Il coraggio di dire no. La storia di Perlasca in scena a Brescia

Dopo la scolastica di stamattina, andrà in scena nuovamente stasera, alle ore 20.30, al Teatro Sociale di Brescia, lo spettacolo “Perlasca. Il coraggio di dire no”, di e con il sempre superlativo Alessandro Albertin, a cura di Michela Ottolini. Prenotato dal CTB nel 2018 perché fosse a Brescia proprio nella Giornata della Memoria 2020, Albertin non è nuovo in città, che l’ha ospitato ripetutamente sia al Teatro Santa Chiara-Mina Mezzadri, che poi al Sociale, dato il vasto consenso di pubblico. Impossibile non restare rapiti dalla capacità recitativa dell’attore, reso ancor più partecipe della toccante storia che racconta perché l’ha dedicata al padre, quando si è trovato nel cimitero di Maserà di Padova, lo stesso che custodisce il riposo eterno di Giorgio Perlasca, Giusto delle Nazioni. La dedica porta l’attore, e quindi ogni spettatore, nel profondo della propria coscienza, perché, al di là di una storia molto ben narrata, non si può non essere colpiti dai molti interrogativi che ciascuno, nel silenzio della sala, pone a se stesso. E se fosse toccato a me? E se fossi stato al suo posto? Mi sarei lasciato cogliere dallo sconforto? Sarei partito per tornare in Italia? in quale Italia, poi, all’indomani dell’8 settembre 1943? Ciò che indubbiamente più colpisce del lavoro teatrale “Perlasca”, e di conseguenza della biografia del “vero” Perlasca, è che ogni parola, ogni immedesimazione di Albertin in un personaggio, sono seguiti da centinaia di persone, e di ragazzi nelle scolastiche, in un silenzio irreale. Non è un silenzio attento, né un silenzio rapito. È come se l’attore fosse davvero solo in scena, nel suo monologo che porta a vedere con gli occhi del cuore ciascuna scena che non c’è sul fondale, ma che egli ben rende, tra il nero di due cubi-sedia, il nero del suo vestire, il nero di una storia che solo il coraggio di un uomo ha illuminato, salvando la vita a migliaia di ebrei dal destino segnato.

Si legge nella presentazione dello spettacolo: “Budapest, 1944. Giorgio Perlasca, un commerciante di carni italiano, è ricercato dalle SS. La sua colpa è quella di non aver aderito alla Repubblica di Salò. Per i tedeschi è un traditore e la deve pagare. In una tasca della sua giacca c’è una lettera firmata dal generale spagnolo Francisco Franco che lo invita, in caso di bisogno, a presentarsi presso una qualunque ambasciata spagnola.

In pochi minuti diventa Jorge Perlasca e si mette al servizio dell’ambasciatore Sanz Briz per salvare dalla deportazione quanti più ebrei possibile.

Quando Sanz Briz, per questioni politiche, è costretto a lasciare Budapest, Perlasca assume indebitamente il ruolo di ambasciatore di Spagna. In soli 45 giorni, sfruttando straordinarie doti diplomatiche e un coraggio da eroe, evita la morte ad almeno 5.200 persone.

A guerra conclusa torna in Italia e conduce una vita normalissima, non sentendo mai la necessità di raccontare la sua storia, se non a pochi intimi. Vive nell’ombra fino al 1988, quando viene rintracciato da una coppia di ebrei ungheresi che gli devono la vita e solo allora, la sua storia torna alla luce.

Oggi il suo nome è scritto nel giardino di Gerusalemme come “Un giusto tra le nazioni”. Un esempio straordinario, il suo, raccontato in uno spettacolo che accompagna lo spettatore a riflettere sul fatto che sempre abbiamo una scelta, che sempre possiamo cambiare la nostra storia.

Alessandro Albertin porta in scena, pur se in forma di monologo, una decina di personaggi che, nel bene e nel male, hanno affiancato Perlasca nella sua straordinaria avventura nella Budapest dell’inverno 1944-45. Un’avventura che è necessario conoscere. In quanto italiani. In quanto uomini.

Per scrivere il testo della pièce, Albertin si è consultato con la Fondazione Giorgio Perlasca, fondata dal figlio dell’eroe padovano”.

In un’ora e mezza circa di dialogo con gli spettatori, Albertin permette a Perlasca di rivivere e di raccontarsi solo uomo: senza appartenenze, senza etichette, perché quando si arriva al dunque, a scegliere (consapevolmente o meno), a doversi porre a paladini della giustizia, della libertà, della vita sulla morte, non serve altro che quello. Jorge si è differenziato dai nazisti perché ha salvato vite umane e non le ha condannate a morte per uccisione sul posto o per deportazione nei campi di sterminio. E non perché avesse rinnegato la sua politica, ma perché credeva profondamente nell’essere umano. Davanti ai grandi principi esistenziali siamo tutti uguali: un insegnamento che Giorgio Perlasca ha pagato con la vita, perché nel dopoguerra fu inviso da tutti proprio per questo. Molto idoneo il parallelo calcistico, che mantiene attenti anche i meno interessati; molto adatto il contatto con il presente, con i Like, per dimostrare che chi si interessa della verità di questi temi non è un avanzo preistorico rimaterializzatosi in un misero giorno di gennaio.

