Amnesty al Giffoni

Amnesty International Italia e’ presente, per l’undicesimo anno consecutivo, al Giffoni Experience, proseguendo la collaborazione con il festival internazionale del cinema per ragazzi nella promozione e nella difesa dei diritti umani. Amnesty International Italia partecipa alla 44esima edizione del film festival con “Amnesty Kids”, la proposta educativa rivolta ai piu’ giovani, presentando in anteprima la nuova edizione del fascicolo illustrato “Diritti”, interamente dedicata al cinema e ai diritti umani. Fino al 27 luglio, giurate e giurati del Festival potranno attivarsi per chiedere alle autorita’ europee azioni concrete per i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Nella determinazione a proteggere le proprie frontiere, l’Unione europea e i suoi stati membri impediscono a questi ultimi di accedere all’asilo e mettono a rischio le vite di migliaia di migranti, costretti a intraprendere viaggi sempre piu’ pericolosi. Giurate e giurati saranno invitati a realizzare barchette di carta colorate su cui scrivere i loro messaggi alle istituzioni europee. Potranno inoltre scoprire le proposte educative di Amnesty International Italia e prendere parte alle numerose attivita’ di gioco e di sensibilizzazione organizzate da attiviste e attivisti. Il 27 luglio saranno consegnati il Premio Amnesty Giffoni Film Festival 2014 e il Premio Amnesty Corto Giffoni Film Festival 2014 rispettivamente al lungometraggio e al cortometraggio che avranno meglio affrontato e rappresentato il tema dei diritti umani.

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I campi di prigionia della Corea del Nord

In un documento intitolato ‘Corea del Nord: il continuo investimento nell’infrastruttura della repressione’, Amnesty International ha diffuso testimonianze inedite e nuove immagini satellitari che rivelano l’ulteriore allargamento di due dei piu’ grandi campi di prigionia (kwanliso) del paese, il 15 e il 16. Il documento di Amnesty International denuncia la costruzione di nuovi blocchi per i prigionieri, l’espansione delle fabbriche e il rafforzamento delle misure di sicurezza. Un ex funzionario di sicurezza del kwanliso 16, il piu’ grande centro di detenzione politica della Corea del Nord, per la prima volta ha preso la parola per raccontare ad Amnesty International di detenuti costretti a scavarsi la fossa e di donne stuprate e poi scomparse. ‘L’orrenda realta’ del continuo investimento della Corea del Nord in questo vasto reticolo di repressione ora e’ chiara. Chiediamo alle autorita’ di rilasciare subito e senza alcuna condizione tutti i prigionieri di coscienza detenuti nei campi di prigionia politica e di chiudere questi ultimi immediatamente’ – ha dichiarato Rajiv Narayan, ricercatore di Amnesty International sull’Asia Orientale. Amnesty International ha condiviso le ultime prove raccolte con la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che sta indagando sulle violazioni dei diritti umani nella Corea del Nord. Centinaia di migliaia di persone – bambini compresi – sono detenute nei campi di prigionia politica e in altre strutture detentive del paese. Molte di esse non hanno