificante di Renato Brozzi costituì un riferimento fertile e imprescindibile (Pietro Carnerini, Cornelio Ghiretti, Mario Minari, Armando Giuffredi, Ercole Vighi).

Anna Mavilla “La mostra allestita nel museo Renato Brozzi mette in luce la ricchezza della scultura animalista italiana fra Otto e Novecento, indagando al contempo l’originale specificità dell’artista traversetolese nell’ambito di questo particolare genere. Grazie ad essa la figura di Brozzi ritrova una rivisitata luce, sia perché ne viene sottolineato quel particolare fervore creativo cui è legata la sua leggenda di «animaliere» prediletto da D’Annunzio, sia perché ne mette in risalto il ruolo carismatico nell’orientare tutta una generazione di scultori e cesellatori conterranei verso le tematiche animaliste.”

Alfonso Panzetta “Il genere dell’animalismo in scultura ha rari riferimenti bibliografici in Italia a dispetto del grande interesse collezionistico esistente, ma ancor più inesistenti sono state le occasioni di veder allestite esposizioni sul tema. Quella di Traversetolo è da considerare certamente come una mostra illuminante della grande qualità di questo genere plastico nel suo periodo aureo, tra Otto e Novecento, quando Brozzi si confrontava, da protagonista assoluto, con artisti di grande livello nazionale e internazionale. Una “età d’oro” dell’animalismo da considerare apice di un genere che in Italia ha origine in pieno clima neoclassico.”

Il catalogo che accompagna l’evento espositivo, oltre a riprodurre a colori le opere presenti nell’allestimento della mostra, è l’occasione per indagare tale genere nella scultura italiana fra Otto e Novecento, con un’attenzione particolare agli animalisti contemporanei a Brozzi, molti dei quali suoi compagni nella Prima Mostra nazionale dell’animale nell’arte del 1930, primo importantissimo banco di prova per oltre cento artisti accomunati da questo speciale orientamento.

L’esposizione sarà visitabile dal martedì al venerdì 10-12.30 e 15.30-18.

Biglietto: € 5; ridotto € 3 per gruppi e per soci FAI, € 2 per studenti oltre i 18 anni.

Ingresso gratuito per i casi previsti. Si consiglia di informarsi su apertura ed eventuali variazioni telefonando allo 0521 842436, biblioteca@comune.traversetolo.pr.it, www.museorenatobrozzi.it

U.S. (anche per le foto di Edoardo Fornaciari)

Gaetano Donizetti, un musicista coi baffi

Bergamasco all’anagrafe, napoletano nel cuore, Gaetano Donizetti (1797-1848) è il protagonista del terzo volume della collana I miti dell’Opera dedicata dal Teatro Regio di Parma all’infanzia, per condividere e tramandare di generazione in generazione il patrimonio della grande tradizione lirica. Scritto da Cristina Bersanelli e illustrato da Patrizia Barbieri, il volume Gaetano Donizetti. Un musicista coi baffi è in vendita da oggi online al Regio Il libricino (formato 24 x 24 cm) è come sempre corredato da tre illustrazioni da colorare e da una proposta ludico creativa che, in questo caso, non può che essere una guida alla preparazione di uno speciale e spumeggiante elisir d’amore. A piccoli lettori, l’invito a inviare le foto dei disegni colorati che il Teatro Regio condividerà su teatroregioparma.it e sui profili social. L’infanzia vissuta in povertà a Bergamo, l’incontro con il compositore che divenne più che un suo mentore, un secondo padre, Giovanni Simone Mayr, i primi successi ottenuti a poco più di vent’anni a Venezia, e poi a Roma, fino all’incontro con l’impresario Barbaja e il trionfo a Napoli, con la Lucia di Lammermoor. La fama di Donizetti, compositore d’opera prolifico e amatissimo, fiorita nell’età dell’opera dell’oro, era diffusa in tutti gli strati della società che il compositore, di bell’aspetto, era riuscito a conquistare anche grazie a un talento di canzoniere, tutt’ora poco conosciuto. La sua vita non fu certo priva di momenti drammatici e dolorosi – e “i bambini hanno bisogno di sapere che anche nelle vite più straordinarie ci sono dei fallimenti o comunque dei periodi difficili, spiega l’autrice, Cristina Bersanelli, e che ogni medaglia ha suo il rovescio”. E così anche per Donizetti arrivarono giorni tristi, funestati dalla perdita della bella moglie, Virginia, e dei figli, che culminarono con il trasferimento a Parigi e il rientro a Bergamo, dove il compositore finì i suoi ultimi giorni di vita, attorniato da una ristretta cerchia di amici.