Concordo con Albertin che lo spettacolo si può vedere sempre, in ogni giorno e mese dell’anno, perché la Memoria non si estingue con un liberarsi la coscienza per avere osservato il dettame scelto oltre dieci anni fa dal nostro Parlamento, il 27 gennaio. La costruzione del Sé, della coscienza personale, della capacità di avere valori, riconoscerli e saperli difendere è un processo quotidiano che chiama in causa tutti e non si esaurisce mai, finché c’è vita.

La soddisfazione più grande di condividere lo spettacolo con ragazzi e studenti è sentirsi chiedere quando replica, perché sentono il bisogno di condividerlo con amici e familiari. Ogni anno. Ogni volta.

Grazie Alessandro.

 

Alessia Biasiolo (foto di scena fornite dal CTB)

 

 

L’anima buona del Sezuan. Il Bene esiste?

In scena al Teatro Sociale di Brescia, la nuova coproduzione del CTB che rinnova la collaborazione con Elena Bucci e Marco Sgrosso. Stavolta è in scena un non facile lavoro di Bertold Brecht che indaga ancora una volta l’animo umano e, prodotto nel 1938, si chiede se e dove il Bene esiste nell’umanità. Se almeno una persona buona esista ancora, in una provincia cinese, così come in un luogo qualsiasi nel quale la si può cercare. E se esiste, è in grado di rimanere buona malgrado tutto? Nel caso in cui dovesse essere messa alla prova dalla vita, ad esempio nel caso in cui dovesse prendere piede una dittatura, come quella nazista che l’Autore ha vissuto in prima persona? E se l’anima buona c’è, saremmo noi tutti in grado di riconoscerla? E difenderla? Si finisce di assistere alla rappresentazione teatrale con tutte queste domande addosso, portate come gli attori portano una maschera, lezione antica del teatro classico e poi della Commedia dell’Arte. Su tutto aleggiano tre dei che, venuti sulla terra per le continue lamentele per una situazione impossibile, vagano alla ricerca di un’anima che possa garantire il bene, insegnarlo, mantenerlo, malgrado tutto. Malgrado la vita e le cattiverie degli altri. Gli dei sono osservatori, non si intromettono nelle vite umane, ma ad un certo punto, adducendo una banale scusa come pagare il pernottamento in casa della protagonista, elargiscono dei soldi, indispensabili per aiutare la povera Shen-Tè, l’anima buona della provincia che si sforza di fare del bene e di essere, inconsapevolmente, il Bene, pur dovendo prostituirsi per racimolare soldi in un momento di profonda crisi economica e sociale. Quegli dei che ricordano tanto il Dio più volte interrogato dall’uomo sulla sua presenza, e apparente indifferenza, di fronte alle persecuzioni naziste, al Male che si era impossessato dell’umanità europea. La ragazza, impegnata a distribuire una ciotola di riso ai poveri quotidianamente, con i soldi ricevuti compera una tabaccheria e, quando pensa di poter stare tranquilla nella sua bontà, si rende conto di come il suo cambiamento generi una serie di cambiamenti anche nel prossimo. Gli amici che si erano dimenticati di lei, appaiono per chiederle aiuto, rimproverandole l’indifferenza ai loro mali e lei, pur comprendendo che sono solo dei parassiti, alcuni ladri, che vogliono solo vivere di rendita, li aiuta proprio perché buona. Ma bontà e affari non possono andare di pari passo. È necessario che Shen-Tè si difenda dagli altri e da se stessa, ma per farlo deve necessariamente assumere una maschera che non è lei, deve imporsi, tirare fuori il carattere capace e imprenditoriale. Diventa suo “cugino”, Shui-Ta, vestito di nero, inflessibile e giusto, che caccia gli approfittatori e mette giustizia. Le cose ancora non girano bene, Shen-Tè si innamora e, naturalmente come spesso accade per le anime buone, di una persona più attirata dalle sue conoscenze e possibilità economiche che per amore di lei come donna. Fortunatamente le nozze non vengono celebrate, ma Shen-Tè, che sta perdendo tutto, sentendosi derisa e calunniata addirittura per la sua bontà, riceve un altro aiuto inaspettato. E stavolta, chiamando ancora in causa il suo alter ego Shui-Ta, riesce ad aprire una fabbrica di produzione di sigari. Si impone a se stessa e agli altri, dirige con fermezza, offrendo a tutti i parassiti che aveva intorno un lavoro onesto e rispettabile, grazie al quale cambiare in meglio la propria situazione. E tutto si aggiusta. Shen-Tè offre ancora il riso, ma tristemente, perché si rende conto che bisogna nascondersi per essere, dimostrarsi a volte quello che non si è, vestire, insomma, una vera e propria maschera. Indubbia la riflessione di Brecht sul suo tempo: coloro che erano buoni, che avevano taciuto l’avvento della dittatura nazista, limitandosi ad essere caritatevoli, dovevano dimostrarsi capaci di vestire i panni di Shui-Ta per mettere a posto le cose. Nella vita non si può essere spettatori, anche se al Teatro Sociale di Brescia si è stati spettatori di un ottimo lavoro, ben recitato e interpretato anche a livello di copione riadattato, con eccellenti scene, luci e abiti di scena, recitazione e ideazione eccelse. Un lavoro davvero da non perdere. In cartellone anche nei prossimi giorni.

