Nomachi. Le vie del sacro

A Roma, al Centro di Produzione Culturale “La Pelanda” (Piazza Orazio Giustiniani, 4), fino al 4 maggio 2014, sarà visitabile la mostra “Nomachi. Le vie del sacro”, la più grande mostra antologica di Kazuyoshi Nomachi e la sua prima assoluta in Occidente. Con circa 200 scatti, il percorso espositivo articolato in sette sezioni ricostruisce il viaggio di una vita attraverso la sacralità dell’esistenza quotidiana, un’esperienza vissuta dall’artista in terre tra loro lontanissime, ma accumunate da quella spiritualità che dà un ritmo e un senso alle condizioni di vita più dure.

Kazuyoshi Nomachi è sempre stato un fotografo documentarista, sin dal suo primo viaggio nel Sahara quando aveva venticinque anni. In Africa è rimasto affascinato dai grandi spazi e dalla forza della gente che vive in ambienti così difficili. Per oltre 40 anni, intorno al tema “della preghiera della ricerca del sacro”, ha rivolto la sua attenzione alle più diverse culture tradizionali che sono l’espressione di popoli che abitano nelle terre più aspre, ai quattro angoli del mondo. Nomachi ha saputo cogliere la spiritualità che percorre quei paesaggi di unica e straordinaria bellezza, dove i ritratti e le figure umane assumono una dignità assoluta e si fondono con il contesto in composizioni quasi pittoriche, dominate da una luce abbagliante, reale e trascendentale al tempo stesso.

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I pellegrini partecipano alla funzione della Notte del Destino (Laylat al-Qadr), il 27° giorno del Ramadàn. La celebrazione commemora la rivelazione del Corano al Profeta. La Mecca, Arabia Saudita 1995

Nomachi nasce in Giappone nel 1946 a Mihara, un villaggio nel Distretto di Hata, Prefettura di Kochi. Studia alla Kochi Technical High School e inizia a scattare fotografie fin dall’adolescenza. Nel 1969 studia fotografia con Takashi Kijima. Nel 1971 inizia la sua carriera come fotografo pubblicitario free-lance e l’anno successivo compie il suo primo viaggio nel Sahara,

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Un ragazzo attraversa una valle di dune Kerzaz, Algeria, 1972

dove rimane colpito dalle dure condizioni di vita degli abitanti di un ambiente così ostile. Decide a quel punto di dedicarsi al foto-giornalismo. Quasi a fare da contrappunto alla sua lunga esperienza nel riarso deserto matura in lui l’ispirazione del Nilo come tema, “Il Nilo, perenne flusso d’acqua che mai si prosciuga scorrendo nell’arido Sahara”. È questo concetto che dal 1980 guida la sua ricerca lungo il Nilo Bianco, dal delta fino alla fonte in un ghiacciaio dell’Uganda, poi lungo il Nilo Blu fino alla sorgente negli altopiani dell’Etiopia. Strada facendo, egli cattura nei suoi scatti la forza dell’ambiente e della gente di questa vasta regione dell’Africa. Dal 1988 rivolge la sua attenzione all’Asia. Mentre esplora le aree occidentali della Cina, viene attratto dalle popolazioni che vivono nelle estreme altitudini del Tibet

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e dal Buddismo. Questo incontro lo porta, fra il 2004 e il 2008, a visitare quasi l’intera area di cultura tibetana, spingendosi poi alla scoperta delle origini nelle terre del sacro Gange, dove nacque l’Induismo. Dal 1995 al 2000 Nomachi accede alle più sacre città dell’Islam e viaggia per cinque anni in Arabia Saudita, avendo l’opportunità di fotografare il grande pellegrinaggio annuale alla Mecca e a Medina.

È stato così il primo a documentare in modo così ampio e approfondito il prodigioso pellegrinaggio di oltre 2 milioni di musulmani verso la loro città santa, la Mecca. Dal 2002 visita anche gli altopiani delle Ande, il Perù e la Bolivia, per indagare l’intreccio fra cattolicesimo e civiltà Inca, ricerca che prosegue a tutt’oggi.

Raccolte in 12 grandi edizioni antologiche, le sue fotografie sono pubblicate in tutto il mondo e appaiono nelle principali riviste di fotografia, come The National  Geographic, Stern e GEO. I lavori realizzati nel Sahara, lungo il Nilo, in Etiopia, in Tibet e in Arabia, hanno suscitato negli anni una grande ammirazione, anche nei paesi occidentali e hanno vinto numerosi premi, tra cui l’Annual Award of the Photographic Society del Giappone nel 1990 e nel 1997 e, nel 2009, la Medal of Honor with Purple Ribbon (riconoscimento del governo giapponese per meriti accademici o artistici).

Nel 2005 i suoi 30 anni di attività vengono presentati  in una grande mostra dal titolo Il pellegrinaggio del fotografo, un viaggio attraverso le “preghiere” che l’obiettivo di Nomachi ha raccolto in ogni parte del mondo.

La mostra è resa possibile dall’accordo sottoscritto da Civita con l’artista per l’organizzazione di eventi espositivi in Italia e in Europa. Nella prima sede a Roma, un sorprendente allestimento, progettato da Peter Bottazzi per gli spazi espositivi della Pelanda, propone ai visitatori un percorso affascinante e coinvolgente. Titta Buongiorno con Volume ha progettato le luci. Canon ha curato tutte le stampe, garantendo una straordinaria qualità delle riproduzioni. Il catalogo è pubblicato da National Geographic Italia.

La mostra è promossa dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, dal MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma e da Civita, con il sostegno di Canon e con la collaborazione di Crevis e della Fondazione Italia Giappone.

 Nomachi. Le vie del sacro

La Pelanda – Centro di Produzione Culturale, Roma, Piazza Orazio Giustiniani, 4; da martedì a venerdì dalle 16,00 alle 22,00; sabato e domenica dalle 11,00 alle 22,00 (l’ingresso è consentito fino alle ore 21.00); chiuso il lunedì, 24, 25, 31 dicembre 2013 e 1 gennaio, 1° maggio 2014.

Biglietti: intero € 10,00, ridotto € 8,00 per minori di 18 e maggiori di 65 anni, gruppi di oltre 15 persone, universitari con tesserino e titolari di apposite convenzioni; ridotto speciale € 4,00 per gruppi di studenti delle scuole elementari, medie e superiori; gratuito per minori di 6 anni, due insegnanti accompagnatori per classe, giornalisti con tesserino, disabili con un accompagnatore.

Articolo di Barbara Izzo e Arianna Diana

 

 

Una storia americana. Gordon Parks a Palazzo Incontro

È stata inaugurata il 5 dicembre a Palazzo Incontro, a Roma, la mostra dedicata a Gordon Parks, un progetto realizzato dalla Gordon Parks Foundatione di New York, in collaborazione con la Fondazione Formia per la Fotografia, promosso salla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio. Gordon Parks è un narratore unico dell’America, in grado con il suo apparecchio fotografico e la sua capacità di comprendere e scavare dentro le pieghe della società, rivelare le ingiustizie e i soprusi, portare alla luce la storia di chi non aveva voce per gridare la propria storia. Tra i fotografi più importanti del ventesimo secolo, dagli anni Quaranta fino alla sua morte, nel 2006, Parks ha raccontato al mondo, soprattutto attraverso le pagine della rivista Life, la difficoltà di esser nero in un mondo di bianchi, la segregazione, la povertà, i pregiudizi, ma anche i grandi interpreti del ventesimo secolo, il mondo della moda e perfino le grandi personalità del mondo in pieno cambiamento, come Malcom X, Muhammed Ali e Martin Luther King.

