Centinaia di sparizioni in Egitto. Un rapporto di Amnesty International

In Egitto, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) si rende responsabile di rapimenti, torture e sparizioni forzate nel tentativo di incutere paura agli oppositori e spazzare via il dissenso pacifico: è quanto ha denunciato oggi Amnesty International in un drammatico nuovo rapporto, che mette in luce una scia senza precedenti di sparizioni forzate dai primi mesi del 2015. Il rapporto, intitolato “Egitto: ‘Tu ufficialmente non esisti’. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo”, rivela una vera e propria tendenza che vede centinaia di studenti, attivisti politici e manifestanti, compresi 14enni, sparire nelle mani dello stato senza lasciare traccia. Secondo le organizzazioni non governative locali, la media delle sparizioni forzate è di tre-quattro al giorno. Di solito, agenti dell’Nsa pesantemente armati fanno irruzione nelle abitazioni private, portano via le persone e le trattengono anche per mesi, spesso ammanettate e bendate per l’intero periodo. “Questo rapporto rivela le scioccanti e spietate tattiche cui le autorità egiziane ricorrono nel tentativo di terrorizzare e ridurre al silenzio manifestanti e dissidenti” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. “Le sparizioni forzate sono diventate uno dei principali strumenti dello stato di polizia in Egitto. Chiunque osi prendere la parola è a rischio. Il contrasto al terrorismo è usato come giustificazione per rapire, interrogare e torturare coloro che intendono sfidare le autorità” – ha aggiunto Luther. “Le autorità egiziane si ostinano a negare l’esistenza del fenomeno delle sparizioni forzate, ma i casi descritti nel nostro rapporto forniscono ampie prove del contrario. Denunciamo non solo le brutalità cui vanno incontro gli scomparsi ma anche la collusione esistente tra le forze di sicurezza e le autorità giudiziarie, il cui ruolo è quello di mentire per coprire l’operato della sicurezza o non indagare sulle denunce di tortura, e che in questo modo si rendono complici di gravi violazioni dei diritti umani” – ha sottolineato Luther. Sparizioni forzate e tortura Il rapporto descrive in dettaglio i casi di 17 persone sottoposte a sparizione forzata, detenute illegalmente per periodi varianti da diversi giorni a sette mesi, tagliate fuori dal mondo esterno e private di contatti con avvocati e familiari e di qualsiasi supervisione giudiziaria. Il rapporto comprende inoltre drammatiche testimonianze delle torture praticate durante sessioni d’interrogatorio che possono durare fino a sette ore, allo scopo di estorcere “confessioni” che verranno poi usate come prova durante gli interrogatori ufficiali davanti al giudice e che condurranno alla condanna. In alcuni casi, sono stati torturati anche dei minorenni. Uno dei casi più agghiaccianti è quello di Mazen Mohamed Abdallah: sottoposto a sparizione forzata nel settembre 2015, quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa “confessione”. Aser Mohamed, a sua volta 14enne al momento dell’arresto, è stato vittima di sparizione forzata nel gennaio 2016 per 34 giorni, negli uffici dell’Nsa di Città 6 ottobre (nella Grande Cairo). Durante quel periodo è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che lo ha minacciato di ulteriori scariche elettriche quando ha provato a ritrattare la “confessione”. I due 14enni sono tra i cinque minorenni vittime di sparizione forzata per fino a 50 giorni descritti nel rapporto di Amnesty International. Alcuni di loro, anche dopo che ne era stato disposto il rilascio, sono stati sottoposti nuovamente a sparizione forzata prima di venire raggiunti da nuove accuse. In altri casi, sono stati arrestati i familiari di persone da cui si voleva ottenere una “confessione”. Nel luglio 2015 Atef Farag è stato arrestato insieme al figlio 22enne Yehia. I loro familiari sostengono che Atef è stato arrestato per aver preso parte a un sit-in mentre suo figlio, che è disabile, è stato preso per costringere il padre a “confessare” una serie di gravi reati. Dopo una sparizione forzata durata 159 giorni, padre e figlio sono stati rinviati a processo per appartenenza al gruppo fuorilegge della Fratellanza musulmana. L’evidente aumento delle sparizioni forzate risale al marzo 2015, ossia alla nomina a ministro dell’Interno di Magdy Abd el-Ghaffar, che in precedenza aveva fatto parte del Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato (Ssi), la famigerata polizia segreta dei tempi di Mubarak, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani: è stata smantellata dopo la rivolta del 2011 ma solo per essere rinominata Nsa. Nel 2015 Islam Khalil, 26 anni, è stato sottoposto a sparizione forzata per 122 giorni. Tenuto bendato e ammanettato per l’intero periodo, è stato picchiato brutalmente e sottoposto a scariche elettriche anche sui genitali. Una volta, negli uffici dell’Nsa della città di Tanta (a nord del Cairo), è stato tenuto sospeso per i polsi e le caviglie per ore e ore fino a quando ha perso conoscenza. Una volta, un agente che lo stava interrogando gli ha detto: “Pensi di avere qualche valore? Ti possiamo uccidere, arrotolarti in una coperta e buttarti in una discarica e nessuno chiederà di te”. In un’altra occasione, un secondo agente lo ha sollecitato a dire le ultime preghiere mentre gli stava somministrando scariche elettriche. Dopo 60 giorni Islam Khalil è stato trasferito in quello che ha chiamato “l’inferno”, ossia gli uffici dell’Nsa a Lazoughly, dove sono proseguite le torture. A Lazoughly, a giudizio unanime il peggior centro di detenzione dell’Nsa, si stima si trovino centinaia di detenuti. Questa sede dell’Nsa si trova dentro il ministero dell’Interno, ironicamente a poca distanza da piazza Tahrir, dove cinque anni fa migliaia di persone avevano manifestato contro la tortura e le brutalità delle forze di sicurezza di Mubarak. La sparizione forzata dello studente italiano Giulio Regeni, trovato morto al Cairo nel febbraio 2016 con segni di tortura, ha attratto l’attenzione dei mezzi d’informazione di ogni parte del mondo. Le autorità egiziane si ostinano a negare qualsiasi coinvolgimento nella sparizione e nell’uccisione di Giulio Regeni, ma il rapporto di Amnesty International rivela le similitudini tra i segni di tortura sul suo corpo e quelli sugli egiziani morti in custodia dello stato. Ciò lascia supporre che la sua morte sia stata solo la punta dell’iceberg e che possa far parte di una più ampia serie di sparizioni forzate ad opera dell’Nsa e di altri servizi d’intelligence in tutto il paese. Le sparizioni forzate non solo aumentano il rischio di tortura e collocano i detenuti al di fuori della protezione della legge, ma hanno anche un impatto devastante sulle famiglie degli scomparsi, che sono lasciate sole a interrogarsi sul destino dei loro cari. “Tutto quello che voglio sapere è se mio figlio è vivo o morto” – dichiarava mesi fa Abd el-Moez Mohamed, padre di Karim, uno studente d’Ingegneria di 22 anni scomparso per quattro mesi dopo essere stato rapito nella sua abitazione del Cairo da agenti dell’Nsa pesantemente armati, nell’agosto 2015. Alcuni familiari hanno denunciato la scomparsa dei loro cari al ministero dell’Interno e alla procura ma nella maggior parte dei casi non sono scattate le indagini. Nelle rare occasioni in cui ciò è accaduto, le indagini sono state chiuse dopo l’ammissione che lo scomparso era nelle mani dell’Nsa anche se questi ha continuato a vedersi negati i contatti con parenti e avvocati. “Il presidente Abdel Fattah al-Sisi deve ordinare a tutte le agenzie per la sicurezza dello stato di porre fine alle sparizioni forzate e alla tortura e dire chiaramente che chiunque ordinerà o commetterà queste violazioni dei diritti umani, o se ne renderà complice, sarà portato di fronte alla giustizia” – ha affermato Luther. “Tutte le persone detenute in tali condizioni devono avere accesso a familiari e avvocati e coloro che sono trattenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e alla libertà di riunione devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni” – ha aggiunto Luther. Il rapporto chiede inoltre al presidente al-Sisi di istituire con urgenza una commissione indipendente d’inchiesta che indaghi su tutte le denunce di sparizione forzata e di tortura commesse dall’Nsa o da altre agenzie per la sicurezza dello stato e che abbia il potere di chiamare a deporre tutte le agenzie governative, comprese quelle militari, senza subire interferenze. Collusione e inganno Il rapporto di Amnesty International contiene forti accuse nei confronti della procura egiziana, colpevole di accettare prove dubbie ottenute dall’Nsa – che falsifica regolarmente le date d’arresto per nascondere il periodo in cui i detenuti sono sottoposti a sparizione forzata -, di emettere incriminazioni basate su “confessioni” estorte sotto coercizione e di non disporre indagini sulle denunce di tortura, evitando ad esempio di ordinare esami medici e di includerne i risultati negli atti ufficiali. Nei rari casi in cui la procura autorizza esami medici indipendenti, gli avvocati dei detenuti non possono prendere visione dei risultati. “Siamo molto critici nei confronti della procura egiziana, che si rende complice di violazioni dei diritti umani e tradisce in modo crudele il dovere, assegnatole dalla legge, di proteggere le persone dalle sparizioni forzate, dagli arresti arbitrari e dalla tortura. Se l’istituto della procura non verrà riformato per garantire la sua indipendenza dal potere esecutivo, ciò sarà fatto di proposito” – ha chiarito Luther. L’Egitto è considerato da molti paesi occidentali un partner chiave nella lotta al terrorismo a livello regionale e questa è la giustificazione usata per rifornirlo di armi e altro materiale nonostante le prove che tali forniture vengono usate per commettere gravi violazioni dei diritti umani. Molti paesi continuano a tenere strette relazioni diplomatiche, commerciali e di altra natura con l’Egitto senza dare priorità ai diritti umani. “Tutti gli stati, particolarmente quelli dell’Unione europea e gli Usa, devono usare la loro influenza per spingere l’Egitto a porre fine a queste terribili violazioni dei diritti umani, perpetrate col falso pretesto della sicurezza e del contrasto al terrorismo” – ha sottolineato Luther. “Invece di proseguire ciecamente a fornire equipaggiamento di sicurezza e di polizia all’Egitto, questi paesi dovranno annullare tutti i trasferimenti di armi e altro materiale che vengono usati per compiere gravi violazioni dei diritti umani fino a quando non saranno poste in essere garanzie efficaci contro il loro uso improprio, non saranno condotte indagini esaurienti e indipendenti sulle violazioni dei diritti umani e i responsabili di queste ultime non saranno portati di fronte alla giustizia” – ha concluso Luther.