 

Alessia Biasiolo

 

 

 

 

Premio UBU migliore attrice 2016 a Elena Bucci

 

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Il CTB di Brescia esulta per il premio UBU come migliore attrice 2016 a Elena Bucci per gli spettacoli “La locandiera” produzione proprio del CTB, “La Canzone di Giasone e Medea” sempre produzione CTB nella Stagione di prosa 2015/16, “Macbeth Duo”, “Bimba. Inseguendo Laura Betti”.

La premiazione della trentanovesima edizione dei Premi Ubu, curata dall’Associazione Ubu per Franco Quadri, con il patrocinio e contributo del Comune di Milano e in collaborazione con Ateatro e Il tamburo di Kattrin, si è svolta il 14 gennaio scorso a Milano, negli studi Rai di Piazza Verdi, a cura di Elio Sabella.

Il Premio Ubu per il teatro – l’unico realizzato totalmente in forma di referendum, da 39 anni – è, storicamente, un riconoscimento dallo sguardo lungo, che cerca di individuare non solo il meglio che c’è, ma quello che verrà, aprendosi alle nuove prospettive. I premi sono stati decretati dai voti di una giuria di 59 referendari, tra critici e studiosi teatrali e abbracciano diversi ruoli del teatro, dalla regia agli attori e attrici, dalla scenografia alla drammaturgia contemporanea, fino allo spettacolo dell’anno e ai ‘premi speciali’, destinati a segnalare realtà trasversali, non contemplate dalle altre categorie.

“Un po’ stordita dalla mia fortuna e tra qualche capriola di gioia, ringrazio con tutto il cuore chi ha voluto darmi questo Premio, che mi incoraggia a future ardite visioni e allo stesso tempo mi evoca personalità, volti, spettacoli, progetti che sono emozionanti memorie e storie del teatro. Mi parla del mistero e della grazia del nostro mestiere e del suo gioco che sempre con stupore si rinnova mentre si innesta in una tradizione antica che si perde nel tempo. Riporta in luce il desiderio di incontrarsi e lavorare insieme in nome del valore e del piacere dell’arte nella vita di tutti e di ogni giorno.

Lo dedico quindi, grata a chi mi ha concesso di trovarmi in tanto straordinaria compagnia, a chi non c’è più ma resta nella maestria, a chi mi ha accompagnato e sostenuto fino a qui con qualità e dedizione, a chi lavora con coraggio e passione nella luce e in ombra e a chi ancora non c’è, ma porterà con sé il teatro del futuro”, ha affermato Elena Bucci.

 

Silvia Vittoriano (foto GZPictures)

 

 

 

 

Il grande Family Show di Erix Logan&Sara Maya a Brescia

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 L’illusionista bresciano di fama internazionale Erix Logan, insieme alla sua inseparabile partner, la cantante attrice Sara Maya, vi invitano a scoprire la Magia da una nuova prospettiva. Insieme a tanta Magia, divertimento interattivo adatto a tutte le età e condivisioni di pensieri si troveranno venerdì 6 gennaio 2017 alle ore 16.00 al Teatro Sociale di Brescia (Via Felice Cavallotti, 20). Un Family Show nel senso più profondo del termine, perché sarà come trovarsi in un grande salotto insieme a tanti amici vecchi e nuovi ed un Mago a fare da anfitrione.

Vincitore di Mandrake d’Or, il celebre illusionista italo-canadese ha creato un linguaggio personalissimo che attinge alla tradizione innestandovi altri elementi performativi e una tecnologia “piegata“ all’illusionismo. Danza, mimo, canto, musica: ogni numero diventa un mix originale e irresistibile di elementi che crea una nuova forma di intrattenimento. è uno show complesso con grandi apparati magici che, oltre a offrire una commistione di generi artistici, ha anche una precisa spina dorsale». Frutto di un lavoro di preparazione iniziato nel 2000, “The Magic”, fra dj-set, beat-box, breaker e rapper oltre alle opere del pittore surrealista Jim Warren che prendono vita sul palco grazie all’illusionismo.

Per l’occasione si proporranno al pubblico due illusioni inedite.

 

Silvia Vittoriano

Evento dell’ultimo dell’anno sold out al Sociale di Brescia

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Ad arricchire il programma “LUCI SULLA CITTA”, il CTB Centro Teatrale Bresciano propone per l’ultimo dell’anno, al Teatro Sociale di Brescia, lo spettacolo “Il maschio inutile” di e con la Banda Osiris, insieme a Telmo Pievani e Federico Taddia, il più strampalato e ironico gruppo teatral-musicale italiano, che si terrà al Teatro Sociale alle ore 21.30.