commesso alcun reato e sono unicamente familiari di presunti responsabili di gravi reati politici. La loro detenzione, basata sulla ‘colpevolezza per associazione’, rappresenta una forma di punizione collettiva. Il kwanliso 16, nei pressi di Hwaesong, nella provincia di Hamgyong Nord, si estende per circa 560 chilometri quadrati, tre volte Washington, la capitale degli Usa. E’ uno dei siti meno indagati nel vasto sistema dei campi di prigionia politica. Nel 2011, si riteneva vi fossero detenute 20.000 persone. Le immagini del maggio 2013 mostrano nuovi blocchi per i detenuti gia’ terminati o in costruzione, segnale di un lieve incremento della popolazione del campo. Le immagini evidenziano anche l’espansione di un’area industriale all’interno del campo, cosi’ come attivita’ economiche (agricole, minerarie e boschive) in corso. Il duro lavoro forzato e’ una prassi comune nei campi di prigionia politica della Corea del Nord. Secondo le testimonianze di ex detenuti e funzionari dei campi, i prigionieri passano la maggior parte del tempo a lavorare in condizioni pericolose, con poco tempo a disposizione per riposare. Le misure di sicurezza rimangono rigide. Le immagini satellitari mostrano posti di controllo e filo spinato intorno al perimetro del campo. I movimenti paiono limitati e controllati attraverso ingressi sorvegliati, torri di guardia e posti di blocco interni al campo. Nel novembre 2013 il signor Lee, addetto alla sicurezza del kwanliso 16 dagli anni Ottanta fino alla meta’ degli anni Novanta, ha rilasciato un’intervista ad Amnesty International circa i metodi usati per mettere a morte i prigionieri. Questi vengono costretti a scavarsi la fossa e poi uccisi con un colpo di martello al collo. Il signor Lee ha visto funzionari del campo strangolare detenuti o picchiarli a morte con bastoni di legno. Il signor Lee ha anche parlato delle donne scomparse dopo essere state stuprate: ‘Dopo una notte ‘al servizio’ dei funzionari, le donne dovevano morire affinche’ il segreto non trapelasse. Questo accadeva nella maggior parte dei campi di prigionia politica’. Kim Young-soon, ex detenuta del kwanliso 15 tra il 1980 e il 1989, ha descritto l’esecuzione pubblica di due prigionieri che avevano tentato di evadere: ‘Li portarono sul posto dopo averli malmenati. Li legarono a dei pali di legno e gli spararono tre volte, alla testa, al petto e ai piedi’. Le immagini satellitari del kwanliso 15, noto anche come ‘Yodok’ mostrano, rispetto a quelle del 2011, che sono stati demoliti 39 blocchi e ne sono stati costruiti sei nuovi. La diminuzione dei blocchi lascia supporre che la popolazione del campo sia diminuita, ma Amnesty International non e’ in grado di verificare quanti siano i detenuti o quale sia stata la loro sorte. Il kwanliso 15 si estende su un’area di 370 chilometri quadrati e si trova al centro del paese, a 120 chilometri dalla capitale Pyongyang. Nel 2011, si ritiene vi si trovassero 50.000 prigionieri. Anche a Yodok, come nel kwanliso 16, le misure di sicurezza sono rigorose. Le immagini satellitari mostrano rilevanti attivita’ economiche in corso, tra cui il taglio del legname e la produzione di mobili.