Il rapporto “Egitto: ‘Tu ufficialmente non esisti’. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo” è disponibile presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia e online all’indirizzo: http://www.amnesty.it/Rapporto-Egitto-centinaia-persone-scomparse-torturate

Amnesty International Italia

Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty

Domenica 17 luglio scorso s’è chiusa con un grandissimo successo la 19ma edizione di Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty, lo storico festival promosso da Amnesty International Italia e dall’Associazione Voci per la Libertà, per la prima volta quest’anno ideato come manifestazione diffusa sul territorio: oltre un mese di eventi, principalmente in provincia di Rovigo, che negli ultimi quattro giorni si sono concentrati a Rosolina Mare con spettacoli musicali e il concorso per assegnare il Premio Amnesty International Italia Emergenti.  Artisti quali Il geometra Mengoni, Adolfo Durante, Bussoletti, Piotta e The Sun hanno attirato in modo trasversale giovanissimi, famiglie e adulti che così hanno potuto essere aggiornati sui temi caldi riguardanti i diritti umani e sulle campagne di Amnesty International attualmente in corso. Alla tradizionale conferenza stampa del Premio Amnesty International Italia era presente Edoardo Bennato, che con la sua Pronti a salpare ha messo a fuoco la questione legata ai migranti. Presenti il direttore artistico di Voci per la Libertà Michele Lionello che ha moderato l’incontro con, tra i relatori, oltre al cantautore napoletano, il vice sindaco di Rosolina Daniele Grossato e il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury. Ecco alcune dichiarazioni:

Daniele Grossato, vice sindaco di Rosolina Sono emozionato nell’avere qui Edoardo Bennato ed è un vero onore ospitarlo. Come molti anch’io sono stato accompagnato in varie fasi della mia vita dalle sue canzoni che hanno avuto il potere di farmi vedere, attraverso gli occhi di un importante artista, il mondo che avevo attorno, fornendomi una lettura e facendomi riflettere su quanto accadeva nella società, durante l’anno e negli anni trascorsi.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia Questa 19ma edizione è legata a due campagne di Amnesty International: Mai più spose bambine, che vuole fermare i matrimoni forzati e precoci che coinvolgono ogni anno oltre migliaia e migliaia di bambine, rese così schiave e vittime di violenze da parte di uomini molto più anziani di loro e, dopo la prima notte di nozze, che è di fatto una notte di stupri, esposte ad una altissima mortalità materna. L’altra campagna è Verità per Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto, la cui storia tutti conosciamo. Non vogliamo che si aggiunga alla lista di tutti i nomi per i quali la giustizia non arriva mai, lista che vede in elenco, ad esempio anche Ilaria Alpi. E sullo sfondo di tutto questo c’è la crisi globale dei rifugiati, persone che non possono più vivere nel loro paese, persone obbligate ad essere pronte a salpare…

Edoardo Bennato, Premio Amnesty International Italia 2016 Sono felice di questo premio. Mi sento uno strumento della musica, che mi permette di parlare e dire quello che vedo. Nelle mie canzonette ho sempre dato voce a problemi geopolitici e alle questioni legate alle relazioni tra i membri della famiglia umana. Credo, infatti, che facciamo tutti parte di un’unica famiglia, a dispetto della colorazione della pelle. Ritengo che chi ha già raggiunto un buon livello di rispetto dei diritti umani debba dare gli strumenti a chi, purtroppo è rimasto indietro in questo fondamentale cammino, per fare sì che la dignità umana sia salvaguardata ovunque. I problemi del mondo ci riguardano, anche se sono lontani. Dobbiamo fare in modo che il dislivello del rispetto dei diritti umani vanga sanato nei tempi più rapidi possibili. Lo spettacolo serale, condotto da Savino Zaba (Raiuno e Radio 2) e Carmen Formenton (Voci per la Libertà), è proseguito con le finali del Premio Amnesty International Italia Emergenti, dedicato agli esordienti: cinque gruppi provenienti da tutta Italia esibitisi con due brani a testa, uno dei quali in concorso.