Nello spettacolo “Il maschio inutile” i quattro uomini della Banda Osiris decidono per la prima volta di costituire un gruppo di auto-aiuto. Aiutati da un narratore di storie come Taddia e uno scienziato dell’evoluzione come Pievani, attraversano i gironi infernali della mascolinità. E’ una terapia d’urto, una catarsi.

Uno spettacolo all’insegna di ironia, scienza, piacevolezza, un’analisi esilarante della condizione maschile contemporanea tra parodie, cantate pop rock e d’operetta, improbabili lezioni di anatomia, testimonianze “scientifiche” e talk show. Ironici, imprevedibili, dissacratori.

Al termine, un brindisi per tutti.

Silvia Vittoriano

(anche per i credit fotografici)

 

 

Per la Morte la vita è meravigliosa!

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Al Teatro Sociale di Brescia è andata in scena “Lady Mortaccia, la vita è meravigliosa!”, impersonata da Veronica Pivetti per il Teatro De Gli Incamminati, in collaborazione con Pigra Srl, su testo e regia di Giovanna Gra, con Oreste Valente ed Elisa Benedetta Marinoni.

Spettacolo musicale, su musiche di Maurizio Abeni, con notevoli spunti per lo spettatore: cantando la vita di umani che la Morte aspetta al varco, ci troviamo davanti a punti di vista lontani e distorti, perché la Morte non ha le nostre stesse considerazioni e, quindi, non dà lo stesso valore a ciò che per noi è fondamentale. Se si trascorre la vita ad accumulare denaro, alla Morte non interessa, perché a lei i soldi non arrivano. Se una persona pensa alla salute, cercando di vivere il più a lungo possibile, arriva la Morte e organizza un camion che porti al più presto il malcapitato nei suoi inferi. I due aiutanti di Lady Mortaccia sono armati di falce, come da tradizione, ma vestiti da Pizzi Calzelunghe e da povero malcapitato finito con le dita nella presa di corrente, a fare sorridere grazie ai costumi di Valter Azzini che veste anche Mortaccia da alta e dinoccolata signora, un può disincantata anche del suo ruolo. Infatti, dopo divertenti canzoncine che deridono gli umani, la Morte si lagna del fatto che tanta gente che doveva arrivare a lei non arriva affatto per eccesso di organizzazione umana, ma alcune persone che non erano nel brogliaccio dei morti quotidiani, eccole là! Compaiono nell’Oltretomba non chiamate e non volute e non si sa più dove metterle. Come fare? Ecco un cadavere in esubero, un simpaticissimo fantoccio con occhiali scuri. Nel camposanto non c’è il posto stabilito. La Mortaccia, tanto dannata dagli umani, deve risolvere il dilemma e si dispera di non essere più la Morte di una volta, di non essere più rispettata neanche lei. Cosa sta capitando in questo mondo?

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È l’aldilà in difetto, oppure il mondo umano che sta travalicando e travisando il senso della vita? Le dimensioni della vita e della morte sono tante, molte più di quante ne conosciamo e di quante vorremmo approfondire, per noia o per paura di scontrarci con quella parte di noi con la quale non vogliamo fare i conti. La morte, appunto. Alla fine, Pivetti-Mortaccia ci porta proprio a ragionare, sorridendo, sul senso della vita umana, sul punto di non ritorno della vita umana che è la Morte. Quella che vediamo tutti i giorni al telegiornale e alla quale siamo assuefatti, ma che non vogliamo affrontare mai. O almeno non dal punto di vista filosofico, ragionando sul senso del vivere profondo. Ne esce un lavoro teatrale divertente, simpatico, che scivola via ma con una personalità, senza diventare stucchevole. Si lascia vedere senza colpi di scena, perché comunque l’argomento non è leggero, ma reso con leggerezza. Anche con un cornettino regalato agli astanti prima dello spettacolo, con tanto di piumino per togliere il malocchio. Si parla di Morte, ma dal teatro si esce tutti interi!

Alessia Biasiolo

 

Brescia diventa Versailles… grazie a Paolo Rossi

Il classico caso di una commedia che dura più di due ore, eppure quando si chiude il sipario e scrosciano gli applausi finali, ti sembra di esserti appena seduto in sala. Al Teatro Sociale di Brescia è andata in scena la rappresentazione di “Molière: la recita di Versailles” del Teatro Stabile di Bolzano, per la regia di Giampiero Solari, su testo riscritto da Stefano Massini, Solari stesso e Paolo Rossi, direttore dello Stabile e protagonista del lavoro. Assieme a Rossi sul palcoscenico anche Lucia Vasini, Fulvio Falzarano, Mario Sala, Emanuele Dell’Aquila, Alex Orciari, Stefano Bembi, Mariaberta Blasko, Riccardo Zini, Irene Villa, Karoline Comarella, Paolo Grossi. Canzoni originali di Gianmaria Testa, con musiche eseguite dal vivo da “I Virtuosi del Carso”.