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Crimini di guerra e contro l’umanità in Nigeria, secondo A.I.

In un rapporto, Amnesty International ha denunciato l’aumento della violenza nel nord-est della Nigeria, dove nei primi tre mesi del 2014 sono state uccise almeno 1500 persone, oltre la meta’ delle quali civili, a causa dell’aumento degli attacchi del gruppo armato islamista boko haram e delle rappresaglie incontrollate delle forze di sicurezza del paese. “Siamo di fronte a un conflitto armato non internazionale in cui tutte le parti stanno violando il diritto internazionale umanitario. Sollecitiamo la comunita’ internazionale ad assicurare indagini rapide e indipendenti su quelle azioni che potrebbero costituire crimini di guerra e crimini contro l’umanita’” – ha dichiarato Netsanet Belay, direttore per la ricerca e l’advocacy sull’Africa di Amnesty International. “Oltre 1500 morti in tre mesi indicano un allarmante peggioramento della situazione. La comunita’ internazionale non puo’ continuare a girare lo sguardo di fronte alle esecuzioni extragiudiziali, agli attacchi contro i civili e agli altri crimini di diritto internazionale che vengono commessi su scala massiccia. La popolazione civile sta pagando un prezzo pesante a seguito dell’intensificarsi di questo ciclo di violenze e rappresaglie” – ha aggiunto Belay. Oltre la meta’ delle uccisioni sono state commesse da boko haram, che ha deliberatamente preso di mira alunni delle scuole del nord-est della Nigeria. Amnesty International ha documentato le uccisioni compiute da boko haram e dalle forze di sicurezza nigeriane da gennaio a marzo, sottolineando la data del 14 marzo, giorno in cui le forze di sicurezza hanno scatenato una brutale repressione contro ex detenuti. Quel giorno, boko haram ha attaccato la base militare di Giwa, nella citta’ di Maiduguri, nello stato di Borno, liberando diverse centinaia di detenuti. Dopo che l’esercito ha ripreso il controllo della situazione, intorno alla citta’ sono stati trovati oltre 600 corpi, per lo piu’ di detenuti nuovamente catturati e privi di armi. Sulla base di interviste con abitanti, avvocati, attivisti per i diritti umani e personale medico degli ospedali della zona nonche’ di immagini satellitari, Amnesty International ha potuto in parte ricostruire gli eventi del 14 marzo e localizzare tre possibili fosse comuni. “La dimensione delle atrocita’ compiute da boko haram e’ veramente scioccante e ha contribuito a creare un clima di paura e d’insicurezza. Ma questo non puo’ giustificare la brutalita’ della risposta che va chiaramente attribuita alla forze di sicurezza” – ha commentato Belay. Tra le testimonianze raccolte da Amnesty International, alcune hanno descritto cosa e’ accaduto quando i militari hanno trovato 56 degli evasi dalla base di Giwa: “Erano in una scuola. Hanno cominciato a urlare ‘Non siamo di boko haram, siamo dei detenuti!’. Io e i miei vicini abbiamo visto i soldati portare gli uomini in un posto chiamato ‘la terra di nessuno’, dietro l’Universita’ di Maiduguri. Hanno aperto il fuoco, li hanno uccisi tutti e 56 di fronte a noi.” Altri testimoni oculari hanno raccontato come membri della “Task force civile congiunta” – gruppi di civili che collaborano con l’esercito nigeriano – hanno catturato altri ex detenuti nel quartiere di Jiddari Polo, sempre a Maiduguri e li hanno consegnati ai soldati. In questo caso, sono state uccise oltre 190 persone: “Ho visto i soldati ordinare loro di sdraiarsi a terra. Poi si e’ aperta una discussione con la Task force. I soldati hanno fatto alcune telefonate e pochi minuti dopo hanno iniziato a sparare. Ho contato 198 corpi” – ha riferito un testimone. Data l’apparente incapacita’ e assenza di volonta’ delle autorita’ nigeriane di indagare su questi crimini e punire i responsabili, Amnesty International ha chiesto alla Commissione africana e alle Nazioni Unite di assistere la Nigeria nelle indagini su azioni che potrebbero costituire crimini di guerra e crimini contro l’umanita’ a carico sia di boko haram che delle forze di sicurezza nel nord-est del paese. “Le uccisioni sommarie di questi detenuti costituiscono esecuzioni extragiudiziali e sono crimini di diritto internazionale. Questi atti fanno seguito a tutta una serie di decessi in custodia di persone imprigionate in relazione a quanto sta accadendo nel nord-est della Nigeria. La comunita’ internazionale, e in particolare la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli e il Consiglio Onu dei diritti umani devono assicurare con urgenza l’apertura di un’indagine esaustiva, imparziale e trasparente sulle denunce di crimini di guerra e crimini contro l’umanita’ in Nigeria” – ha commentato Belay. Amnesty International ha inoltre chiesto all’Unione africana, alla Comunita’ economica degli stati dell’Africa occidentale e al Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana di occuparsi immediatamente del conflitto nella Nigeria nordorientale e di fornire pieno e concreto sostegno per porre fine a questi atti di violenza contro i civili. A questi organismi, Amnesty International chiede infine di condannare i crimini di guerra e i crimini contro l’umanita’ commessi da entrambe le parti. Durante questo mese di aprile, “la Nigeria assumera’ la presidenza del Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana. L’Unione africana deve chiedersi fino a che punto i suoi stati membri stiano mantenendo l’impegno di promuovere i principi dell’Unione africana e il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani”. Il rapporto Nigeria: More than 1,500 killed in armed conflict in North-Eastern Nigeria in early 2014 e’ disponibile in lingua inglese all’indirizzo: http://www.amnesty.it/crimini-guerra-e-contro-umanita-nord-est-Nigeria.