I miti dell’Opera sono libri concepiti e scritti per l’infanzia con protagonisti “straordinari”, capaci di divertire e affascinare i più piccoli, grazie alla capacità affabulatoria delle loro autrici e della potenza narrativa di storie bellissime, realmente vissute da personaggi indimenticabili. Dopo Giuseppe Verdi. Il Cigno di Busseto e Maria Callas. La Divina la collana si arricchisce di un terzo titolo.

Dario De Micheli, Responsabile editoriale della collana: “Capaci di conquistare anche nonni e genitori, che possono assaporare le nostre storie assieme ai bambini, aggiungendo magari ricordi personali e anche accompagnando la lettura con ascolti musicali, I miti dell’Opera sono stati pensati dal Teatro Regio anche per dare luogo a progetti di approfondimento culturale destinati all’utenza scolastica; com’è il caso del volume Giuseppe Verdi. Il Cigno di Busseto che è stato posto al centro di un percorso di conoscenza del compositore e della sua musica destinato alle scuole elementari, dove viene letto, accompagnato da un video illustrativo recitato dall’attrice Sabina Borelli e da un video didattico progettato dal nostro dipartimento educational”.

A questo volume, in vendita al bookshop del Teatro Regio e online su teatroregioparma.it al prezzo di €10, seguiranno il volume dedicato a Giacomo Puccini e successivamente quelli dedicati ai grandi compositori come Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini, Wolfgang Amadeus Mozart e, di nuovo, ai grandi interpreti come Arturo Toscanini, Carlo Bergonzi, Luciano Pavarotti, Renata Tebaldi, a compimento di un progetto editoriale volto alla conoscenza dei grandi miti dell’opera e alla trasmissione della conoscenza della storia del teatro d’opera alle giovani generazioni.

In questi anni abbiamo investito molte energie per ideare, sviluppare e realizzare diversi nuovi progetti destinati all’infanzia e ai ragazzi – afferma Anna Maria Meo, Direttore generale del Teatro Regio di Parma. Ogni compositore e ogni cantante divenuto un mito dell’Opera ha un percorso di crescita personale e professionale fatto di successi, sconfitte, incontri, aneddoti, che diventano storie uniche da raccontare e tramandare. L’augurio è che le storie che racconteremo in questa collana appassionino i giovani lettori rendendo loro familiari questi artisti e incuriosendoli all’ascolto”.

Il medesimo desiderio di incontrare nuovo pubblico ci ha portato a lanciare l’app A Life in Music, il primo mobile game prodotto da un teatro lirico al mondo. Scaricabile gratuitamente, questo progetto coinvolge i giocatori direttamente nella vita di Verdi, con una narrazione accattivante e grazie a un linguaggio interattivo.

Nei mesi scorsi inoltre abbiamo lanciato RegioYoung a casa tua, che rende fruibile la nostra biblioteca multimediale per l’infanzia dalla propria postazione personale. Il canale è dedicato ai bambini dai 3 anni in su e comprende le illustrazioni di Color RegioYoung da stampare e colorare, le storie di Opera in pillole per scoprire le trame delle opere liriche divertendosi, le più belle Favole a sorpresa, realizzate nella versione audiofonica.

Un terzo progetto, particolarmente apprezzato e “partecipato”, è Costruisci il tuo teatro, dedicato ai bambini delle scuole primarie che grazie ai suggerimenti dell’attrice Sabina Borelli, della costumista Lorena Marin e dello scenografo Franco Venturi possono realizzare un teatro in miniatura e allestirvi le loro storie di fantasia. Queste, filmate e inviate al Teatro Regio sono state condivise con grande successo sul sito e sui canali social del Teatro”.

Paolo Maier (anche per le immagini)