Rossi inizia a spiegare che cosa vedrà il pubblico: incaricato di dirigere il teatro di Bolzano, immagina di essere Molière quando il Re Sole gli chiese di preparargli una commedia nuova in poche ore. Il parallelo si presta a tramutare la scena in un’affascinate melange di nuovo e moderno, di commedia dell’arte e di teatro d’avanguardia, tra prove e ripassi della parte, un improbabile suggeritore e la cruda realtà. Oggi, afferma Paolo Rossi, il mestiere dell’attore è quanto mai superato, forse inutile, perché ogni persona, o personaggio, recita meglio di quanto ogni attore potrebbe mai fare. Si pensi agli avvocati, ai politici, a tanta altra gente. Secondo il capocomico/Molière/Rossi chiunque recita meglio di quanto potrebbe recitare un attore che volesse impersonare ciascuno di quei ruoli e se anche un attore mette in scena il personaggio di un politico sapendo di recitare, non è mai bravo quanto il politico stesso che, invece di sapere che recita e magari recitando mente, quando si riguarda in video crede talmente tanto in quello che dice che si commuove persino e finisce per credersi. Quindi, agli attori non rimane che recitare la vita, in questa mescola di passato e presente che finisce per diventare un tutt’uno. Gli attori indossano maschere del Seicento che potrebbero andare bene anche per          questo periodo di carnevale e se si tolgono la maschera sono comunque coloro che devono fingere di essere quello che forse non sono. Ciascuno indossa la sua maschera quotidiana come facciamo sempre uscendo di casa, sia che si guidi un’auto, sia che si salga in carrozza. Per divertire il re, si deride la corte, perché nulla è più spassoso della satira su noi stessi, ma se si può essere feroci sul prossimo senza incorrere in grane, proprio perché riparati dal travestimento, è di certo più divertente, non solo più conveniente.

La riscrittura dell’opera, firmata da Stefano Massini, uno dei maggiori drammaturghi italiani, Paolo Rossi e Giampiero Solari, si prefigge di approfondire l’arte comica, fondendo tradizione e attualità con rigore e poesia. Un viaggio nel teatro, soprattutto dietro le quinte di una compagnia in prova che deve allestire uno spettacolo in tutta fretta, una nuova commedia che mette a confronto, in un gioco di specchi temporali ed esistenziali, il lavoro e la vita del capocomico Molière e del personaggio capocomico Paolo Rossi.

Il lavoro si ispira a “Improvvisazione di Versailles”, quando Molière metteva in scena se stesso volonteroso di fondare una nuova commedia di carattere e di costume.

Egli era sempre alla ricerca di una nuova forma di commedia, che fosse al passo con i tempi, che proponesse una recitazione più naturalistica, tanto come oggi Rossi e Solari teorizzano una coesistenza sul palco dell’attore che conosce il mestiere (o almeno dovrebbe conoscerlo), dei personaggi e della persona in quanto tale. Così come potrebbe essere ogni spettatore. La compresenza esige e permette un’improvvisazione totale, che ravvivi lo spettacolo e la riuscita è ottima. Rossi, istrione, circondato da attori davvero bravi, affascina e conquista, permette riflessioni e risate, coinvolge e dissacra, getta il sasso e ritira la mano per burlarsi di tutto e di tutti, in modo intelligente e professionale, conducendo un lavoro apparentemente senza nesso eppure sorprendente e riuscito.

Davvero bella la parte dedicata al riformatore papa Francesco, con in testa il basco alla Che Guevara, rivoluzionario e conservatore, ironico e profondo, davanti ad un gruppo di preti, suore e frati, in una gag che è stata pensata forse prima degli ultimi eventi di fuoriuscita di notizie riservate. L’ironia e la burla non diventano dissacratorie e permettono al pubblico davvero di assaporare la voglia di ridere in un momento in cui ce n’è davvero molto bisogno.

 

A.B.

 