La giuria specializzata composta da Giò Alajmo (giornalista), Alessandro Besselva Averame (Rumore), Bussoletti (artista), Marco Cavalieri (Trs 102.3), Enrico Deregibus (Premio Tenco), Aldo Foschini (Musica nelle aie), Michele Lionello (Voci per la Libertà), Gianluca Mura (Radio41), Riccardo Noury (Amnesty International Italia), Elisa Orlandotti (FunnyVegan), Riccardo Pozzato (Voci per la Libertà) e Giovanni Stefani (Amnesty International Rovigo) ha premiato le proposte più interessanti: Premio Amnesty International Italia Emergenti 2016 Do’storieski con Tuto a contrari I Do’Storieski sono un duo nato nel 2011 con all’attivo tre album: “Osteria” (2013), “Descanto” (2014) e “Disintegrati” (2015). Il folk d’autore di Alberto Cendron e Leo Miglioranza, fortemente radicato nel Veneto anche per la scelta del dialetto, guarda alla realtà per raccontare le proprie storie in musica, con sagacia e ironia. Il pezzo folk in concorso è antirazzista, incentrato sulla complessa – e a tratti paradossale – situazione dei migranti approdati in una terra promessa e inospitale.  Premio della Critica Tea With Alice con Colore canzone che sfrutta l’elettronica per narrare una delle troppe stragi di migranti che tentano la traversata Premio della Giuria Popolare  (assegnato dal numerosissimo pubblico presente) Cloud con Cruel Farewell brano in duo (chitarra acustica e voce femminile) sulle sensazioni, sulle speranze, sulle paure di chi attraversa il mare in cerca di una vita nuova Tra i finalisti anche  Statale 107 bis e Il quarto imprevisto che ritroveremo con le loro composizioni nella compilation dedicata al festival. La vasta platea di Piazzale Europa era particolarmente gremita di pubblico, che ha seguito dal primo all’ultimo momento il live, compreso quello riservato al set acustico di Edoardo Bennato.  Ricordiamo anche i premi andati a: Cicciuzzi’s Unable Band, che ritira il Premio Web Social per la canzone più votata on line nel contest al quale partecipano i primi iscritti al festival (a lei il pacchetto promozionale del Meeting degli Indipendenti), e il gruppo Statale 107 bis, riconosciuto dall’Università di Cusano come il più bravo nel diffondere in modo virale la propria musica in Rete (cui vanno, oltre alla targa consegnata dal cantautore e dj radiofonico Bussoletti, l’ingresso in heavy rotation su Radio Cusano Campus e la possibilità di farsi conoscere sulla stessa con una lunga intervista).

Elisa Orlandotti, Paola Nigrelli

Bambini uccisi nei campi minati dello Yemen

Al termine di una missione di ricerca di 10 giorni nelle province di Sa’da, Hajjab e Sana’a, Amnesty International ha denunciato che i bambini e le loro famiglie che, dopo un anno di conflitto, tornano a casa nel nord dello Yemen rischiano fortemente di morire o di riportare gravi ferite a causa di migliaia di bombe a grappolo inesplose.   C’è urgente bisogno di assistenza internazionale per sminare i terreni e i paesi in grado di esercitare influenza devono sollecitare le forze della coalizione a guida saudita a fermare l’uso delle bombe a grappolo, armi di per sé indiscriminate e proibite dal diritto internazionale. “Anche con la fine delle ostilità, la vita dei civili, compresi i bambini, e i loro mezzi di sussistenza continuano a essere in pericolo. Al rientro in quelli che ormai sono dei veri e propri campi minati, non potranno vivere in condizioni di sicurezza fino a quando le zone intorno alle loro abitazioni e i campi non saranno ispezionati e ripuliti dalle bombe a grappolo e da altri ordigni inesplosi” – ha dichiarato Lama Fakih, senior crisis advisor di Amnesty International.  Nella sua ultima missione di ricerca nel nord dello Yemen, Amnesty International ha riscontrato prove dell’uso, da parte della coalizione a guida saudita, di bombe a grappolo di fabbricazione statunitense, britannica e brasiliana. L’uso di queste armi è vietato dalla Convenzione sulle bombe a grappolo, che il Regno Unito è vincolato a rispettare. Amnesty International ha intervistato 30 persone, tra cui sopravvissuti a bombe a grappolo e altri ordigni inesplosi, così come loro familiari, testimoni oculari, esperti di sminamento, attivisti e soccorritori. L’organizzazione ha documentato 10 nuovi casi in cui, tra luglio 2015 e aprile 2016, 16 civili sono stati uccisi o feriti da bombe a grappolo. Tra le vittime, anche nove bambini due dei quali rimasti uccisi. Le esplosioni si sono verificate giorni, settimane o anche mesi dopo il lancio delle bombe a grappolo da parte della coalizione a guida saudita.  Col cessate-il-fuoco raggiunto nel marzo 2016, nelle province di Hajjah e Sa’da i civili hanno iniziato a tornare a casa. Ma operatori addetti allo sminamento, residenti e soccorritori hanno dichiarato ad Amnesty International che i civili continuano a saltare in aria quando entrano in contatto con ordigni inesplosi.  Il fenomeno è in particolare aumento lungo il confine tra Arabia Saudita e Yemen, nelle zone di Midi, Haradh, Hayran, Bakil al-Mir e Mustabah (provincia di Hajjah) e di al-Safra, Razih, Shada e Baqim (provincia di Sa’da).  Molti civili, compresi i bambini, sono dunque alla mercé di ordigni potenzialmente mortali senza rendersi conto della loro presenza o dei rischi che pongono. Per di più, recenti inondazioni hanno trasportato questi ordigni in zone dove la loro presenza non era attesa. Finora la coalizione guidata dall’Arabia Saudita non ha ufficialmente confermato di aver usato bombe a grappolo. Tuttavia, in un’intervista rilasciata alla Cnn l’11 gennaio 2016, il generale Ahmed al-Asiri, portavoce della coalizione, nel negarlo complessivamente ha ammesso l’uso di bombe a grappolo CBU-105 nel corso dell’attacco contro un obiettivo militare, nell’aprile 2015.  Le popolazioni civili invocano a gran voce la necessità di aiuto per sminare i loro terreni. Riconoscendo il grave rischio che la presenza di ordigni inesplosi costituisce per la popolazione civile, nell’aprile 2016 il Centro d’azione sulle mine dello Yemen (Yemac, l’unica agenzia di sminamento presente nel paese) ha iniziato a rintracciare e far esplodere ordigni nelle province di Sa’da e Hajjah, nonostante la formazione inadeguata e lo scarso equipaggiamento a disposizione.  Il numero esatto di ordigni inesplosi da eliminare non è ancora chiaro. Nelle prime tre settimane di lavoro nelle due province, lo Yemac ha eliminato almeno 418 sub-munizioni da bombe a grappolo, 810 resti di fusi e di pezzi d’artiglieria, 51 mortai e oltre 70 missili. Purtroppo, il 26 aprile lo Yemac ha dovuto interrompere drammaticamente le sue attività a seguito della morte di tre suoi operatori (Mohammed Ahmed Ali Al Sharafi, Mustafa Abdullah Saleh Al Harazi e Hussein Abdo Mohssien Al Salami), uccisi dai resti di una bomba a grappolo ad Hayran, nella provincia di Hajjah. Il direttore dello Yemac, Ahmed Yahya Alawi, ha riferito ad Amnesty International che le attività del Centro sono sospese mentre sono in corso indagini sulla morte dei suoi uomini. Egli ritiene che l’episodio sia stato causato dalla negligenza di uno dei tre operatori nel rimuovere un ordigno inesploso vicino ai suoi due colleghi. Alawi ha criticato l’assenza di formazione adeguata e ha definito inefficaci e obsolete le attrezzature a disposizione: “La coalizione ha usato vari tipi di bombe a grappolo ma noi abbiamo dimestichezza solo con quattro di essi. Siamo rimasti sorpresi da queste nuove versioni. Sono più sensibili, è difficile farle esplodere ma metterle da parte inesplose è pericoloso. Abbiamo bisogno di formatori provenienti dai paesi che quelle bombe le producono e di migliore tecnologia per distruggerle”. “I paesi donatori devono agire con urgenza e sostenere l’azione a livello locale per individuare in condizioni di sicurezza, marcare e ripulire le aree in cui si trovano gli ordigni inesplosi e spiegare alle comunità di quei territori come, nel frattempo, evitare pericoli. Se non verrà fatto, sarà una bomba a orologeria per i civili, compresi i bambini” – ha commentato Fakih.  I bambini, infatti, sono particolarmente esposti al rischio di raccogliere sub-munizioni inesplose o di entrarci in contatto, scambiandole per giochi a causa della forma e della piccola dimensione. Alcune somigliano a palline, altre a bibite in lattina. Nel gennaio 2016, un 13enne ha raccolto una sub-munizione nei pressi di una fontana del villaggio agricolo di Noug’a, nella provincia di Sa’da, a 20-25 chilometri dal confine con l’Arabia Saudita. La sub-munizione era verde e sembrava “una piccola palla”: questa descrizione coincide con le sub-munizioni contenute nella bomba a grappolo BLU-63 di fabbricazione statunitense. Il ragazzo, che è rimasto in ospedale per due mesi e ha dovuto subire un’operazione chirurgica all’addome, ha detto ad Amnesty International che nei pressi della fontana vi erano altri ordigni di quel genere.  Il 1° marzo “Walid” (la cui vera identità è celata per motivi di sicurezza), un 11enne della stessa zona, ha perso tre dita della mano destra e ha riportato la rottura della mascella sinistra, oltre a ferite al petto e alle gambe. Suo fratello “Samih”, di otto anni, è rimasto ucciso. I due fratelli, secondo il racconto del più grande, stavano portando al pascolo le capre in una vallata quando hanno notato quei piccoli oggetti. Ci hanno girato intorno e giocato per diverse ore fino a quando uno è esploso.   Sulla base del racconto di “Walid”, si tratterebbe di sub-munizioni “ZP39” DPICM la cui presenza nel nord dello Yemen era stata già documentata da Human Rights Watch nel maggio 2015. Il 16 aprile, in un villaggio della provincia di Hajjah a 10 chilometri dal confine saudita, un ragazzo di 12 anni è morto e suo fratello di nove è rimasto ferito giocando con un ordigno trovato mentre stavano portando al pascolo le capre. Questo è il racconto del fratello sopravvissuto: “Ho raccolto la bomba e l’ho data a mio fratello in modo che ne avessimo una a testa. Lui le ha fatte sbattere e sono esplose. Io sono finito a diversi metri di distanza. Due o tre giorni prima, con un amico avevamo raccolto delle bombe in una busta di plastica e le avevamo nascoste sotto gli alberi. Avevano un nastro bianco”. Il ragazzo 12enne è rimasto ucciso sul colpo. Lo hanno ritrovato con l’addome aperto e le braccia mozzate. Il padre, che ha altri 13 bambini, ha raccontato che la loro famiglia era tornata nella zona solo di recente. Ora non trovano più spazio per portare al pascolo le capre: “Qui vicino le bombe sono persino appese sugli alberi”. “L’elevato numero di sub-munizioni usato dalla coalizione a guida saudita e l’alta percentuale di mancata esplosione non solo hanno ucciso e ferito persone ma hanno anche danneggiato gravemente i mezzi di sussistenza e trasformato i terreni in campi minati, rendendo difficile il pascolo così come i raccolti di banane, mango e pomodori” – ha sottolineato Fakih.