La mostra a cura di Alessandra Mauro, è accompagnata da un volume edito da Contrasto e resterà aperta sino al 16 febbraio 2014.

L’esposizione è anche l’occasione per festeggiare i 3 anni dall’apertura di Palazzo Incontro che, voluto con determinazione dal Presidente Nicola Zingaretti, rappresenta il luogo dove il Progetto ABC Arte Bellezza e Cultura, ideato dalla Provincia di Roma e da Civita, ha avuto la sua consacrazione. Oggi il Palazzo è diventato un luogo di tendenza che ha ampliato, qualificandola, l’offerta culturale della Capitale rispondendo alle sollecitazioni e alle aspettative di un pubblico singolare, curioso, attento, esigente, giovane e per nulla usuale per consumi e fruizione di eventi.

Articolo di Barbara Izzo

L’ultima ruota del carro. Il film di Veronesi

Un bel film, quello proposto da Giovanni Veronesi, su sceneggiatura di Ugo Chiti, Filippo Bologna, Ernesto Fioretti e lo stesso Veronesi, con un buon cast d’attori: Elio Germano, Alessandra Mastronardi, Ricky Memphis, Sergio Rubini, Virginia Raffaele, Alessandro Haber. E Francesca Antonelli, Maurizio Battista, Francesca D’Aloia, Luis Molteni, Dalila Di Lazzaro, Ubaldo Pantani, Massimo Wertmüller ed Elena Di Cioccio. Il film è stato presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2013.

Sono sempre molto critica nei confronti del cinema di casa, quel cinema italiano ma più spesso definito “all’italiana” che potrebbe anche essere sminutivo o svilente, riferito ad un modo di fare e di intendere raffazzonato o superficiale, o comico ma non della miglior specie. E sappiamo che i nostri film, proprio all’italiana, hanno fatto e fanno scuola e sono dei capolavori. Tuttavia mi sento sempre propensa ad osservarli con un occhio forse più severo del solito. E mi trovo, come da aspettative del resto, con una pellicola davvero ottima, ben articolata, con un’italianità fotografata nei suoi pregi e difetti, ben calibrati e ponderati, con l’ingenuità che permette di superare le avversità più cupe e la forza che contraddistingue anche l’italiano più anonimo.

Il protagonista è Ernesto, un valente “uomo qualunque” che cerca di realizzare la propria vita secondo le proprie aspirazioni, attratto da chi ha successo e  sembra sempre sulla cresta dell’onda, ma in fondo incapace di emularlo, conscio delle proprie capacità e dei propri limiti. La semplicità di Ernesto è disarmante: fa ridere e identificare, non già per l’imbranitudine che a volte lo caratterizza, ma perché è il testimone di vicende italiane delle quali siamo stati tutti protagonisti, inconsci che adesso quei fatti si studiano a scuola. Il protagonista si prende i classici scapaccioni dal padre, con il quale finisce per lavorare nell’impresa di tappezziere di famiglia, e nel modo in cui sale scale e scale di palazzi simbolo dell’Italia del benessere e poi del boom economico degli anni Settanta, si vede il modo in cui l’Italia anonima, quella delle persone che ogni giorno escono di casa per andare al lavoro senza che di loro si parli sulle pagine dei giornali, se non come massa di cittadini, ha creato l’Italia stessa. Ernesto è colui che costruisce il Paese trasportando rotoli di stoffa da parati, lamentandosi con il padre perché ha parcheggiato in divieto di sosta. È l’uomo onesto, che forse grazie a qualche scappellotto, ha imparato i valori, che ora contesta al padre che non li segue. E quel parcheggio in divieto è un cruccio al quale sembra che la maggior parte degli abitanti della città, Roma, non faccia caso. Poi il colpo di scena. Ci sono carabinieri dappertutto e l’auto in divieto bisogna spostarla. È proprio dietro una Renault e padre e figlio, al termine del loro lavoro in un appartamento da riadattare, si trovano sequestrati all’interno del palazzo per chissà che motivo. Polizia dappertutto, incapacità di comprendere e poi, alla TV, il servizio giornalistico. Papà aveva parcheggiato l’automobile dietro quella nella quale c’era il corpo senza vita di Aldo Moro. Questa scena è una delle più emblematiche di una storia di vita normale sullo scenario della Storia con la S maiuscola. Ernesto non ci crede che abbiano ucciso lo statista e non si rende conto appieno di quanto sta accadendo. Si accontenta di condividere con la moglie Angela un piccolo appartamento dapprima con i mobiletti scompagnati in cucina e il lavandino di ceramica, poi sempre meglio arredato, con un arredamento che segue i periodi e i cambiamenti della famiglia e dell’Italia tutta. Testimone muto propri l’arredamento di qualcosa che svicola dalle classifiche dei Paesi, dell’economia, ma è vita vissuta. Con l’arte di adattarsi ai cambiamenti del Paese stesso. Ad un certo punto, Ernesto Fioretti, che non ha mai smesso di tifare Roma, infondendo ai figli quell’amore, decide di emanciparsi dal padre e di mettersi in attività in proprio. Sarà con lui il migliore amico con il quale inizierà a salire altre rampe di scale, sempre più alte: sono quelle dei palazzi del potere e del nuovo benessere e non si trasporta più stoffa da parati, o divani rifatti, ma lavatrici, televisioni. È l’Italia che cambia, che diventa forse più certa di sé, e l’attività prospera, con un furgone telato con la scritta del proprio nome: Trasporti Fioretti.

Sembra che trasportando il peso degli oggetti il protagonista si senta davvero partecipe della costruzione del proprio Paese, oltre che della propria famiglia, che ora è composta da quattro persone, più il parentado allargato che irrompe nella storia in modo tragicomico.