Dopo il silenzio, la dignità contro la mafia

Nell’ambito della rassegna teatrale “Altri Percorsi”, inserita nella stagione di prosa del Teatro Sociale di Brescia, anche domani, giovedì 5 marzo, andrà in scena alle 20.30 il lavoro di Francesco Nicolini e Nicoletta Rubino tratto dal libro di Pietro Grasso “Liberi tutti”, per la regia di Alessio Pizzech, dal titolo “Dopo il silenzio”, con Sebastiano Lo Monaco, Mariangela D’Abbraccio e Turi Moricca. Un lavoro intenso, coraggioso, di Sicilia Teatro, Spoleto56 Festival dei 2Mondi, Teatro “Tina di Lorenzo” di Noto, con scene di Giacomo Tringali, musiche di Dario Aricidacono, luci di Luigi Ascione e costumi di Cristina Da Rold. “Il silenzio è mafia” è il perfetto slogan dello spettacolo, uno spaccato della storia e delle ragioni profonde di un fenomeno che potrà essere sconfitto, destinato come tutti i fenomeni umani a finire, soltanto se combattuto dal di dentro, da coloro che dovranno liberarsi dal giogo della mafia, quel sistema di pensiero che è diventato fenomeno di costume e di potere sugli uomini, di alcuni uomini su altri. A partire dalla storia, recitata ad arte per convincere i sicari della giustezza delle sentenze da loro compiute e per assoldare facilmente coloro che si lasciano imbonire dalle belle parole, dell’origine dei mafiosi nientemeno che dai Cavalieri Templari, fino all’appoggio talvolta poco velato della Chiesa, fino a quando non è diventata paladina di giustizia contro il potere della Cupola. La mafia come fenomeno che si intride di ignoranza, di credulità. La lotta di un’insegnante che, durante il pomeriggio, cercava di tenere lontani i ragazzi dalle strade del facile assoldamento per portarli ad avere un’opinione, un’istruzione, un potere fatto di rispetto di sé e da parte degli altri per quello che si vale, non per ciò che si rappresenta. La professoressa racconta di come, in trent’anni, le coscienze siano cambiate, dalle mogli capaci di denunciare i mariti mafiosi, allo scuotimento di coscienze dopo avere saputo dei bambini sciolti nell’acido, dei giudici morti ammazzati, del sangue di decine di agenti morti in servizio. Piano piano tutto è cambiato, anche sulle parole, pesanti come macigni, di Filippo Tomasi di Lampedusa, mai perdonato per quello che aveva saputo scrivere nel suo romanzo capolavoro, “Il Gattopardo”. Il teatro racconta di padre Puglisi e di Peppino Impastato, diventa cassa di risonanza, testimone del cambiamento, eppure valvola di sfogo per qualcosa che sembra semplice realizzare, ma allo stesso tempo così lento, in un clima che appare ancorato da catene invisibili e fortissime. Chi racconta è l’ex procuratore nazionale antimafia, oggi Presidente del Senato, impersonato da Lo Monaco, mentre Moricca è un ragazzo di mafia tormentato dai sensi di colpa e dalle domande. D’Abbraccio è la donna silenziosa e attiva, dalla voce prorompente e dalla decisione più forte degli ordini dei maschi. Quando le donne siciliane decidono di prendere in mano la propria vita, riescono a cambiare davvero non soltanto se stesse, ma la società siciliana tutta, intrisa di rispetto per la donna, ma a patto che resti nel suo posto onorato e silente. Ora parlano le donne, eccome, anche se poi si gettano dal balcone (forse gettate?) come dopo la morte di Borsellino farà la giovane testimone e accusatrice di mafia. Il silenzio uccide più di mille e mille pallottole, ma anche la solitudine. Quella della vedova del poliziotto di scorta ucciso; quella della giovane diseredata dalla famiglia, rinnegata dalla madre; quella della moglie che decide di non stare più a guardare inerte il marito comandare assassinii. Lo spettacolo merita l’ora e mezza di partecipazione di pubblico, con un interessante fondale che diventa muro dove scrivere la verità, con stralci di giornale, volti, musiche e parole in sottofondo. Il rumore è quello delle centinaia di ragazzi che arrivano in Sicilia con la nave della legalità, il rumore è quello del proprio cuore che non può tollerare l’indifferenza del cervello. È il rumore della brava gente, capace di fermare gli omicidi, di fermare il connubio mafia-Stato-potere. Diventa il modo di vivere onestamente, pulito, quello che relega lo sfavillio dei gioielli, delle pistole, dell’ossequio molto lontano dalla propria attenzione e diventa compassionevole per il dolore che deve cessare, per la schiavitù del male che deve essere fatta finire, una volta per tutte. Il ruolo del teatro è stato bene appreso e molto bene accolto dal pubblico bresciano che ha salutato gli attori con un lungo, caloroso applauso. Tra la commozione degli attori sul palco. Da non perdere. Alessia Biasiolo

“Miseria e nobiltà” sempre attuale al Teatro Sociale di Brescia

Replicherà al Teatro Sociale di Brescia fino a domenica prossima, 19 gennaio (da giovedì a sabato alle ore 20.30, domenica alle ore 15.30) “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta. Il testo, diventato capolavoro cinematografico nel 1954 grazie all’adattamento di Eduardo De Filippo, protagonisti Totò, Carlo Croccolo e Carlo Campanini, con una bravissima Sophia Loren, è stato adattato da Geppy Gleijeses che ha curato anche la regia.

Messo in scena da Teatro Stabile di Calabria e Teatro Quirino di Roma, “Miseria e nobiltà” nel cast vede, oltre a Geppy Gleijeses nel ruolo di Felice Sciosciammocca, Gigi De Luca che interpreta Semmolone, Lello Arena nel ruolo di Pasquale, Marianella Bargilli nelle vesti di Luisella, la compagna di Felice. Affiancati da Antonietta d’Angelo (Pupella, figlia di Pasquale), Gina Perna (Concetta, sua madre), Luciano D’Amico,Gino De Luca, Leonardo Faiella, Jacopo Costantini (Eugenio, innamorato di Gemma), Silvia Zora (Gemma), Liliana Massari, Vincenzo Leto.