Le prime conferme dell’uso di bombe a grappolo di fabbricazione britannica nello Yemen. Dal 25 marzo 2015, quando è iniziata la campagna aerea della coalizione a guida saudita, Amnesty International ha documentato l’uso di sei tipi di bombe a grappolo nello Yemen: uso confermato da altre fonti credibili, come Human Rights Watch.  L’ultima missione di Amnesty International ha potuto confermare per la prima volta l’uso di bombe a grappolo britanniche BL-755, fabbricate negli anni Settanta dalla Hunting Engineering Ltd. Questo tipo di bomba a grappolo, progettato per essere sganciato dai jet britannici Tornado, contiene 147 sub-munizioni in grado di penetrare per 25 centimetri in veicoli blindati e che rilasciano oltre 2000 frammenti che diventano armi anti-persona. Depositi di BL-755 si trovano in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. I ricercatori di Amnesty International hanno visto una bomba a grappolo BL-755 nel deposito in cui lo Yemac raccoglieva gli ordigni inesplosi rinvenuti. La bomba non era esplosa e le sub-munizioni contenute in cinque delle sette sezioni originarie non si erano disperse né avevano detonato.  Si tratta del primo uso confermato di bombe a grappolo made in UK dall’adozione, nel 2008, della Convenzione contro le bombe a grappolo, nella cui stesura e nei cui negoziati il governo di Londra aveva svolto un ruolo da protagonista. La Convenzione, sottoscritta da oltre 100 paesi, vieta l’uso, la produzione e lo stoccaggio delle bombe a grappolo. Altri tipi di bombe a grappolo identificati dalla missione di ricerca di Amnesty International comprendono la brasiliana Avibras Astros e la statunitense CBU-105, con contenitori di sub-minuzioni BLU-108/B. Nell’agosto 2013 il dipartimento della Difesa Usa aveva siglato un contratto del valore di 641 milioni di dollari per la fornitura di 1300 bombe a grappolo CBU-105 all’Arabia Saudita. La sub-munizione BLU-108/B, prodotta da Textron Defense System, viene rilasciata dalla bomba a grappolo che la contiene. Durante la lenta discesa sostenuta da un paracadute, si avvia un veloce movimento rotatorio durante il quale, grazie all’aiuto di sensori ottici multimodali, le munizioni vengono dirette contro una serie di bersagli. La sub-munizione, dotata di un potente propellente, può perforare un veicolo blindato incendiandolo, mentre i frammenti vanno a colpire oggetti e persone. La presenza di numerosi ordigni inesplosi contraddice quanto affermato dalla US Security Defense Cooperation Agency, secondo la quale meno dell’1 per cento degli ordigni non esplode “nell’ambiente operativo in cui operano”. Il governo statunitense vieta la vendita o il trasferimento di bombe a grappolo che abbiano una percentuale di malfunzionamento superiore all’1 per cento.

Raccomandazioni di Amnesty International. “Senza un’azione congiunta per sollecitare la coalizione a guida saudita a cessare l’uso delle bombe a grappolo e l’immediata assistenza internazionale alle operazioni di sminamento, le bombe a grappolo e gli altri ordigni inesplosi costituiranno per anni un lascito mortale per lo Yemen, minacciando la vita dei civili e mandando a rotoli l’economia locale” – ha dichiarato Fakih. L’Arabia Saudita e gli altri stati membri della coalizione dovranno facilitare la bonifica delle aree in cui si trovano ordigni inesplosi. Gli stati in grado di farlo dovranno fornire tutta l’assistenza tecnica, finanziaria e materiale per rendere possibile la demarcazione delle aree e la rimozione o distruzione delle sub-munizioni e di altri ordigni inesplosi. Le vittime e le loro famiglie dovranno ricevere assistenza fisica e psicologica così come avere a disposizione programmi di riabilitazione e istruzioni per evitare i pericoli. Gli stati membri della coalizione a guida saudita dovranno immediatamente fornire alle Nazioni Unite le esatte coordinate degli attacchi con bombe a grappolo, comprese mappe, date e informazioni sul tipo e sulla quantità di armi usate, in modo tale da poter facilitare la bonifica e informare le popolazioni locali sui pericoli ancora presenti. Gli stati che forniscono armi alla coalizione a guida saudita e i singoli stati che ne fanno parte dovranno immediatamente cessare i trasferimenti e l’uso delle bombe a grappolo ed eliminare tutti gli stock ancora a disposizione. Da anni, Amnesty International e altre organizzazioni chiedono a tutti gli stati di porre immediatamente fine all’uso, alla produzione, ai trasferimenti e allo stoccaggio di bombe a grappolo e di aderire alla Convenzione del 2008. Gli altri due stati che, col Regno Unito, hanno prodotto bombe a grappolo usate dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita nel conflitto yemenita, ossia Usa e Brasile, non fanno parte della Convenzione contro le bombe a grappolo. Non ne è parte neanche lo Yemen, anche se il 19 maggio suoi diplomatici hanno dichiarato che stanno considerando di aderirvi, dato l’alto livello di contaminazione da bombe a grappolo nel paese. Né l’Arabia Saudita né gli stati membri della coalizione a guida saudita hanno aderito alla Convenzione. Tuttavia, sulla base del diritto internazionale umanitario consuetudinario, agli stati membri di questa coalizione è fatto divieto di usare armi di per sé indiscriminate, che pongono inevitabili minacce per la vita dei civili. Dal febbraio 2016, Amnesty International sta chiedendo a tutti gli stati di assicurare che nessuna delle parti coinvolte nel conflitto yemenita riceva, direttamente o indirettamente, armi, munizioni, equipaggiamento o tecnologia militare da usare nel conflitto fino a quando le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario non saranno cessate. Amnesty International chiede inoltre a tutti gli stati di appoggiare la richiesta di un’indagine indipendente, imparziale e internazionale, sulle violazioni commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto.
Amnesty International Italia