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Rapporto di Amnesty International sulla Grecia

Una duratura cultura fatta di impunita’, razzismo e violenza endemica, che si esprime anche attraverso l’uso della forza contro i manifestanti e i maltrattamenti ai danni di migranti e rifugiati: e’ quanto emerge dalla ricerca pubblicata da Amnesty International sulle forze di polizia in Grecia, preceduta da un’inchiesta ufficiale sui legami tra la polizia e il gruppo estremista Alba dorata.Lo scorso dicembre quasi 50 persone tra cui il leader di Alba dorata, due agenti di polizia e cinque parlamentari, sono stati arrestati e accusati di reati che vanno dall’omicidio all’uso di esplosivi fino al ricatto. Dieci agenti di polizia sono risultati collegati direttamente o indirettamente ad azioni criminali attribuite a membri di Alba dorata.Ora la ricerca di Amnesty International, “Farsi le leggi da soli. Una cultura di abuso e d’impunita’ in Grecia”, denuncia le numerose e persistenti violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia, la completa mancanza di assunzione di responsabilita’ e l’assenza di indagini rapide, esaustive e imparziali sulle denunce a loro carico.“Le nostre ricerche hanno evidenziato che la rovinosa vicenda dei rapporti con Alba dorata e’ solo la punta dell’iceberg. Un profondo razzismo, l’uso eccessivo della forza e una radicata impunita’ costituiscono una macchia per la polizia greca. I vari governi che si sono succeduti finora non hanno riconosciuto, ne’ tantomeno contrastato, queste violazioni e l’impunita’” – ha dichiarato Jezerca Tigani, vicedirettrice del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International.“C’e’ urgente bisogno di una riforma strutturale complessiva delle forze di polizia, che comprenda la creazione di un meccanismo indipendente in grado di indagare sulle denunce di condotta illegale da parte degli agenti di polizia. Le autorita’ greche devono ripristinare la fiducia della societa’ verso le forze di polizia” – ha aggiunto Tigani.Amnesty International documenta da molti anni il comportamento illegale delle forze di polizia greche. La ricerca conferma che la situazione resta sconfortante. Alla fine del mese scorso, nella prigione di Nigrita, nel nord del paese, la polizia ha picchiato a morte un detenuto in isolamento. L’autopsia ha rivelato numerosi colpi sulle piante dei piedi e al petto nonche’ bruciature sulle mani.Negli ultimi tre anni c’e’ stato un drammatico aumento degli attacchi motivati da odio nei confronti di rifugiati e migranti. Crimini dell’odio sono stati registrati anche contro la comunita’ rom e persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate (Lgbti). Le forze di polizia non hanno saputo impedire questi attacchi o indagare sui moventi di odio che li avevano ispirati.“Agendo in questo modo, la polizia greca si mostra indulgente verso i gruppi xenofobi di estrema destra che vogliono attaccare chiunque non si conformi alla loro idea di societa’” – ha sottolineato Tigani.“La polizia viene usata dalle autorita’ in modo indiscriminato. Invece di mantenere la legge e l’ordine, spesso le viene affidato il compito di stroncare il dissenso e perseguitare chi appartiene a gruppi vulnerabili. Le azioni delle forze di polizia sono prive di monitoraggio indipendente e i loro comportamenti restano impuniti. Questo deve cambiare” – ha concluso Tigani.Alba dorataIl 17 settembre 2013 Pavlos Fyssas, musicista e attivista antifascista, e’ stato accoltellato a morte nella periferia di Atene da un militante di Alba dorata, Giorgios Roupakias. I testimoni hanno riferito alla stampa che otto agenti del reparto motorizzato di polizia erano gia’ presenti quando Fyssas e i suoi amici vennero aggrediti, ma non intervennero. Il giorno dopo, la polizia antisommossa ha disperso, con manganelli e agenti chimici, una manifestazione di protesta per l’omicidio di Fyssas: 31 persone hanno dovuto ricorrere alle cure mediche, molte per ferite alla testa causate dai manganelli, dai caschi e dagli scudi degli agenti. In precedenza, i manifestanti erano stati presi a sassate da militanti di estrema destra, senza che la polizia fosse intervenuta. Alla fine della giornata, un manifestante di 32 anni aveva perso l’occhio destro. Da allora, e’ stato sottoposto a tre interventi chirurgici.Dall’omicidio di Pavlos Fyssas ha preso il via un’ampia indagine della polizia sulle attivita’ di Alba dorata e i suoi legami con le stesse forze di polizia.Trattamento brutale di migranti e rifugiatiLa polizia greca ha il compito di controllare l’immigrazione e arrestare ed espellere i migranti irregolari. Nell’ambito dell’operazione “Xenios Zeus”, tra aprile 2012 e giugno 2013, sono stati fermati per controlli d’identita’ oltre 120.000 cittadini stranieri, solo il cinque per cento dei quali (7000) e’ stato trovato privo di documenti. K., un rifugiato siriano, ha denunciato i maltrattamenti subiti nel febbraio 2013 nel centro di detenzione per migranti di Corinto: “Quell’agente inizio’ a prendermi a calci. Cercavo di stare in piedi e lui mi colpiva ancora. Poi chiese a due colleghi di portarmi in una stanza dove gli altri detenuti non potessero vedermi. Li’, il poliziotto prese a darmi calci sul petto. Poi un altro poliziotto mi schiaffeggio’ e mi prese a pugni sul volto”.Crimini dell’odioNel gennaio 2013, due cittadini greci hanno accoltellato a morte Shehzad Luqman, un cittadino pachistano residente in Grecia. La polizia e la magistratura non hanno preso in considerazione il possibile movente razzista dell’attacco. Questo omicidio ha mostrato molti elementi in comune con gli attacchi razzisti di una “squadra d’assalto” legata ad Alba dorata. Il processo e’ in corso.Nel settembre 2013, una donna greca e’ stata ripresa con una telecamera mentre prendeva a calci una bambina rom che suonava la fisarmonica in una strada pedonale sotto l’Acropoli, ad Atene. La polizia ha aperto un’inchiesta e ha preso in considerazione il movente dell’odio solo grazie all’insistenza dell’organizzazione non governativa Helsinki Monitor Grecia.