Finché il fedele Giacinto, amico di sempre, non si stanca dei pesi e dello sbarcare il lunario e decide di mettersi in altri affari. Lui avrà prima la bella auto e poi la bella moto, sarà in società e poi agli arresti, e rappresenterà per tutta la vita il simbolo del successo. Ernesto non ce la farà mai a raggiungerlo quel successo, ma sarà anche l’onesto dalla faccia da tonto che strapperà alla platea un sacco di risate. Grazie ad un fantomatico conoscente, infatti, la famiglia di Angela riesce a far partecipare Ernesto alla selezione per diventare cuoco in un asilo. Ernesto non sa cucinare, ma riesce ad avere il posto. “È un posto fisso”, lo esortano un po’ tutti, convinti che ormai la carriera del marito-genero-cognato abbia raggiunto l’apice. Ernesto, poco convinto, diventa cuoco e, naturalmente combina un disastro. Si convince che non può accettare il compromesso e si dimette, tornando a trasportare mobili e altro. Nel frattempo diventa sempre più amico di un artista pazzo, che viaggia per il suo atelier in bicicletta per mantenersi in forma e gli insegna la vita dal punto di vista più eclettico e, quindi, consono alla vita stessa. È la grande interpretazione di Haber che dona al testo del film un ché di originale, forse scontato ma adatto al contesto nel suo insieme. La stravaganza dell’artista accompagnerà Ernesto anche nella sua attività a fianco di Giacinto, firmatario (o forse no) di un’impresa della quale diventa socio (o forse no). E quando gli agenti della Guardia di Finanza entreranno in un blitz a sequestrare tutti i documenti e ad arrestare tutte le persone dell’azienda, l’unico cruccio di Ernesto è di non essere stato arrestato con gli altri. Allora non era vero: lui non era del quadro dirigente. Non valeva niente. Era l’ultima ruota del carro, non buono neanche per un arresto e rilascio. La scena di Ernesto e Angela che, in camera da letto, affrontano il tema del mancato arresto è davvero divertente e tragica allo stesso tempo, mentre poi l’impresa di trasporti arriva a scaricare merce a Milano, quella dei manifesti con Berlusconi sorridente. Giacinto esce dal carcere ed entra nella nuova impresa di Forza Italia, dopo il lancio di monetine a Craxi e mentre il nostro protagonista deve affrontare una triste verità. Non può continuare a trasportare merci in spalla o sulla schiena. Rimane bloccato per dolori, davanti al fatto compiuto che niente per lui è cambiato mentre è cambiato tutto intorno a lui. Eppure quel suo lento incedere per le scale dei palazzi, rigorosamente senza usare l’ascensore, metafora di chi non cerca vie facili per l’incedere della propria vita, è stato la crescita dell’Italia. Guarirà per poi dover affrontare un altro aspetto della nostra Italia. La malasanità o, preferisco dire, la sanità dell’indifferenza. Ernesto ha un tumore, ma il vetrino della sua sentenza di morte è quasi più importante di lui persona. Sarà l’amicizia di Giacinto che gli troverà un medico disposto a rivedere le analisi e ad affrontare un nuovo consulto che stabilirà la verità vera. La gioia del nostro e della sua famiglia dinanzi allo scampato male del secolo, diventa la gioia di tutti in sala, ormai partecipi di una vicenda quasi familiare, nella quale ciascuno si può trovare protagonista. La famiglia è quell’insieme di persone in spiaggia a cercare di giocare la propria partita, mentre i fasti dei mondiali si spengono dietro la nuova serie di rigori che la vita mette dinanzi. E poi? Poi il miraggio tutto italiano della lotteria. Il biglietto vincente è finito nella discarica che è la vergogna alle porte della capitale e dentro alla quale Ernesto va a cercare un foglietto che la moglie, presa dalla mania dell’ordine, ha buttato via. I soldi che costituiscono il senso della vita di oggi, se ci sono o se mancano, sembrano cancellare in un attimo trent’anni di vita insieme, per poi arrivare al dolce epilogo del film, recupero dei valori veri sui quali Ernesto, consapevole o no, ha fondato la propria esistenza.

Lo spunto del film, tanto che il nome del protagonista è quello di uno degli sceneggiatori, è preso dalla vita vera di Ernesto Fioretti.

Fioretti è l’autista di Veronesi, come di molti altri registi e attori del cinema italiano, e la riuscita del film sta proprio nel voler raccontare la vita di chi ha attraversato le varie fasi della storia italiana in coincidenza con gli alti e bassi del Paese. Fioretti appare brevemente nel film nel ruolo di sacrestano, di colui, cioè, che sta come comparsa mentre gli altri vivono il momento più bello e importante della propria vita. Altra forza del film è non cercare il retroscena intellettuale della politica e dell’economia italiane degli ultimi decenni, ma semplicemente raccontare l’Italia per quella che è e che è stata, dando voce alla gente comune che l’ha costruita davvero, gradino dopo gradino, mentre alcuni personaggi spariscono dopo una parabola più o meno duratura.

“L’ultima ruota del carro” sembra la celebrazione di chi vorrebbe sì facilitazioni, ben consapevole che queste sono solo in certi momenti dell’esistenza, quelli più veri: la famiglia, la salute, la morte del caro amico artista che porta a piangere le lacrime più vere di tutta la storia.

Sembriamo tutti catapultati nelle “piccole cose” che non sono di pessimo gusto, anzi: lo sguardo del regista è affettuoso, accarezza la faccia un po’ tonta di Ernesto e ne fa un capolavoro di espressività, tanto che non si può non volergli bene.

Un film ben riuscito che si prestava molto a diventare un polpettone moralista, invece è un’icona del nostro Paese ben riuscita, senza incensare o demonizzare nessuno, ma con l’ambizione di raccontare l’italiano medio così come si sarebbe raccontato in una sera di ispirazione davanti al fuoco.

La commedia diventa emozione palpabile, pur se farcita da riferimenti storici precisi, a portare ciascuno degli spettatori nella sua storia personale e a ricordi che partecipano della vita osservata nel film. La vita comune per una volta non viene proposta in modo dimesso e volutamente sciatto, ma viene portata al valore che deve avere, anche con inquadrature tipiche dei tempi passati, come la fotografia di macchina a mano.

Articolo di Alessia Biasiolo

 

Paesaggi lontani e meravigliosi

Un paese favoloso era la Russia immaginata dal resto d’Europa nel corso dell’Ottocento. L’infinita distanza, i territori sconfinati, il clima estremo delle pianure ghiacciate e delle notti senza tramonto, i molti popoli dai costumi sconosciuti ne facevano un miraggio, tinteggiato dalle  suggestioni dell’Oriente. Meta avventurosa di un Grand Tour per pochi eletti, era per i più un nebuloso mistero. In una cultura come la nostra, in cui le immagini virtuali raggiungono tutti e largamente sostituiscono la realtà, è difficile comprendere come, nel corso di una storia millenaria, sia stato impossibile alla  maggior parte delle persone non solo costruirsi una visione sufficientemente credibile di luoghi lontani, ma anche semplicemente di sognarli.

Fu dunque un fenomeno di portata straordinaria quello costituito dalla circolazione delle immagini a stampa, la cui vasta produzione travolse a partire dal Settecento la civiltà occidentale, raggiungendo ampi strati della popolazione, per la quale divenne il maggior veicolo di conoscenza e il più accessibile strumento di meraviglia.

Lo capì perfettamente Giuseppe Daziaro, commerciante trentino originario della valle del Tesino, che si trasferì in Russia alla fine degli anni Venti dell’Ottocento, aprendo grandi negozi di stampe a Mosca e a San Pietroburgo. Attorno al 1840 divenne editore e iniziò a produrre decine di immagini per illustrare l’impero del nord, con la moderna tecnica della litografia, seducente ed economico sostituto della pittura. I fastosi palazzi dello zar, i giardini, i viali maestosi e le immense piazze, ma anche le usanze dei molti popoli del grande paese, ritratti fra satira e realtà, furono diffusi in tutta Europa,  incontrando i desideri di un vastissimo pubblico.

Proprio da Mosca, dal prestigioso Museo Puškin , giunge ora in Italia un prezioso  gruppo di stampe, dai soggetti affascinanti e curiosi, facendo a ritroso la strada un tempo percorsa  dalla caparbia e intraprendente famiglia Daziaro, tanto avventurosa quanto legata alla sua terra d’origine.