Bennato vince il premio Amnesty International Italia 2016

“Pronti a salpare” di Edoardo Bennato è il brano vincitore della XIV edizione del Premio Amnesty International Italia, indetto nel 2003 dall’organizzazione per i diritti umani e dall’associazione culturale Voci per la Libertà per premiare il migliore brano sui diritti umani pubblicato nel corso dell’anno precedente.  La premiazione avrà luogo sul palco di Rosolina Mare (Rovigo) domenica 17 luglio, nel corso della serata finale della XIX edizione di Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty, festival che inizierà il 14 luglio e proporrà anche il concorso dedicato agli emergenti, il cui bando rimane aperto fino al 30 aprile. Informato del premio, Edoardo Bennato ha dichiarato: “Avevo in mente questa frase, ‘Pronti a salpare’, molto prima di sapere che ne avrei scritto una canzone che avrebbe dato addirittura titolo a tutto un nuovo album. Pensavo: ‘Pronti a salpare’ non è dedicato a chi scappa dall’inferno della miseria, delle guerre, delle carestie. Loro sono ovviamente sempre ‘pronti a salpare’. Ma è dedicato al cosiddetto ‘mondo occidentale’, il mondo del benessere, della pace, dell’abbondanza, che deve e sottolineo deve, essere pronto a salpare, a cambiare modo di pensare. Non è buonismo spicciolo. Non abbiamo altra scelta e non serve chiudere le frontiere o alzare muri. L’umanità da sempre è in cammino: un concetto che non si può fermare. Dunque siamo noi, volenti o nolenti, a dover essere ‘pronti a salpare’!” Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, ha commentato: “Non è sorprendente che la canzone vincitrice del premio sia, quest’anno, una canzone che parla di chi – anche in questo momento – sta attraversando il mare in cerca di rifugio e sicurezza; di chi sta fuggendo dagli orrori di una guerra che ha distrutto la vita di migliaia di persone: non solo di coloro che l’hanno persa definitivamente, ma anche di coloro che sono costretti a ricominciare tutto, in una terra straniera che spesso non li vuole e fa di tutto per ricacciarli indietro. Edoardo Bennato, con le sue parole e la sua musica, ci aiuta a fare conoscere questa tragedia e i suoi protagonisti: uomini, donne e bambini che meritano la nostra solidarietà di essere umani. Ma formula anche un auspicio: che ‘Pronti a salpare’, pronti a cambiare il proprio modo di vedere le persone che arrivano sulle nostre coste, siano i nostri concittadini, gli abitanti della ricca (e non più tanto generosa) Europa. Noi, quell’auspicio, non possiamo che condividerlo” Nelle scorse edizioni il premio è stato assegnato a “Il mio nemico” di Daniele Silvestri, “Pane e coraggio” di Ivano Fossati, “Ebano” dei Modena City Ramblers, “Rwanda” di Paola Turci, “Occhiali rotti” di Samuele Bersani, “Canenero” dei Subsonica, “Lettere di soldati” di Vinicio Capossela, “Mio zio” di Carmen Consoli, “Genova brucia” di Simone Cristicchi, “Non è un film” di Fiorella Mannoia, Frankie HI-NRG, “Gerardo Nuvola ‘e povere” di Enzo Avitabile e Francesco Guccini, “Atto di forza” di Francesco e Max Gazzé e “Scendi giù” di Mannarino. Amnesty International Italia e Voci per la Libertà ringraziano gli altri nove candidati che nel 2015 hanno scelto, attraverso la loro musica, di dare voce e sostegno ai diritti umani: 99 Posse con “87 ore”, Alex Britti con “Perché?”, Luca Bussoletti con “Povero drago”, Carmen Consoli con “La notte più lunga”, Emma Marrone con “Per questo paese”, Il Muro del canto con “Figli come noi”, Nomadi con “Io come te”, Piotta (feat. Modena City Ramblers) con “Barbara” e The Sun con “Le case di Mosul”.

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Amnesty International sulla Francia

Amnesty International ha chiesto al governo francese di non considerare le misure di emergenza sottoposte al Parlamento dopo gli orribili attentati di Parigi come un elemento permanente della sua strategia contro il terrore. “Adesso la protezione della popolazione da possibili ulteriori attacchi è giustamente la priorità numero uno. Ma le misure di emergenza presentate al Parlamento contemplano una radicale estensione dei poteri dell’esecutivo a scapito delle garanzie fondamentali per i diritti umani. Queste misure dovranno essere usate solo quando strettamente necessario, evitando che diventino un elemento permanente della strategia francese contro il terrore” – ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International. Lo stato d’emergenza proclamato per 12 giorni dopo gli attentati del 13 novembre scorso ha conferito alla polizia una serie di poteri aggiuntivi. La proposta presentata al parlamento estende lo stato d’emergenza per tre mesi e prevede un’ulteriore serie di misure. Tra queste, il potere di condurre perquisizioni nelle abitazioni private e di imporre arresti domiciliari senza la necessità di un’autorizzazione giudiziaria. Vengono inoltre prolungati i poteri di vietare le associazioni con effetto permanente e di proibire le manifestazioni pubbliche. Queste misure straordinarie possono essere consentite solo a seguito di una dichiarazione formale di stato d’emergenza, in quanto derogano dalla legge ordinaria e riducono le libertà civili e i diritti umani. Tali misure devono essere necessarie e proporzionali rispetto allo scopo e alla durata. Soprattutto, devono essere temporanee, monitorate e attuate con giudizio, ossia quando assolutamente necessarie. “Col passare dei giorni, mentre le forze di sicurezza francesi operano con diligenza per portare di fronte alla giustizia i responsabili degli attacchi e impedire ulteriori minacce, la necessità di poteri di emergenza dev’essere attentamente valutata. È paradossale sospendere i diritti umani al fine di difenderli” – ha commentato Dalhuisen. Le modifiche legislative di lungo termine proposte dal presidente Hollande comprendono la revisione delle norme sull’uso della forza letale e l’estensione dei già assai ampi poteri di sorveglianza. Il presidente Hollande ha inoltre chiesto di privare della nazionalità francese le persone con doppio passaporto, proibire a determinate persone l’ingresso nel paese ed espellere in modo rapido i cittadini stranieri sospettati di rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale. La stessa opposizione ha invocato l’applicazione della detenzione preventiva nei confronti di chi è sospettato di minacciare la sicurezza nazionale. “Molte volte abbiamo visto misure di emergenza estese e codificate fino a quando non sono diventate parte della legge ordinaria, facendo vacillare l’impianto dei diritti umani. Nel lungo periodo, quella perniciosa ideologia che ha dato luogo agli attacchi di Parigi potrà essere sconfitta solo mantenendo i valori fondamentali della Repubblica francese” – ha proseguito Dalhuisen. “Lunedì scorso, nel suo discorso al Parlamento, il presidente Hollande ha affermato con forza l’impegno della Francia ad accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti, dalla persecuzione e dallo stesso genere di orrore che ha colpito le strade di Parigi. Questi principi devono essere estesi ed applicati alla lotta a lungo termine contro il terrorismo” – ha concluso Dalhuisen.