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Antonio Pappano per Amnesty International

Amnesty International Italia esprime la sua profonda riconoscenza per la decisione del Maestro Antonio Pappano, direttore dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma, di dedicare all’associazione il concerto “Prigionia e liberta’”, che si terra’ martedi’ 29 aprile a Roma, alle ore 19.30, presso la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica.Il programma del concerto prevede: Beethoven: Fidelio, “Gott! Welch Dunkel hier!”, scena dalla prigione.Dallapiccola: Il prigioniero, opera in un atto.Beethoven: Sinfonia n. 9, III e IV movimento “Inno alla Gioia”.“Siamo particolarmente riconoscenti al Maestro Antonio Pappano per aver voluto associare ad Amnesty International i temi della prigionia e della liberta’, del diritto di ogni essere umano a poter esprimere le sue opinioni senza timore di persecuzione. Questi temi sono al centro dell’azione di Amnesty International sin dal 1961, anno della sua fondazione. Da oltre mezzo secolo, attraverso le nostre campagne, ci battiamo per il rispetto della dignita’ delle persone e contro le ‘prigionie ingiuste’, avendo appreso molto bene che oltre a quelle fisiche, esistono altre prigioni che impediscono a uomini e donne di esprimere e manifestare la loro identita’, le loro origini, i loro orientamenti e i loro desideri” – ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia.Il Maestro Pappano, invece, afferma: “Musica e diritti umani. Un connubio possibile, un risultato eccezionale. E’ dalla voglia di affiancare Amnesty International nelle sue azioni in difesa della liberta’ e della giustizia che nasce la volonta’ di dedicare questo concerto: un concerto rivolto a chi ogni giorno si impegna per difendere i diritti umani, a chi vede in Amnesty International la sola speranza per una vita migliore ma anche, e soprattutto, a chi decidera’ di starci vicino in questa importante impresa scegliendo di essere la voce di chi non ha voce, sostenendo Amnesty International.“In oltre 50 anni di attivita’ – continua il direttore – Amnesty International e’ stata una fonte autorevole per i governi e di speranza per gli oppressi e la difesa dei diritti umani puo’ passare anche attraverso la musica. Una musica che attraversa il dolore della prigionia per arrivare alla gioia quindi alla speranza e alla liberta’, per ricordare che tutti noi possiamo fare qualcosa per un mondo migliore. Sostenete Amnesty International”.unitevi a noi!Dopo il concerto, seguira’ un brindisi offerto da Amnesty International Italia grazie alla collaborazione dell’azienda Trimani, con la prestigiosa presenza del Maestro Antonio Pappano.Nel 2013 Antonio Pappano ha ricevuto il premio “Arte e diritti umani” che Amnesty International Italia assegna a coloro che con la loro arte contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle campagne in favore dei diritti umani.I biglietti per il concerto potranno essere acquistati online sul sito http://www.santacecilia.it/concerti_e_biglietti/