La mostra “Paesaggi  lontani  e  meravigliosi”, organizzata dal museo del Castello del Buonconsiglio in collaborazione con il museo russo e con il Centro Tesino di Cultura, illustra così una singolare pagina di storia, esponendo una selezione delle immagini che contribuirono a diffondere la conoscenza di un mondo irraggiungibile.

La mostra si svolge nelle sale espositive del terzo piano di Castelvecchio, la parte più antica del Castello del Buonconsiglio, e comprende oltre cento stampe di particolare interesse, scelte tra quelle presenti nel museo Puskin di Mosca e nelle collezioni del Buonconsiglio. Si tratta di vedute delle principali città dell’impero zarista, affiancate da un interessante nucleo di illustrazioni di costumi russi, che, da un mondo ancora irraggiungibile e misterioso, posto al confine tra l’Europa e l’Oriente, portarono in Occidente, alla metà dell’Ottocento,  immagini nitide e seducenti, che univano la certezza della veduta prospettica al fascino di architetture ed usanze sconosciute.

Paesaggi  lontani  e  meravigliosi. L’antica  Russia nelle stampe tesine del Museo Puškin  di Mosca.

Trento, Castello del Buonconsiglio, dal 20 dicembre 2013 al 4 maggio 2014.

Articolo de Castello del Buonconsiglio

 

David Greilsammer. Il mio debutto a Roma

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Presentare per la prima volta al pubblico romano giovani talenti destinati a un grande avvenire è da sempre una “specialità” della IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti) ma quello di David Greilsammer nell’Aula Magna della Sapienza (Piazzale Aldo Moro, 5), martedì 17 dicembre alle 20.30, sarà un debutto molto particolare, perché non si tratta di un giovane sconosciuto, ma di un pianista già famoso in mezzo mondo, che incredibilmente finora non ha mai suonato a Roma.

Greilsammer, nato in Israele trentasei anni fa, è considerato uno dei musicisti più affascinanti, audaci e visionari della sua generazione. Non è soltanto un musicista completo (è direttore d’orchestra oltre che pianista), ma i suoi interessi si estendono anche alle altre arti e sta realizzando una serie di progetti innovativi in spazi insoliti, collaborando anche con famosi performer di ogni campo artistico e creando programmi interattivi di musica per un pubblico giovane.

Si è guadagnato fama internazionale anche per il suo approccio alla musica intelligente ed audace e con i suoi programmi fuori dai canoni affascina il pubblico e la critica, che ne ha lodato la sensibilità, la freschezza e l’eleganza (il New York Times ha definito “exquisite” uno di questi suoi programmi). Nei suoi concerti musiche ed autori non sono infatti ordinati secondo un criterio accademico e si susseguono in un apparente disordine, secondo una libera associazione di caratteri, stili ed epoche diverse. Il programma del suo concerto romano è formato da dieci pezzi di cinque secoli diversi, dal diciassettesimo al ventunesimo. Greilsammer inizia con uno dei suoi autori prediletti, Wolfgang Amadeus Mozart, di cui ha eseguito tutti i Concerti per pianoforte e  orchestra in giro per il mondo e tutte le Sonate per pianoforte in un concerto maratona a Parigi: ma tra la Fantasia in do minore K. 475 e la Sonata in do minore K. 457 di Mozart inserisce Piano piece, un brano di Morton Feldman, protagonista insieme a John Cage della musica americana della seconda metà del ventesimo secolo. Poi passa alle eleganze rococò delle Barricades misterieuse di François Couperin e di nuovo salta al Novecento con Musica recercata n. 8 di György Ligeti.

Dopo una sosta con uno dei più noti pezzi pianistici del periodo romantico, il dolcissimo Impromptu in sol bemolle maggiore op. 90 n. 3 di Franz Schubert, Greilsammer torna indietro fino al Seicento di Johann Jakob Froberger, uno di più grandi clavicembalisti del suo tempo, che fuse le scuole tedesca, italiana e francese e a sua volta influenzò Bach. Poi passa a Wiegenmusik del nostro contemporaneo Helmut Lachenmann, musicista amatissimo ma anche controverso per la sua concezione radicale e utopica di una musica spoglia e depurata di espressività, che è stata definita “minerale”.

Con un’ultima giravolta Greilsammer chiude il concerto accostando la Suite in re minor HWV 447 del grande Georg Friedrich Haendel alla prima esecuzione italiana di WHAAM! dell’israeliano Matan Porat, che si è ispirato a un quadro di Roy Lichtenstein.

Programma della serata

Mozart Fantasia in do minore K.475

Feldman Piano Piece

Mozart Sonata in do minore K.457

Couperin Les Barricades Mystérieuses

Ligeti Musica Ricercata n. 8

Schubert Impromptu in sol bemolle maggiore op. 90 n. 3

Froberger Tombeau de Monsieur Blanchecroche

Lachenmann Wiegenmusik

Haendel Suite in re minor HWV 447

Porat Whaam! (prima italiana)

 

Biglietto intero dai 15,00 ai 25,00 euro; ridotto dai 12,00 ai 20,00 euro; under 30 8,00 euro; under 14 5,00 euro.

 

David Greilsammer pianista e direttore

Nato a Gerusalemme nel 1977, Greilsammer ha iniziato lo studio del pianoforte al Conservatorio Rubin della sua città e si è poi trasferito alla Juilliard School di New York, dove ha studiato prima con Yoheved Kaplinsky, e poi con Richard Goode.

Pianista e direttore, David Greilsammer è considerato uno tra i più affascinanti, audaci e visionari artisti della sua generazione.

Dopo il suo concerto di debutto nel 2004 al Lincoln Center di New York, è stato nominato ‘Giovane Musicista dell’Anno” ai Premi della Musica francesi nel 2008 e si è guadagnato fama internazionale per il suo approccio alla musica intelligente ed audace. Le esibizioni di Greilsammer con i loro programmi insoliti e affascinanti colpiscono il pubblico e la critica, che ne ha lodato la sensibilità, la freschezza e l’eleganza.

Dal 2009, David Greilsammer è Direttore Musicale dell’Orchestra da Camera di Ginevra, la cui fama internazionale si sta rapidamente sviluppando sotto la sua guida. Greilsammer non solo sta portando una grande varietà ed ecletticità nel repertorio dell’orchestra – incluse tre prime mondiali in questa stagione – ma sta anche realizzando una serie di progetti innovativi in nuove sale insolite, collaborando anche con famosi performers di ogni campo artistico e creando programmi interattivi di musica per un pubblico giovane .  Lo scorso giugno la stampa ha definito la partecipazione dell’Orchestra da Camera di Ginevra al Festival di Istanbul come “sublime”.

La scorsa stagione ha visto David Greilsammer e la sua Orchestra di Ginevra dare inizio ad una collaborazione che si prolungherà negli anni con il parigino Teatro della Gaîté lyrique – luogo deputato per le nuove arti –  dove insieme presentano ogni stagione una serie di concerti in cui si mescolano danza, teatro, video e musica e in cui Greilsammer appare come pianista, direttore e musicista di gruppi da camera.