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Nigeria: per Amnesty International una terribile realtà vista dal satellite

Una serie di immagini satellitari diffuse da Amnesty International forniscono la scioccante e inconfutabile prova della dimensione di un attacco portato da Boko haram agli inizi dell’anno sulle città di Baga, a 160 chilometri di distanza da Maiduguri, e Doron Baga (conosciuta anche come Doro Gowon, a due chilometri e mezzo da Baga). Le immagini riprese rispettivamente il 2 e il 7 gennaio, prima e dopo l’attacco, mostrano i terribili effetti dell’attacco di Boko haram, che ha danneggiato o completamente distrutto oltre 3700 strutture. Nello stesso periodo il gruppo armato ha attaccato altri centri abitati. “Queste dettagliate immagini mostrano una devastazione di proporzioni catastrofiche in due città, una delle quali è stata quasi cancellata dalla carta geografica nello spazio di quattro giorni” – ha dichiarato Daniel Eyre, ricercatore di Amnesty International sulla Nigeria. “Di tutti gli attacchi di Boko haram presi in esame da Amnesty International, questo è il più grande e il più distruttivo di sempre, un deliberato attacco contro la popolazione civile le cui case, le cui scuole e i cui ambulatori sanitari sono ormai solo rovine fumanti” – ha aggiunto Eyre. L’analisi delle immagini satellitari riguarda solo due dei molti centri abitati attaccati da Boko haram dal 3 gennaio. A Baga, una città densamente popolata estesa per meno di due chilometri quadrati, circa 620 strutture sono state danneggiate o completamente distrutte dalle fiamme. A Doron Baga oltre 3100 strutture sono state danneggiate o distrutte dal fuoco appiccato nella maggior parte dei quattro chilometri quadrati di superficie della città. Molte delle barche di legno dei pescatori lungo la riva del lago Ciad, visibili nelle immagini del 2 gennaio, non sono più presenti in quelle del 7 gennaio che corroborano le testimonianze di chi è fuggito attraverso le acque del lago. Migliaia di persone sono scappate verso il confine col Ciad o in altre parti della Nigeria, come a Maiduguri, capitale dello stato di Borno, aggiungendosi così alle centinaia di migliaia di profughi interni e di rifugiati che stanno mettendo a dura prova le comunità e i governi che li hanno accolti. Amnesty International ha chiesto ai governi di Nigeria e Ciad di garantire protezione e adeguata assistenza umanitaria a queste persone. La distruzione mostrata dalle immagini satellitari conferma le dichiarazioni già raccolte da Amnesty International: testimoni oculari, rappresentanti del governo e attivisti per i diritti umani parlano di centinaia di civili uccisi da Boko haram. Un uomo di una cinquantina d’anni ha raccontato ad Amnesty International i particolari dell’attacco a Baga: “Hanno ucciso tanta gente. Ho visto un centinaio di corpi, poi sono fuggito nella boscaglia. Mentre fuggivamo, continuavano a uccidere”. L’uomo è stato scoperto in un nascondiglio ed è stato portato a Doron Baga, dove è rimasto nelle mani di Boko haram per quattro giorni. Chi è riuscito a fuggire ha riferito di numerosi cadaveri nella boscaglia. “Non so quanti fossero ma ce n’erano ovunque” – ha riferito una testimone. Secondo un’altra testimonianza, Boko haram ha ucciso indiscriminatamente anche bambini in tenera età e una donna che stava partorendo: “La metà del bambino era già uscita. È morta così”. Boko haram ha ripetutamente preso di mira comunità sospettate di collaborare con le forze di sicurezza. Le città in cui sono state costituite le milizie della Task force civile congiunta, alleate del governo, hanno subito attacchi particolarmente brutali. La Task force era presente a Baga e un alto ufficiale dell’esercito ha confermato confidenzialmente ad Amnesty International che a volte i militari coinvolgevano la milizia civile in operazioni contro le postazioni di Boko haram. Un testimone ha raccontato ad Amnesty International di aver sentito, durante l’attacco a Baga, dei combattenti di Boko haram dire che stavano cercando i membri della Task force e che, con questo obiettivo, hanno eliminato casa per casa gli uomini in età da combattimento. Dopo l’attacco di Baga, i testimoni hanno raccontato che Boko haram è andato alla caccia delle persone fuggite nella boscaglia, catturando uomini, donne e bambini. Una donna che è stata detenuta per quattro giorni ha detto: “Ci hanno preso, eravamo circa 300 donne, e ci hanno portato in una scuola di Baga. Dopo quattro giorni hanno lasciato andare le anziane, le madri e la maggior parte delle bambine ma hanno trattenuto le donne più giovani”. Amnesty International continua a chiedere a Boko haram di porre fine alle uccisioni di civili. La deliberata uccisione di civili e la distruzione delle loro proprietà sono crimini di guerra e crimini contro l’umanità e devono essere doverosamente indagate. Il governo nigeriano deve prendere tutte le misure legittime per riportare sicurezza nel nord-est del paese e assicurare la protezione dei civili. “Fino a oggi, l’isolamento di Baga e il fatto che Boko haram continua a controllare la zona avevano reso estremamente difficile accertare cosa fosse accaduto. Gli abitanti non hanno potuto far ritorno per seppellire i morti, tantomeno contarli. Ma adesso le immagini dal satellite unite alle testimonianze dirette compongono un quadro più chiaro di quello che con ogni probabilità è il peggiore attacco mai portato da Boko haram” – ha commentato Eyre. “In precedenza, nel corso della settimana, il direttore delle informazioni del ministero della Difesa aveva dichiarato che il numero dei morti a Baga, compresi i combattenti di Boko haram, non era superiore a 150. Le immagini e i racconti dei sopravvissuti lasciano credere che il numero finale sarà assai più alto” – ha concluso Eyre. Amnesty International ha chiesto immagini satellitari al fornitore DitigalGlobe a seguito delle prime notizie sull’attacco a Baga.

Dal 2009, Boko haram prende deliberatamente di mira i civili con irruzioni nei centri abitati, rapimenti e attentati, con sempre maggiore frequenza e brutalità. Migliaia di civili sono stati uccisi, centinaia rapiti e centinaia di migliaia costretti a lasciare le loro case. Amnesty International ha più volte espresso preoccupazione per l’assenza di misure di protezione adeguate da parte delle forze di sicurezza. Inoltre, vi sono state poche indagini efficaci e incriminazioni per membri di Boko haram sospettati di aver commesso crimini di diritto internazionale. L’attacco contro Baga dimostra come negli ultimi 12 mesi il conflitto nella Nigeria nord-orientale abbia conosciuto una drammatica escalation. Nel 2014, Boko haram ha ucciso oltre 4000 civili. Secondo quanto riferito il 14 gennaio da Medici senza frontiere, 5000 sopravvissuti all’attacco si trovano in un campo di Maiduguri. Il 9 gennaio l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha dichiarato che circa 7300 rifugiati nigeriani erano arrivati in Ciad.

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Denuncia di crimini di guerra in Iraq