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Rapporto di Amnesty International sulla pena di morte 2013

Secondo il rapporto annuale di Amnesty International sulla pena di morte, Iran e Iraq hanno determinato un profondo aumento delle condanne a morte eseguite nel 2013, andando in direzione opposta alla tendenza mondiale verso l’abolizione della pena di morte.

Allarmanti livelli di esecuzioni in un gruppo isolato di paesi – soprattutto i due mediorientali – hanno determinato un aumento di quasi 100 esecuzioni rispetto al 2012, corrispondente al 15 per cento.

“L’aumento delle uccisioni cui abbiamo assistito in Iran e Iraq e’ vergognoso. Tuttavia, quegli stati che ancora si aggrappano alla pena di morte sono sul lato sbagliato della storia e di fatto sono sempre piu’ isolati” – ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. “Solo un piccolo numero di paesi ha portato a termine la vasta maggioranza di questi insensati omicidi sponsorizzati dallo stato e cio’ non puo’ oscurare i progressi complessivi gia’ fatti in direzione dell’abolizione”. Il numero delle esecuzioni in Iran (almeno 369) e Iraq (169) pone questi due paesi al secondo e al terzo posto della classifica, dominata dalla Cina dove – sebbene le autorita’ mantengano il segreto sui dati – Amnesty International ritiene che ogni anno siano messe a morte migliaia di persone. L’Arabia Saudita e’ al quarto posto con almeno 79 esecuzioni, gli Stati Uniti d’America al quinto con 39 esecuzioni e la Somalia al sesto con almeno 34 esecuzioni. Escludendo la Cina, nel 2013 Amnesty International ha registrato almeno 778 esecuzioni rispetto alle 682 del 2012. Nel 2013 le esecuzioni hanno avuto luogo in 22 paesi, uno in piu’ rispetto al 2012. Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam hanno ripristinato l’uso della pena di morte. Nonostante i passi indietro del 2013, negli ultimi 20 anni vi e’ stata una decisa diminuzione del numero dei paesi che hanno usato la pena di morte e miglioramenti a livello regionale vi sono stati anche l’anno scorso. Molti paesi che avevano eseguito condanne a morte nel 2012 non hanno continuato nel 2013, come nel caso di Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Gambia e Pakistan. Per la prima volta dal 2009, la regione Europa – Asia centrale non ha fatto registrare esecuzioni. Trent’anni fa, il numero dei paesi che avevano eseguito condanne a morte era stato di 37. Il numero era sceso a 25 nel 2004 ed e’ ulteriormente sceso a 22 l’anno scorso. Nell’ultimo quinquennio, solo nove paesi hanno fatto ricorso anno dopo anno alla pena capitale. “Il percorso a lungo termine e’ chiaro: la pena di morte sta diventando un ricordo del passato. Sollecitiamo tutti i governi che ancora uccidono in nome della giustizia a imporre immediatamente una moratoria sulla pena di morte, in vista della sua abolizione” – ha concluso Shetty. In molti paesi che ancora vi ricorrono, sottolinea il rapporto di Amnesty International, la pena di morte e’ circondata dal segreto e in alcuni casi le autorita’ neanche informano le famiglie e gli avvocati – per non parlare dell’opinione pubblica – sulle esecuzioni in programma. Metodi e reati I metodi d’esecuzione usati nel 2013 comprendono la decapitazione, la somministrazione di scariche elettriche, la fucilazione, l’impiccagione e l’iniezione letale. Esecuzioni pubbliche hanno avuto luogo in Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran e Somalia. Persone sono state messe a morte per tutta una