David è Direttore Artistico dello Suedama Ensemble di New York, con cui nel 2006 incise i Concerti giovanili di Mozart, diretti dal piano. Il successo notevole di questo disco è stato immediatamente seguito da un contratto di esclusiva con Naïve Records e da tre nuove incisioni: un cd di piano solo intitolato “fantaisie_fantasme”, selezionato dal Sunday Times come uno dei “Records of the Year”del 2007; un’incisione degli ultimi Concerti di Mozart molto festeggiata dalla critica e una registrazione live con l’Orchestre Philharmonique di Radio France dalla Salle Pleyel di Parigi, in cui Greilsammer esegue l’ingiustamente dimenticata “Fantasia per Pianoforte e Orchestra” di Nadia Boulanger, insieme alla Rhapsody in Blue di Gershwin.

Nel 2011 David Greilsammer ha firmato un contratto di esclusiva con Sony Classical; il suo primo cd per questa etichetta è un recital di opere barocche e contemporane “Baroque Conversations”, pubblicato nella primavera 2012 ed è di imminete pubblicazione un nuovo disco.

Riconosciuto come interprete e specialista mozartiano, David Greilsammer consacra buona parte della sua attività alla musica di questo autore. Oltre ad aver suonato e diretto tutti i Concerti per pianoforte di Mozart in giro per il mondo, ha anche suonato il ciclo completo delle Sonate mozartiane in un’unica esecuzione maratona a Parigi e al Festival di Verbier.

Le ultime due stagioni hanno visto un numero importante di debutti internazionali di David: concerti con la San Francisco Symphony; con l’Orchestra del Mozarteum di Salisburgo sotto la direzione di Ivor Bolton alle Mozartwoche; con la Tokyo Metropolitan Symphony Orchestra alla Suntory Hall. E’ stato anche direttore e solista dell’ Orchestra Filarmonica di Torino e della Israel Chamber Orchestra a Tel Aviv.

Come solista David Greilsammer ha suonato al Lincoln Center di New York un programma intitolato “Gates”, e definito dal New York Times come “exquisite”, ha suonato in recital alla Wigmore Hall di Londra, ha debuttato in recital a Tokyo.

Greilsammer nei suoi programmi spesso contrappone opere del passato e del presente. al Kings Place di Londra la scorsa stagione ha proposto un programma in cui alternava Sonate di  Cage e di Scarlatti, e per il suo ritorno a Londra questa stagione suonerà un programma intitolato “Dancing Through Time”.

Articolo di Mauro Mariani

 

 

 

Ballando col piano. Le origini del Valzer

In tedesco walzen vuol dire rigirarsi (in inglese il termine corrispondente è waltz); e quindi il termine walzer indicava una serie di giravolte eseguite in perfetta armonia con le basi musicali.

Il Valzer deriva da alcune danze di origine austriaca e bavarese, come il Dreher (da ‘sich drehen’ girare su se stessi), il Landaus, la Deutsche, lo Yodler e soprattutto il Ländler, una danza popolare, oltre che da numerose altre forme di danza molto antiche e della più diversa provenienza come la Volte francese, la Sarabanda, il Canario, la Country inglese, l’Ecossaise.

Il Ländler era originariamente una danza di campagna o Contraddanza (deformazione dell’inglese Country dance) dall’andamento moderato e ritmicamente molto marcato, assai diverso dall’eleganza leziosa del Minuetto di origine aristocratica. Era già praticamente il Valzer, ed era diffuso nelle campagne sin dalla metà del ‘700. Finché erano contadini a ballare volteggiando abbracciati belli stretti, nessuno aveva molto da ridire; ma il Ländler arrivò a Vienna, dove venne adottato dalla borghesia. Mentre la borghesia aggiungeva gaudiosamente il Ländler alle proprie debosce, i ricevimenti della nobiltà si attenevano a un rigido protocollo. Si ballavano esclusivamente danze piuttosto noiose (e sessualmente innocue) come il Minuetto, la Scozzese e la Polacca. Le feste dei nobili, diversamente da quelle dei borghesi, non avevano fini di puro divertimento, ma ragioni molto più utilitarie: erano occasioni per imbastire trame politiche, combinare matrimoni, organizzare manovre finanziarie, oltre che dimostrare che chi le organizzava era potente. Dopo il Congresso di Vienna, 1815, la crema della politica e della nobiltà europea si concentrò in massa nella capitale dell’impero austroungarico per spartirsi la torta postnapoleonica. Fu un’epoca di frenesia teatrale, operistica e di concerti pubblici, e naturalmente la nobiltà locale fece a gara a chi dava la festa più ricca. Non si sa in quale palazzo risuonò il primo Ländler, ma questo ballo diventò di moda in pochi giorni.

Il Ländler era una specie di incontro ravvicinato del terzo tipo, tanto sconcio per l’epoca che l’Arcivescovo di Vienna emanò una bolla con la quale proibiva di ballarlo sotto pena di scomunica.

D’altro canto, ormai la nuova danza aveva preso definitivamente piede negli ambienti più esclusivi in sole 2 o 3 settimane perché ci si potesse rinunciare. Si ricorse quindi a un immediato escamotage: si cambiò il nome alla danza (“Non stiamo ballando il Ländler, stiamo ballando il Valzer, quindi niente scomunica!”). Per l’Arcivescovo fu una sconfitta tremenda.

Con l’affermarsi della borghesia il Valzer divenne una danza propriamente cittadina, più veloce ed elegante rispetto al Ländler e dal ritmo meno marcato. Questo ballo divenne in tal modo il sigillo di una civiltà complessa che cercava rifugio nella leggerezza e che chiedeva in primo luogo di scansare il dramma e la tragedia. Forse per questo un attempato burocrate asburgico poté dire che in fondo l’impero di Francesco Giuseppe aveva cessato realmente di esistere già con la morte di Strauss, come se quel mondo danubiano dal quale è nata tanta parte della più ardua e severa intelligenza moderna potesse riconoscersi soprattutto nella grazia superficiale e spumeggiante de Sul Bel Danubio blu. In quel suo ritmo circolare di una gioia che sempre fugge per sempre tornare, ma più tenue e lontana, il Valzer aveva fuso i due stati d’animo, apparentemente antitetici ma strettamente connessi, con i quali l’Austria presagiva e fingeva di ignorare la propria fine: lo scetticismo e la nostalgia.

Verso la fine del XVIII secolo il Valzer prese a diffondersi rapidamente in tutta Europa: non esistono, ad esempio, dei Valzer nel ricco repertorio mozartiano, a meno che non si vadano a ricercare nella lunga lista di opere di dubbia attribuzione. I 12 Valzer composti da Haydn nel 1792 e quelli composti da Beethoven nel 1795 recano ancora il titolo di Contraddanze; la forma vi è semplicissima: 2 periodi di 8 battute con ritornello, il melodizzare elementare ma gradevole, l’armonia ridotta all’essenziale.