Testo che si presta ad essere interpretato dai migliori caratteristi del teatro napoletano (vedi Gigi De Luca, Gina Perna, e altri), ha suscitato risate scroscianti, come poi gli applausi, nel teatro sold out.

E tanti ricordi, perché in platea molti spettatori ricordavano il ruolo dei mattatori capeggiati da Totò, soprattutto nella celeberrima scena della congrega di morti di fame che si abbuffano per l’insperata terrina di spaghetti al sugo che un pomposo cuoco porta loro, grazie alla bontà di un innamorato.

La verve di Gleijeses si riconosce ancora, come già in altri lavori napoletani (e non solo) così come la bravura di tutto il cast, accuratamente scelto, che rende la commedia ancora amata e vivace, dopo molto tempo. Il quadro è dei più disperati e penosi, richiama, ahimè, molte situazioni odierne di sconforto e disperazione davanti alla nullità di quanto si può fare quando manca il lavoro, mancano i soldi, non si ha più niente da impegnare per avere qualche spicciolo per comperarsi da mangiare.

Si favoleggia di tesori che si possono impegnare, ma si tratta solo di un vecchio soprabito già rivoltato in origine, usato per il proprio matrimonio di almeno due decenni prima, quindi pochi sarebbero stati i denari in prestito per pensare di riempire la pancia. Della propria famiglia e di quella del vicino, compagno di sventure e di avventure.

Si sa, la differenza la fa il clima napoletano: le donne che litigano, tra disperazione, fame e reciproci insulti per il marito più inconcludente e la sorte più avversa. È che ci si può fare, del resto? Lello Arena, nei panni di Pasquale, si lagna ancora perché i medici, e la legge, hanno vietato l’uso delle sanguisughe, quello era il suo mestiere, il salassatore, e adesso è rimasto senza nulla da fare, troppo povera la gente per poter avere qualcosa da spendere. E l’amico/vicino di casa Felice non ha niente da scrivere per quei poveracci che venivano in città, perché nessuno ha soldi per pagare lo scrivano. Povertà nera e governo che chiede sempre più tasse, che spreme e spreme, anche “se non c’è rimasta più nemmeno la scorza”.

Le allusioni alla contemporaneità sono implicite. Eppure sono tante anche le risate, tant’è che si ha la netta impressione che proprio quella società perduta possa trovare in sé, e nella propria verve, nella propria abitudine a tirarsi su le maniche e sperare in meglio, la capacità di ripresa da quest’ultima batosta denominata crisi.

Ecco allora che, se san Gennaro fa la grazia, c’è il segreto innamorato della figlia che manda i famosi spaghetti e si impegna a pagare le cinque mesate di affitto arretrato che il padrone di casa dice di non poter più aspettare, pur essendo consapevole che quei poveracci non hanno più nulla da impegnare, anche se dovesse mandare il messo a pignorare i beni per rifondersi del mancato guadagno.

Poi c’è la sorte, che gira. E allora arriva il marchesino Eugenio che chiede un favore a Pasquale, in nome della vecchia amicizia di famiglia. Lui e i suoi amici devono impersonare il padre marchese Favetti che non vuole lasciargli sposare una ballerina, Gemma, ricca ma non di lignaggio, e tutti i blasonati parenti. Pasquale, Felice e donne al seguito capiscono solo che per recitare la pantomima di nobili che devono incontrare il padre della futura sposa, Giacomo, un cuoco diventato molto ricco, riceveranno da mangiare: non si reggono in piedi e per la fame non si pongono problemi di sorta. I vestiti verranno presi in prestito dal Teatro dell’Opera San Carlo e tutti sembreranno davvero nobili, Felice un principe addirittura.

Il tutto si snoda poi tra frasi senza senso che scimmiottano l’italiano forbito e la tribù di squattrinati si presenta agghindata all’appuntamento. Una sembra un lampadario, uno ha il vestito delle pompe funebri, l’altra donna ha un cappello impossibile che la rende bellissima: insomma, un cast formidabile con i bei vestiti di Adele Bargilli, su scene essenziali ed efficaci di Francesca Garofalo.

Il colpo di scena è che Felice incontra sul posto la moglie che aveva lasciato sei anni prima per un’altra; la figlia di Pasquale si scopre che è innamorata, ricambiata, del figlio del famoso e ricco cuoco; il padre di Eugenio, il marchese Favetti, in realtà è invaghito della bella e brava ballerina e la frequenta sotto il nome di Bebè. Insomma, alla fine, pur nella confusione generale, nell’impossibile e assurda situazione che tutto possa finire, e finisce, per il meglio, la situazione si mette a posto e tutti vissero felici e contenti. Pasciuti, soprattutto.

Salva anche la sceneggiatura di Mario Mattoli che parte del pubblico ricercava tra le pieghe di questa bella commedia che a Brescia si può ancora ammirare per alcuni giorni, per ridere di gusto dello specchio che riflette, in fondo, noi stessi.