In un nuovo rapporto pubblicato lo scorso 14 ottobre 2014, Amnesty International ha accusato le milizie sciite, sostenute e armate dal governo iracheno, di aver rapito e ucciso numerosi civili sunniti negli ultimi mesi, beneficiando della totale impunità per questi crimini di guerra. Il rapporto, intitolato “Impunità assoluta: il potere delle milizie in Iraq”, contiene agghiaccianti resoconti di attacchi settari compiuti dalle sempre più potenti milizie sciite a Baghdad, Samarra e Kirkuk, apparentemente per vendicare attacchi del gruppo armato che si definisce Stato islamico. Decine di corpi non identificati sono stati rinvenuti in tutto il paese, ammanettati e con fori di proiettili alla nuca, seguendo uno schema di uccisioni deliberate nello stile di un’esecuzione. “Dando il suo assenso alle milizie che continuano a commettere questi orribili abusi, il governo iracheno sta approvando crimini di guerra e alimentando un pericoloso ciclo di violenza settaria che sta spaccando il paese. Il sostegno del governo al potere delle milizie deve finire immediatamente” – ha dichiarato Donatella Rovera, alta consulente per la risposta alle crisi di Amnesty International. La sorte di molte delle persone rapite dalle milizie sciite nelle settimane e nei mesi passati resta sconosciuta. Alcuni prigionieri sono stati uccisi persino dopo che le loro famiglie avevano pagato riscatti anche superiori a 60.000 euro per ottenere il loro rilascio. Salem, un uomo d’affari 40enne di Baghdad, padre di nove figli, era stato rapito a luglio. Due settimane dopo che la famiglia aveva pagato un riscatto di 47.500 euro, il suo corpo è stato ritrovato all’obitorio della capitale, con il cranio fracassato e le mani ancora legate. Il crescente potere delle milizie sciite ha contribuito al generale deterioramento della sicurezza e allo sviluppo di un clima di assenza di legge. Un parente di una delle vittime di Kirkuk ha dichiarato ad Amnesty International: “Ho perso un figlio e non voglio perdere gli altri. Niente può riportarmelo indietro e non posso mettere in pericolo tutti i miei figli. Nessuno sa cosa succederà. Non c’è legge, non c’è protezione”. L’elenco delle milizie sciite ritenute responsabili della scia di rapimenti e uccisioni comprende ‘Asa’ib Alh al-Haq, le Brigade Badr, l’Esercito del Mahdi e Kata’ib Hizbullah. Il potere e l’importanza di queste milizie sono ulteriormente aumentati da giugno, dopo che il ritiro dell’esercito iracheno ha lasciato quasi un terzo del paese allo Stato islamico. Ne fanno parte decine di migliaia di persone che, pur indossando uniformi militari, operano al di fuori di qualsiasi contesto legale e senza alcuna supervisione da parte delle autorità. “Non chiamando le milizie a rispondere dei loro crimini di guerra e di altre gravi violazioni dei diritti umani, le autorità irachene hanno praticamente dato via libera alla loro violenza sfrenata contro i sunniti. Il nuovo governo del primo ministro Haider al-Abadi deve agire subito per riprendere il controllo delle milizie e ristabilire la legge” – ha affermato Rovera. “Le milizie sciite stanno prendendo selvaggiamente di mira i civili sunniti, ufficialmente con la scusa di combattere il terrorismo, ma con l’apparente obiettivo di punirli per l’ascesa dello Stato islamico e per i suoi orribili crimini” – ha sottolineato Rovera. A un posto di blocco a nord di Baghdad, Amnesty International ha ascoltato un membro della milizia ‘Asa’ib Ahl al-Haq dire: “Se prendiamo quei cani mentre scendono dalla zona di Tikrit, li ammazziamo. Loro vengono a Baghdad per compiere atti di terrorismo, dunque dobbiamo fermarli”. Nel frattempo, a loro volta le forze regolari irachene continuano a compiere gravi violazioni dei diritti umani. Amnesty International ha scoperto prove di torture e maltrattamenti ai danni dei detenuti così come di decessi in custodia di sunniti imprigionati ai sensi della legge antiterrorismo del 2005. Il corpo privo di vita di un avvocato 33enne e padre di due bambini mostrava ferite ancora aperte e segni compatibili con l’applicazione di corrente elettrica. Un altro uomo, rimasto in carcere per cinque mesi, è stato torturato con le scariche elettriche e minacciato di stupro con un bastone prima di essere rilasciato senza alcuna accusa. “Uno dopo l’altro, i governi iracheni hanno mostrato un cinico disprezzo per i principi fondamentali dei diritti umani. Il nuovo governo, ora, deve cambiare direzione e porre in essere meccanismi efficaci per indagare sugli abusi commessi dalle milizie sciite e dalle forze irachene e chiamare i responsabili a rispondere delle loro azioni” – ha concluso Rovera.

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Libia, la legge delle armi

Secondo un rapporto diffuso da Amnesty International, le milizie e i gruppi armati che si stanno scontrando nella Libia occidentale stanno commettendo gravi abusi, compresi crimini di guerra. Il rapporto, intitolato “La legge delle armi: rapimenti, torture e altri abusi da parte delle milizie nella Libia occidentale”, fornisce prove di esecuzioni sommarie, torture e maltrattamenti dei detenuti e attacchi dei gruppi armati contro la popolazione civile sulla base dell’origine e della presunta affiliazione politica. Le immagini satellitari che accompagnano l’uscita del rapporto di Amnesty International mettono inoltre in evidenza il profondo disprezzo per le vite dei civili da parte di tutte le fazioni coinvolte negli scontri, con razzi indiscriminati e colpi di artiglieria diretti contro aree abitate che hanno danneggiato case, edifici civili e strutture mediche. “Nella Libia di oggi sono le armi a dettare legge. I gruppi armati e le milizie, ormai fuori controllo, lanciano attacchi indiscriminati contro i centri abitati e si rendono responsabili di gravi abusi, compresi crimini di guerra, nella completa impunità” – ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. I capi delle milizie e dei gruppi armati hanno il dovere di porre fine alle violazioni del diritto internazionale umanitario e di dire chiaramente ai loro subordinati che crimini del genere non verranno tollerati. Se non lo faranno, potrebbero essere chiamati a risponderne alla Corte penale internazionale. Tra i gruppi armati e le milizie ritenute responsabili di gravi abusi dei diritti umani figurano la coalizione Alba libica, composta da gruppi di Misurata, Tripoli e altre città della Libia occidentale e la Zintan-Warshafana di cui fanno parte gruppi provenienti dalle due regioni. Le immagini satellitari ottenute da Amnesty International mostrano danni ingenti a proprietà civili nella regione di Warshafana, compreso l’ospedale di Al-Zahra. L’unità di terapia intensiva dell’ospedale di Zawiya è stata centrata da un razzo che ha causato il ferimento di 10 persone tra medici, infermieri, pazienti e visitatori. “Compiere attacchi indiscriminati e prendere di mira strutture mediche sono atti proibiti dal diritto internazionale e possono costituire crimini di guerra. Ciò nonostante, tutte le parti in conflitto hanno lanciato razzi grad e hanno usato l’artiglieria per colpire centri densamente popolati” – ha sottolineato Sahraoui. Rapimenti, torture e altri maltrattamenti   Decine e decine di civili sono stati rapiti dai gruppi armati a Tripoli, Zawiya, Warshafana e nei centri dei monti Nafusa e tenuti in ostaggio anche per due mesi in un’ondata di azioni di rappresaglia basate sulla residenza o sulla presunta affiliazione politica delle vittime e, in alcuni casi, per effettuare scambi di prigionieri, una prassi diffusa sin dall’inizio del conflitto, che risale al 13 luglio. Abitanti di Tripoli originari della zona di Zintan hanno riferito ad Amnesty International che i miliziani di Alba libica hanno effettuato vere e proprie cacce all’uomo, porta a porta, sequestrando persone sulla base della loro appartenenza tribale o presunta affiliazione politica. La stessa milizia ha compiuto raid, distruzioni, saccheggi e incendi di case e altre proprietà civili come le fattorie nella zona di Warshafana. Quando vengono perpetrati nel corso di un conflitto armato, la tortura e i trattamenti crudeli costituiscono crimini di guerra, così come la cattura di ostaggi o la distruzione e l’impossessamento di proprietà di un avversario, a meno che queste ultime azioni non siano imperativamente richieste da una necessità militare. “Tre anni di impunità garantita alle milizie hanno rafforzato il potere di queste ultime e la convinzione di essere al di sopra della legge” – ha commentato Sahraoui. “Se i responsabili dei crimini non saranno chiamati a risponderne, la situazione è destinata a precipitare ulteriormente”. La comunità internazionale ha ampiamente chiuso gli occhi di fronte agli anni di caos seguiti alla rivolta del febbraio 2011, nonostante la Corte penale internazionale potesse esercitare sin da allora la sua giurisdizione per indagare su crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Sulla base di una risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza ad agosto, nei confronti dei responsabili di violazioni dei diritti umani in Libia possono essere adottate sanzioni come il divieto di viaggio e il congelamento dei beni finanziari. Molte persone sequestrate hanno detto ad Amnesty International di essere state sottoposte a maltrattamenti e torture con tubi di plastica, bastoni, sbarre o cavi di metallo, scariche elettriche, così come di essere state forzate a stare per ore in posizioni dolorose, bendate e incatenate per giorni, private di cibo e acqua e costrette a sopportare misere condizioni sanitarie. Un autista di camion rapito da un gruppo armato di Warshafana perché proveniente dalla città di Zawiya ha raccontato di essere stato picchiato con una sbarra di metallo e sottoposto a scariche elettriche. Poi i rapitori hanno versato benzina sul suo corpo minacciando di appiccare il fuoco. Ahmad Juweida, un miliziano di Warshafana, è stato rapito da una milizia di Nalut mentre si stava recando in Tunisia per ricevere cure mediche. È stato ucciso in modo sommario, a quanto pare con un colpo alla nuca. Amnesty International ha sollecitato tutti i gruppi armati e le milizie a rilasciare immediatamente e senza condizioni chiunque sia stato rapito unicamente sulla base dell’origine o dell’affiliazione politica. Tutti i detenuti, soprattutto i combattenti che sono particolarmente a rischio di tortura e di uccisione sommaria, devono essere trattati con umanità nel rispetto del diritto internazionale umanitario. I capi delle milizie e dei gruppi armati devono comunicare ai loro sottoposti che la tortura e i maltrattamenti non saranno tollerati ed espellere dalle loro file chiunque sia sospettato di tali azioni. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, da luglio almeno 287.000 persone hanno lasciato le loro case a seguito degli attacchi indiscriminati o per il timore di essere presi di mira a causa della loro origine etnica o presunta affiliazione politica. Altre 100.000 persone hanno lasciato la Libia temendo per la loro vita. Decine di giornalisti, attivisti della società civile e difensori dei diritti umani sono a loro volta fuggiti dal paese o sono entrati in clandestinità a seguito dell’aumento degli attacchi e delle minacce da parte delle milizie. I componenti del Consiglio nazionale per le libertà civili e i diritti umani, l’istituzione nazionale libica per i diritti umani, sono stati minacciati e intimiditi da miliziani affiliati alla coalizione Alba libica. Amnesty International ha intervistato 10 operatori dell’informazione che hanno lasciato la capitale Tripoli o, in alcuni casi, il paese temendo di essere uccisi. Sono stati presi di mira anche gli uffici e i giornalisti di Al-Assema Tv e Libya International Tv. Secondo Reporter senza frontiere, nei primi nove mesi del 2014 sono stati presi di mira almeno 93 giornalisti. Stessa sorte per gli sfollati tawargha, a lungo sospettati da molti libici di aver sostenuto l’ex leader Gheddafi, vittime di rapimenti a partire da agosto e di attacchi per rappresaglia contro uno dei loro campi profughi.