Sviluppi e ascesa del Valzer

Il termine Valzer appare fra le prime volte in un’opera buffa di Martin Y Soler dal titolo La cosa rara, rappresentata a Vienna nel 1786. Fu anche il successo di quest’opera che contribuì alla irresistibile ascesa di questi brani. Per la loro grande semplicità, i compositori tenevano in scarsa considerazione questo genere, considerandolo privo di ogni pretesa artistica; gli editori tuttavia richiedevano con insistenza questo ballo, cominciando ad intravedere in esso una sicura fonte di guadagno. Spontaneamente il Valzer diventò un prodotto di consumo e per tutto il diciannovesimo secolo non ci furono compositori tanto grandi da disdegnare di contribuire a soddisfare la richiesta.

Sul piano strutturale la musica del Valzer ebbe una svolta importante grazie a Hummel che costruì una forma più complessa di componimento formato da tre elementi fissi: introduzione, Valzer vero e proprio, coda.

Il Valzer di Hummel era meglio articolato, con periodi (di 48 battiti) ben collegati fra loro. Forse senza volerlo, Hummel diede inizio alla fase della maturità del Valzer che diventò espressione artistica di alto livello. A partire dalle sue opere si attivarono in parallelo due percorsi musicali separati: il Valzer ballabile ed il Valzer colto, ovvero pura composizione.

Nell’ambito del ballabile coesistevano il Lento e l’Allegro. La composizione dell’orchestra era predeterminata dalla scelta del genere musicale. Per i brani ballabili era sufficiente un’orchestra ‘leggera’, quella che oggi chiameremmo orchestrina. Il filone del Valzer ballabile si sviluppò in modo particolare a Vienna dove ebbe interpreti illustri come i Lanner e gli Strauss.

Gli Strauss e il Valzer viennese

La famiglia Strauss divenne la regina del Valzer in tutta Europa, spingendo la propria fama sino in America. Attorno ai prolifici Strauss: Lanner e Liszt, Chopin, Czerny. Fu grazie a questi due musicisti padre e figlio che da genere disprezzato artisticamente, tanto che Mozart scrisse un libello dal titolo “Introduzione per comporre quanti Valzer si vuole per mezzo di due dadi, senza sapere nulla di musica o di composizione”, questo ballo ottenne stima e consensi.

Johann Strauss Senior (Vienna, 1804-1849), detto il “Padre del Valzer”, studiò violino ed armonia, suonò come orchestrale e si unì nel 1823 al quartetto Lanner, dove si distinse ben presto come eccelso violinista. In soli sei anni ebbe fama in tutta Europa con una sua orchestra personale. La musica di Lanner era di tipo diverso da quella di Strauss: era più lirica, mentre quella di Strauss era focosa, piena di brio, spettacolare; Strauss non dimenticava mai che stava componendo musica da ballo, anche quando l’ampliò creando il Valzer da concerto. Tra le sue composizioni più importanti vi sono Loreley-Rhein-Klange, il Cacilien Valzer, I cigni e la celeberrima Marcia di Radetzky. Nella sua ricca produzione asrtistica, oltre a Polke, Quadriglie, Marce e Galoppi, si contano più di 150 Valzer. Egli riuscì in tal modo a stabilizzare lo stile di questo ballo così popolare.

Se Johann Strauss Senior è stato il “Padre del Valzer” il figlio fu denominato il “Re del Valzer”. Infatti, a soli 19 anni esordì in pubblico come direttore d’orchestra in un noto albergo di Vienna. Nel 1849, dopo la morte del padre, assunse i suoi orchestrali  fondendoli con i propri, creando in tal modo una grande orchestra che si esibì con successo in Europa e in America. Come già accaduto ad Haydn, anche per lui la fama  internazionale arrivò a Parigi quando presentò per la prima volta l’ormai celeberrimo Sul bel Danubio blu. Fu tale l’entusiasmo suscitato dalla sua musica che automaticamente scoppiò anche in questa città la febbre per il nuovo ballo. Questo che risulta il più affascinante e famoso dei 170 Valzer da lui composti, divenne il simbolo stesso del Valzer. Da sottolineare, come lo stesso brano aveva avuto a Vienna una tiepida accoglienza, essendo questo un Valzer da concerto, difficile da ballare come tutte le solenni melodie caratterizzate da pause numerose e lunghe introduzioni. Sul bel Danubio blu invece non è solamente musica da ballo Con le introduzioni e le code elaborate, l’ispirazione melodica, l’orchestrazione delicatamente adattata, il ritmo raffinato e sottile, è un autentico contributo al grande repertorio musicale. Non stupisce che Brahms scrivesse di suo pugno sul ventaglio di Frau Strauss le prime battute di questa composizione e aggiungesse, firmando: «Ahimè, non è di Johannes Brahms ».

Strauss dimostrò con le sue opere (tra cui ricordiamo anche Storie del bosco viennese, Vita d’artista, Sangue viennese, nonché le operette Il carnevale di Roma, Una notte a Venezia e Lo zingaro barone) come un artista potesse muoversi con finezza in quello spazio intermedio fra l’arte e il consumo, inaugurando il periodo di massimo splendore e la definitiva affermazione del Valzer come ballo. Questi, da grande e raffinato artista qual era, si propose di adattare la musica del Valzer ai valori mondani del suo tempo. Con questo proposito  si allontanò sempre di più dalla dimensione classica di Beethoven o romantica di Weber e Schubert per creare una sintesi perfetta tra momento musicale e momento di danza.

Con l’avvento dell’Operetta, il Valzer del filone ‘ballabile’ sviluppò maggiormente i valori melodici più che artistici. Contemporaneamente, l’altro filone spiccava il volo verso valori ideali fino a sfociare nella lirica pura, attraverso la musica dotta di Berlioz (Damnation de Faust) e Gounod (Faust), Liszt (Mephisto), Tchaikovsky (La Bella Addormentata nel bosco), cui si devono aggiungere brani prettamente strumentali di Chopin, Brahms, Schmitt, Ravel e da ultimo Stravinskij.

Il Valzer in Italia

Anche nella vita musicale italiana di fine Ottocento (come nella Vienna dei Valzer e nella Parigi dei café-chantant) acquistarono sempre maggiore importanza alcuni generi “leggeri” o di “evasione”. Iniziava così  la stagione italiana dell’Operetta, tributaria di quella viennese per la fastosità dei Valzer, proposti nella penisola dalla Sonzogno Editrice che si era appropriata dei diritti per le Operette di Hervé, Lecocq e Offenbach.

Si cimentarono allora, con queste musiche, autori quali Verdi, Rossini e Puccini.

Il primo sfruttò questi ritmi nelle opere, come nel gioioso brindisi all’inizio della Traviata. Era andato invece disperso il suo Valzer in fa maggiore, una brillante opera giovanile di grande valore ritrovata da Nino Rota presso un antiquario romano e orchestrata per la colonna sonora del celebre film Il gattopardo di Luchino Visconti.

Rossini fu artefice di Valzer poco conosciuti, ma molto sofisticati; fra le composizioni minori di Puccini, di cui l’anno scorso abbiamo ricordato il centocinquantenario dalla nascita, sottolineiamo il Piccolo Valzer, scritto nel 1894. Da quella melodia sarebbe derivato il quartetto del III atto della Bohème, il sensuale assolo di Musetta Quando me n’vo.

