Ha debuttato a Brescia, al Teatro Sociale, la messinscena “Il vecchio e il mare”, basata sul romanzo di Ernest Hemingway, con regia e adattamento drammaturgico di Daniele Salvo, prodotto dal CTB di Brescia.
Un lavoro bellissimo, da vedere assolutamente, perché la forza espressiva di Hemingway che per questo lavoro specifico viene ricordata soprattutto per la realizzazione del mitico film hollywoodiano, con l’adattamento di Salvo acquista spazio, volume, forza e bellezza. Infatti, la maggior parte delle persone che ricordavamo il film, anche in sala, si aspettavano un po’ di noia, ma allo stesso tempo la curiosità di vedere come un lavoro letterario potesse diventare teatrale. L’operazione è assolutamente riuscita, dopo la già bella collaborazione del CTB con Daniele Salvo in occasione di “Macelleria Messicana” che era stato un altro successo. In scena, Graziano Piazza nel ruolo di Santiago, e Stefano Santospago nel ruolo di narratore. Il ragazzino che aiuta il vecchio Santiago e che funge da suo allievo è il bravo Luigi Bignone. Ottime le scene di Alessandro Chiti e le luci di Cesare Agnoni.
La scena è composta da un tavolaccio in salita che si apre a diventare la casa del ragazzino o di Santiago, oppure si alza a diventare mare. Le luci permettono di vedere acqua scorrere e diventare impetuosa, quel mare amico-nemico che è il senso della vita di Santiago, ma anche il suo cruccio e la sua morte dentro. La storia è nota: Santiago da tempo non pesca più nessun pesce e viene guardato come un povero vecchio ormai inutile. Il mare, la vita, gli hanno girato le spalle perché ormai alla fine dei suoi giorni. Soltanto un ragazzino può stargli vicino e dimostrargli un po’ d’affetto. Santiago non sarebbe nulla senza di lui, ma anche senza la voce narrante che gli rende giustizia, gli dà carattere e forza. Santospago è Hemingway, di cui fuma il sigaro e veste il cappello, ed è ciascuno degli spettatori che indaga il perché di una vita così, di una lotta con il pesce e con gli squali, quelli che giorno per giorno cercano di portarti via quello che hai. L’allegoria del vivere comune la cerca chiunque in ogni momento dello spettacolo, ma il lavoro è denso, mai senza appigli per tenere l’attenzione, mai retorico, mai buonista, mai fuori dagli schemi tracciati da uno dei più amati narratori del Novecento. Il tutto sottolineato dalle musiche originali di Marco Podda (suono Edoardo Chiaf, costumi di Silvia Aymonino, video di Paride Donatelli), mentre un po’ di magia si impossessa degli astanti quando il pesce che si pensa solo coda e pinna, diventa lisca davvero, ancorata alla povera barca del protagonista come lo stesso Santiago è aggrappato alla sua vita di pescatore, senza la quale non sarebbe null’altro che un’ombra, un relitto umano. Pescato il più grosso pesce della sua vita, pensa a quanto dovrà veleggiare per tornare a casa, quanto ha remato fin lì, molto fuori dai suoi soliti schemi, dalle solite rive. Pensa a quanti soldi potrà ricavare dalla vendita del pesce, che è stato costretto a inseguire e a uccidere, anch’esso così disperatamente attaccato alla vita. In fondo, però, i soldi che potrebbero permettergli un vestito nuovo e del cibo tutti i giorni, sono solo un pretesto di sogno e il senso del tutto è la fatica, l’ingiustizia, la lotta per dimostrare chi si è e cosa si vale.
Un lavoro riuscitissimo, con un Hemingway ancora vitale, pur se dal tavolato di un palcoscenico.
(foto fornite dal CTB)
Alessia Biasiolo