I valori di onestà, sincerità, amicizia sono alla fine l’unico cemento che tiene insieme la società, malgrado le difficoltà, e la società napoletana sottolineata dal lavoro teatrale è poi quella che, senza farsi mancare liti furibonde, accapigliamenti per i capelli e parolacce, è unita e solidale per far fronte alle avversità. E se c’è profumo d’arrosto, come dice un vecchio adagio, il profumo è poi un po’ per tutti. Anche se un attimo prima si stavano azzannando gli arti scoperti gli uni degli altri. E lo rifarebbero se la sorte dovesse girare male ancora.

Divertente, riuscita, la commedia dimostra la vitalità di testi senza tempo, pur se hanno centoventisei anni, lo smalto di Arena/Gleijeses/ Bargilli e l’ottima scelta del cast nel suo complesso.
Viene da pensare: ma con tutto il nostro progresso, dopo ben oltre un secolo, siamo ancora nelle stesse condizioni? Fuori dai bassifondi, ma con gli stessi problemi di sbarcare il lunario? Gli spunti scelti da Gleijeses un po’ ci rispondono.

Alessia Biasiolo

“La cantatrice calva” a Brescia

La Stagione di Prosa del Teatro Sociale di Brescia ha proposto, con ieri l’ultima replica, un altro interessante lavoro: “La cantatrice calva” di Eugène Ionesco, messo in scena da Fondazione Teatro Metastasio di Prato, per la traduzione di Gian Renzo Morteo e la regia di Massimo Castri, con la collaborazione di Marco Plini (assistente alla regia Thea Dellavalle). Settanta minuti spassosi, grazie a Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zenobbio, Francesco Borchi.

Thea Dellavalle è stata assistente di Massimo Castri dal 2001 al 2009 e, grazie ai suoi ricordi proposti per tre giorni in incontri organizzati nel foyer del Teatro Sociale durante il pomeriggio, è stato possibile ripercorrere i lavori e le messinscena di Castri, importante personaggio che ha contribuito a far crescere il teatro stabile bresciano.

Dagli esordi con “Vestire gli ignudi”, transitando per rivisitazioni freudiane che scandagliano l’inconscio, il percorso di Castri ci porta a questa commedia dell’assurdo, con chiacchiere da salotto senza costrutto, con frasi senza senso, a testimoniare il sempre attuale sfascio della società contemporanea, nelle varie epoche. Archetipi della borghesia che si trastulla nei suoi perditempo senza finalità, pur in case eleganti e abiti costosi (belle le scene e i costumi di Claudia Calvaresi), la coppia Smith non fa che dirsi frasi insensate, senza emozione, cariche solo di parole che riempiono la bocca per parlare, ma senza alcun tipo di ragionamento. Ci si mette anche il capo dei vigili del fuoco e la cameriera, in un tutto British tradotto come insopportabilmente “inglese” in italiano. L’elencazione di come tutto sia inglese, infatti, mette quasi i nervi, nella sottolineatura forzata che introduce in un ambiente in cui i due coniugi protagonisti hanno già cenato, per poi non avere cenato affatto, con i due ospiti che hanno atteso fuori dalla porta solo perché non ci sarebbe stata la cameriera ad aprirgliela, essendo uscita per il giorno di riposo. E si sa, per il galateo non si può entrare in casa senza servitù addetta ad annunciare l’arrivo, anche se la servitù non c’è, si è attesi e tutti hanno fame.

Per Ionesco tutto è il contrario di tutto, i legami di parentela sono più importanti della verità e i ricordi spaziano in lunghi periodi: il funerale è avvenuto lo scorso anno ma anche tre, quattro anni fa, perché l’importante è parlare, anche se non si ha niente da dire. E soprattutto se non si sa cosa si dice.

Gli sproloqui dei capo dei vigili del fuoco diventano allora barzellette dal terribile humor inglese, secondo il quale la cantatrice calva si pettina sempre allo stesso modo … motivo del titolo così avvincente.

Le musiche di Arturo Annecchino sottolineano l’evoluzione delle chiacchiere che diventa assurda, mentre l’inesorabile pendola mette in evidenza la follia che regna sovrana, fra le fragorose risate del pubblico, e anch’essa rintocca a ritmi senza senso: dai diciassette rintocchi arriviamo a ore e quarti d’ora battuti alla rinfusa, mentre la cameriera scappa per la platea colta da un inafferrabile senso di liberazione.

Se quindi la società inglese, ma non solo quella nelle intenzioni dell’autore, si è ridotta sempre peggio, è proprio perché il posto di una nobiltà colta e animata da interessi filantropici, si è ridotta a cucire calze e a leggere giornali senza altro contributo dare al mondo se non la propria dabbenaggine.

Certo, non che la caccia alla volpe fosse sommo esempio da seguire, ma il culto di qualcosa, anche solo dell’ora del tè, si è adesso ridotto a tiritere che riempiono le orecchie e innalzano le crestine della donna di servizio, ma non sono in grado di uscire da quella commedia dell’assurdo che tanto piace e tanto ha dato e dà alla riflessione civile.

A Castri, il Teatro Sociale ha dedicato nel foyer del Teatro la mostra “Archivio in mostra”, visitabile fino al prossimo giugno.

Alessia Biasiolo