Ricordiamo anche le opere di Leoncavallo che ci riportano all’elegante e delicata atmosfera salottiera del primo ‘900, mantenendo però una melodia molto coinvolgente. Emblematico risulta, tra le altre composizioni del musicista, il Valse mélancolique dove un triste episodio assume sfumature drammatiche sino al grandioso ed imponente finale. Abbiamo già ascoltato un’altra sua composizione: il Valse coquette, scritto come dedica a Madame Hélène Mayer Cohn; in cui riecheggiano sfumature proprie dell’elegante atmosfera dei salotti parigini.

Per sottolineare l’importanza e la popolarità che il Valzer aveva ben presto raggiunto nella belle-epoque italiana basti ricordare come una delle più belle composizioni di Giordano fosse stata commissionata nel 1907 dall’editore Hachette come colonna sonora della pubblicità dell’omonimo prufumo Violettes de Parme, un Valzer sentimentale piuttosto ampio, con venature di patetico che rimandano alla cultura francese.

Il Valzer nel mondo

Questo genere musicale, a seconda delle aree geografiche, fu interpretato o nella forma moderata o nella versione allegra.

In America venne elaborato nella forma moderata. A livello musicale si arrivò a dimezzare il numero di battute al minuto. Con un ritmo molto più lento cambiò di conseguenza la stessa tecnica del ballo. Furono inventate delle figure ad ampio raggio eseguibili con passi strisciati sul pavimento. Ne nacque un nuovo ballo che fu chiamato Boston (proprio dal nome della città americana dove ebbe la sua più grande affermazione). Verso il 1890 il Boston fu portato in Europa. In verità, qui non ebbe immediatamente un grandissimo successo, anche perché si era radicata l’abitudine a ballare il Valzer veloce (Viennese o tradizionale). Qui il Boston assunse degli aspetti esasperati, fino ad arrivare a passi figurati ed esitati. Attraverso l’introduzione di pause e rallentamenti, con l’obiettivo di imprimere un tocco artistico alla danza, nacque il Boston Figurato anche detto Hesitation.

In particolare, in Inghilterra il Valzer Viennese fu portato già nel secondo decennio del XIX secolo dai nobili che viaggiavano per l’Europa; ma per via della cultura puritana, non lo si poteva riproporre nella sua forma originale. Per questo motivo i maestri di ballo si ingegnarono in tutti i modi per renderlo compatibile con i costumi della loro società. Il ritmo fu quindi rallentato parecchio, in modo tale che le figure di coppia chiusa e l’esecuzione dei volteggi non avessero tecnicamente bisogno di uno stretto e permanente contatto dei danzatori. Dal 1830 a Londra si ballava un Valzer in due tempi che, nonostante la musica di 3/4, si articolava in due passi: un passo strisciato sul primo battito seguito da una esitazione sul secondo battito, concluso da uno chassè sul terzo battito. In tale contesto, l’Hesitation ricevette un’ottima accoglienza tanto che si giunse ad una perfetta sintesi fra la sua delicatezza spirituale e l’ispirazione poetica di fondo del Valzer, recependone la tecnica e le figure fondamentali nel Valzer Inglese che oggi conosciamo.

I seguaci di questo nuovo ballo furono moltissimi. Anche grazie a ciò, lo stile inglese trovò ulteriori conferme nel continente europeo ed ebbe facile gioco nella competizione con le impostazioni della danza di scuola francese.

Conclusioni

In sintesi si può affermare come da una volgare danza contadina si sia sviluppata una musica che in poco tempo, grazie a grandi compositori, divenne raffinata e colta, riuscendo a esprimere contemporaneamente l’arte, la moda e il commercio. A riprova di tutto ciò basti pensare come attraverso i decenni, il Valzer Viennese abbia mantenuto le sue caratteristiche peculiari e sia riuscito a sopravvivere non solo a due guerre mondiali, ma alle grandi rivoluzioni che nel corso del XX secolo si sono verificate nel mondo. E ancora non è stato dimenticato semmai è ripreso con tutto il suo vigore ridiventando di moda.

Articolo di Bruno Bertucci

 

 

 

Trentesima rassegna internazionale del presepio a Verona

Si terrà fino al 26 gennaio 2014, negli arcovoli dell’Arena, la 30ª Rassegna internazionale del Presepio nell’arte e nella tradizione, organizzata dalla Fondazione Verona per l’Arena in collaborazione con Comune e Provincia di Verona, Regione Veneto, Camera di Commercio, Conferenza Episcopale Italiana e Diocesi di Verona. La mostra è stata presentata dal consigliere comunale incaricato alla Cultura Antonia Pavesi. Presenti i consiglieri comunali Alberto Zelger e Luigi Ugoli, l’ideatore della rassegna Alfredo Troisi, monsignor Giancarlo Grandis della Diocesi di Verona, don Carlo Vanzo dei Padri Camilliani di Verona e alcuni rappresentanti degli sponsor coinvolti nell’iniziativa. La rassegna, dedicata a papa Francesco, presenta oltre 400 presepi realizzati da artisti, artigiani e appassionati provenienti da tutta Italia e da diversi Paesi del mondo. L’esposizione propone anche opere raffiguranti angeli, realizzate dall’artista croata Margareta Krstic, e diorami di artisti italiani (Ulisse D’Andrea, Franco D’Avella, Nicola Sarnicola). Ad aprire il percorso della mostra è l’opera scultorea raffigurante San Francesco, con sullo sfondo un’immagine di papa Francesco. Presenti anche opere raccolte da missionari Camilliani, ispirate alla ricorrenza del 400° anniversario dalla morte di San Camillo. Nella parte iniziale della rassegna è inoltre esposto il presepio semovente di Giacomo Randazzo, opera d’arte inserita nel Registro delle Eredità Immateriali istituito dalla Regione Sicilia a salvaguardia del patrimonio culturale dell’umanità secondo le indicazioni dell’Unesco.

Ogni regione italiana è presente all’interno della mostra con le proprie tradizioni sul presepe, mentre all’esterno non manca la stella, quest’anno rinnovata con nuove illuminazione. La rassegna rimarrà aperta tutti i giorni, festivi compresi, dalle 9 alle 20. Costo del biglietto: 7 euro intero; 6 euro ridotto per le comitive di almeno 20 persone, per bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni e per adulti di età superiore ai 60 anni; 4 euro speciale scuole. E’ inoltre previsto uno speciale “sconto famiglia”, che prevede la gratuità a partire dal secondo figlio.

Per ulteriori informazioni: segreteria rassegna tel. 045592544, info@veronaperlarena.it.

Articolo di Roberto Bolis

 

Nasce Vinitalybio

Vinitalybio è il nuovo salone specializzato dedicato ai vini biologici certificati, nato dall’accordo siglato tra Veronafiere e FederBio. La prima edizione sarà realizzata nell’ambito del 48° Vinitaly, in programma dal 6 al 9 aprile 2014.

Si tratta di un progetto per valorizzare la produzione enologica certificata secondo le norme del regolamento UE n. 203/2012 sulla produzione e l’etichettatura del vino biologico, entrato in vigore il 1° agosto dell’anno scorso.

Vinitalybio è un marchio Veronafiere e verrà realizzato in collaborazione con FederBio, che verificherà il rispetto dei requisiti degli espositori italiani ed esteri produttori di vini biologici.