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Rapporto di Amnesty International sul Venezuela

Il Venezuela rischiera’ una delle peggiori minacce allo stato di diritto degli ultimi decenni se le contrapposte forze politiche non s’impegneranno a rispettare appieno i diritti umani. E’ quanto ha dichiarato Amnesty International, presentando il rapporto “Venezuela: diritti umani a rischio nelle proteste”, in cui sono documentate violazioni dei diritti umani commesse nel contesto delle manifestazioni di massa in corso dall’inizio di febbraio. “Il paese correra’ il rischio di precipitare in una spirale di violenza se non verranno fatti sforzi per portare le parti in conflitto intorno a un tavolo. Questo potra’ accadere solo se esse rispetteranno integralmente i diritti umani e lo stato di diritto. In caso contrario, il numero delle vittime continuera’ a crescere e il tributo maggiore verra’ pagato dalla gente comune” – ha dichiarato Erika Guevara Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International. Finora, 37 persone hanno perso la vita e oltre 550 sono rimaste ferite, 120 delle quali a causa dell’uso delle armi da fuoco. Secondo i dati diffusi il 27 marzo dall’Ufficio del procuratore generale, gli arresti durante le proteste sono stati 2157. Nella maggior parte dei casi, le persone arrestate sono state rilasciate ma rimangono le accuse a loro carico. Secondo le denunce ricevute da Amnesty International, le forze di sicurezza venezuelane hanno affrontato i manifestanti ricorrendo alla forza eccessiva, compreso l’impiego di proiettili veri e persino della tortura. Il rapporto di Amnesty International documenta anche violazioni dei diritti umani commessi da gruppi filogovernativi, da manifestanti e da altre persone non identificate. “Le denunce di violazioni dei diritti umani devono essere indagate immediatamente e in modo approfondito, con l’obiettivo di portare i responsabili di fronte alla giustizia” – ha aggiunto Guevara Rosas. “La crisi politica rischia di pregiudicare i progressi compiuti negli ultimi anni per il rispetto dei diritti umani delle persone piu’ emarginate del paese” – ha precisato Guevara Rosas. Amnesty International chiede al governo venezuelano di impegnarsi in favore di un Piano nazionale per i diritti umani, risultato di un necessario dialogo nazionale e del contributo di tutte le parti interessate e della societa’ civile. “Il governo e l’opposizione devono impegnarsi a risolvere la crisi politica con metodi pacifici, facendo capire ai loro sostenitori che la violenza e la retorica conflittuale che rischia di incitare alla violenza non saranno tollerate. La comunita’ internazionale, compresi i paesi vicini, devono favorire l’avvio di un dialogo costruttivo” – ha concluso Guevara Rosas. Il rapporto Venezuela: diritti umani a rischio nelle proteste e’ disponibile in lingua spagnola all’indirizzo: http://www.amnesty.it/Venezuela-spirale-violenza-politica-minaccia-stato-di-diritto.

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I premiati Amnesty al Giffoni

E’ “Lucky Devils” di Verena Endtner (Russia, Svizzera, 2013) il film vincitore dell’undicesima edizione del premio “Amnesty Giffoni Film Festival”. A scegliere il lungometraggio che ha meglio affrontato e rappresentato il tema dei diritti umani e’ stata una giuria di soci e sostenitori di Amnesty International campani con la seguente motivazione: “Lucky Devils ci dimostra ancora una volta come l’arte e la cultura possano svolgere un ruolo fondamentale e piu’ incisivo della stessa politica nel progresso reale di una nazione. I bambini di San Pietroburgo ritrovano nel circo Upsala il diritto di sperare e sorridere, forse il vero primo e fondamentale diritto umano”. Per il quinto anno consecutivo, inoltre, la Sezione italiana di Amnesty International ha consegnato il premio Amnesty Corto Giffoni Film Festival, nell’edizione 2014 conferito a “Feathers” di Adriano Giotti (Italia, 2014). Il premio e’ stato scelto da una giuria composta da soci e sostenitori di Amnesty International dell’Agro Nocerino Sarnese con la seguente motivazione: “per la capacita’ di descrivere con poesia le forme inaspettate con cui il coraggio dei buoni puo’ emergere anche nelle condizioni di vita piu’ frustranti. Per il lieto fine realistico, che ci ricorda che l’umanita’ degli ultimi e’ piu’ forte degli schemi sociali su cui affonda le proprie radici il razzismo”. Nelle precedenti edizioni, il premio Amnesty Giffoni Film Festival e’ stato assegnato a “The Wooden Camera” di Ntshaveni Wa Curuli (2004), “Innocent Voices” di Luis Mandoki (2005), “Zozo” di Josef Fares (2006), “Rosso Malpelo” di Pasquale Scimeca (2007), “Heart of Fire” di Luigi Falorni (2008), “Skin” di Anthony Fabian (2009), “The story of me” di Luiz Villaça (2010), “Lost in Africa” di Vibeke Muasya (2011), “Stay” di Lourens Blok (2012) e “Mike says goodbye!” di Maria Peters (2012). Nelle scorse edizioni il premio Amnesty Corto Giffoni Film Festival e’ stato assegnato a “DisAbili” di Angelo Cretella (2010), “Hai in mano il tuo futuro” di Enrico Maria Artale (2011), “Heimatland” di Loretta Arnold, Andrea Schneider, Marius Portmann e Fabio Friedli (2012) e “Hollow Land” di Uri Kranot e Michelle Kranot (2013).

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