«Il progetto – spiega Ettore Riello, presidente di Veronafiere – risponde alla logica dell’Ente di innovare continuamente i propri prodotti per adeguarli ai cambiamenti del mercato. Vinitalybio è una grande occasione di visibilità per le cantine biologiche italiane che rappresentano il 6,5% del vigneto nazionale con 53 mila ettari coltivati, ponendo l’Italia al secondo posto per estensione a livello mondiale. L’Italia, inoltre, con una quota del 13% rappresenta il terzo esportatore di vini bio negli Stati Uniti».

«Grazie al progettoVinitalybio afferma Paolo Carnemolla, presidente di FederBio – avremo l’opportunità di dare finalmente visibilità e voce al vino biologico certificato, che rappresenta l’unica garanzia per chi intende acquistare un vino ottenuto secondo i principi e le rigorose normative dell’UE in materia di biologico. La sua forza è quindi proprio nella certificazione, affidata a partire dalla coltivazione delle uve e fino all’imbottigliamento a organismi terzi, espressamente autorizzati dal ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Questo è l’unico requisito indispensabile per partecipare alla manifestazione e sul rispetto del quale FederBio supporterà Veronafiere con apposito personale e verifiche mirate. La certificazione biologica è del resto ormai riconosciuta a livello internazionale pure fuori dall’UE, dunque è un’opportunità straordinaria anche per il vino italiano per migliorare ulteriormente il proprio posizionamento sui mercati».

«Con l’entrata in vigore nel 2012 del regolamento sulla produzione biologica anche per il vino spiega Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere , abbiamo colto l’occasione per adeguare alla normativa europea la nostra offerta fieristica, dando uno spazio distinto alle produzioni certificate. Come tutte le iniziative che mettiamo in campo per le rassegne, anche Vinitalybio è pensato per favorire il business e per questo l’accordo con FederBio prevede anche un’attività di incoming per portare a Verona buyer provenienti dai mercati più interessanti per il consumo di vini biologici, in particolare Germania, Svizzera e Paesi Scandinavi».

Vinitalybio si configura come uno spazio espositivo ben identificato all’interno del padiglione 11, che ospiterà produttori italiani ed esteri. A loro disposizione tavoli d’assaggio organizzati per ospitare gli operatori interessati. Oltre agli stand, all’interno dello spazio dedicato verrà allestita un’enoteca, che metterà in degustazione tutti i vini biologici presenti a Vinitaly, allargando la possibilità di partecipazione a quelle aziende espositrici che, oltre ai vini prodotti con metodi convenzionali, propongono una linea bio.

Articolo di Veronafiere

Gaga Symphony Orchestra a Brescia

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Per la prima volta a Brescia, Gaga Symphony Orchestra si esibirà all’Auditorium San Barnaba, Piazzetta Arturo Benedetti Michelangeli (Corso Magenta), giovedì 12 dicembre, alle ore 20.30.

Il concerto ha scopo benefico, per assicurare un segno di Santa Lucia a chi non può permetterselo. E’ possibile effettuare una donazione tramite servizio Paypal. Info sul concerto possono essere richieste agli indirizzi comunicazione@tuotuo.it; associazionesidus@virgilio.it.

Il concerto vedrà sul palco dell’Auditorium un’orchestra in fomazione classica, composta da 45 elementi che eseguiranno meedley degli Abba, di Madonna, Disney, Lady Gaga, Jennifer Lopez e molto altro ancora. Un evento da non perdere per la spettacolarità della formazione, per il profondo significato che il concerto ha nella notte di Santa Lucia come evento promotore dell’Associazione TUO nata di recente e con un progetto di notevole spessore nel suo Statuto, di cui il concerto è simbolo perfetto per le imminenti festività.

Il Cappello fra Arte e Stravaganza

La Galleria del Costume di Palazzo Pitti, a Firenze, fino al 18 maggio 2014, apre le porte ad un accessorio destinato a non passare inosservato.

Si tratta della prima mostra monografica dedicata al cappello, le cui collezioni, patrimonio del museo – ascrivibili alla generosità di molti donatori – ammontano a oltre mille unità custodite solitamente nei depositi, di cui soltanto una parte sarà destinata alla mostra.

Pur prevalendo esemplari di note firme di casa di moda fra cui Christian Dior, Givenchy, Chanel, Yves Saint Laurent, John Rocha, Prada, Gianfranco Ferré e celebri modisti internazionali del presente e del passato come Philip Treacy, Stephen Jones, Caroline Reboux, Claude Saint-Cyr, Paulette, è anche la prima volta che sono presenti in esposizione manufatti di modisterie italiane e fiorentine, di alcune delle quali si conosceva appena l’esistenza.

Ed ecco che il cappello diviene ‘opera’ d’arte, con una sua armonia estetica cui contribuiscono la conformazione ‘scultorea’, la componente cromatica e la raffinatezza ornamentale.

Scrive il Soprintendente per il Polo Museale Fiorentino, Cristina Acidini: «E’ il cappello mutevole e soggettivo, il cappello “opera d’arte”, il cappello “oggetto di design” del Novecento e del terzo millennio, quello cui si rivolge l’attenzione di questa mostra». Un cappello che, come la Direttrice della Galleria del Costume di Palazzo Pitti Caterina Chiarelli sottolinea, può essere studiato da un punto di vista storico – artistico ma può anche essere interpretato sotto un profilo puramente estetico, prendendosi così la libertà di formulare giudizi o esprimersi mediante aggettivi omnicomprensivi quali bello, fantasioso, fantastico e divertente.

Sulla finalità didattica prevale in mostra quella ludica e questo è il messaggio che desideriamo lanciare e di cui scrive Katia Sanchioni.

La mostra annovera importanti prestiti di Cecilia Matteucci Lavarini, collezionista privata di haute couture nonché illustre donatrice della Galleria del Costume, che si caratterizzano nel percorso per valore, gusto e stile. Questa è anche l’occasione per esporre gli straordinari bozzetti realizzati appositamente dal Maestro Alberto Lattuada e per riproporre all’attenzione gli esemplari creati da Clemente Cartoni, celebre modista romano degli anni Cinquanta-Sessanta.

Alla realizzazione della mostra, promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana, la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Galleria del Costume di Palazzo Pitti con Firenze Musei, ha contribuito Il Consorzio Il Cappello di Firenze (Angiolo Frasconi, bettina®-Raffaello Bettini, Luca della Lama prodotto e distribuito da Facopel Produzione, Grevi, Corti by Cleò , Marzi Cappelli Firenze, Nanà Firenze by MazzantiPiume, Luigi & Guido Tesi ,  Soprattutto… Cappelli, Trendintex, Memar, Fratelli Reali & C spa, Santelli Francesca, Inverni Firenze 1892, Michelagnoli Giuseppe & Figli, Ambuchi e Bandinelli) di cui sono esposti alcuni fra gli esemplari più caratteristici delle principali aziende toscane della manifattura del cappello, eredi dell’antica lavorazione artigianale del Cappello di Paglia di Firenze.

Il catalogo, edito da Sillabe, è corredato dalle schede storico-scientifiche di Simona Fulceri e da testi di Katia Sanchioni, Aurora Fiorentini, Dora Liscia Bemporad, Nicola Squicciarino.

Barbara Izzo