serie di crimini non letali tra cui rapina, reati connessi alla droga, reati economici e atti che non dovrebbero essere neanche considerati reati, come l’adulterio o la blasfemia. Molti paesi hanno usato vaghe definizioni di reati politici per sbarazzarsi di reali o presunti dissidenti. Dati regionali Medio Oriente e Africa del Nord In Iraq, per il terzo anno consecutivo, c’e’ stato un profondo aumento delle esecuzioni, con almeno 169 persone messe a morte, quasi un terzo in piu’ del 2012, prevalentemente ai sensi di vaghe norme antiterrorismo. In Iran, le esecuzioni riconosciute ufficialmente dalle autorita’ sono state almeno 369, ma secondo fonti attendibili centinaia di altre esecuzioni sarebbero avvenute in segreto, innalzando il totale a oltre 700. L’Arabia Saudita ha continuato a usare la pena di morte come nei due anni precedenti, con almeno 79 esecuzioni nel 2013. Per la prima volta da tre anni e in violazione del diritto internazionale, sono stati messi a morte tre minorenni al momento del reato. Se si esclude la Cina, Iran, Iraq e Arabia Saudita hanno totalizzato l’80 per cento delle esecuzioni del 2013. Tra i limitati passi avanti, non vi sono state esecuzioni negli Emirati Arabi Uniti e il numero delle condanne a morte eseguite in Yemen e’ diminuito per il secondo anno consecutivo. Africa Nell’Africa subsahariana solo cinque paesi hanno eseguito condanne a morte: Botswana, Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Sudan, col 90 per cento delle esecuzioni registrato in Nigeria, Somalia e Sudan. In Somalia, le esecuzioni sono aumentate da sei nel 2012 ad almeno 34 nel 2013. In Nigeria, dopo una dichiarazione del presidente Goodluck Jonathan che aveva ridato via libera alle esecuzioni, sono stati impiccati quattro prigionieri: si e’ trattato delle prime esecuzioni dopo sette anni. Diversi stati, tra cui Benin, Ghana e Sierra Leone, hanno fatto registrare passi avanti importanti, attraverso modifiche costituzionali o emendamenti al codice penale volti all’abolizione della pena di morte. Americhe Ancora una volta, gli Stati Uniti d’America sono stato l’unico paese della regione a eseguire condanne a morte, sebbene le esecuzioni, 39, siano state quattro di meno rispetto al 2012. Il 41 per cento delle esecuzioni ha avuto luogo in Texas. Il Maryland e’ diventato il 18esimo stato abolizionista. Diversi stati caraibici hanno svuotato i bracci della morte per la prima volta da quando, negli anni Ottanta, Amnesty International ha iniziato a seguire l’andamento della pena di morte in quella zona. Asia Il Vietnam ha ripreso a eseguire condanne a morte, cosi’ come l’Indonesia, dove dopo una pausa di quattro anni sono state messe a morte cinque persone, tre delle quali per traffico di droga. La Cina ha continuato a mettere a morte piu’ persone del resto del mondo messo insieme, ma a causa del segreto di stato e’ impossibile ottenere informazioni realistiche. Vi sono stati piccoli segnali di progresso, con l’introduzione di nuove disposizioni legali nei casi di pena di morte e con l’annuncio della Corte suprema che sarebbe stata posta fine all’espianto degli organi dei prigionieri al termine dell’esecuzione. Nessuna esecuzione e’ stata segnalata da Singapore, dove diversi prigionieri hanno ottenuto la commutazione della condanna a morte. L’area del Pacifico e’ rimasta libera dalla pena di morte, nonostante il governo di Papua Nuova Guinea abbia minacciato di riprendere le esecuzioni. Europa e Asia centrale Per la prima volta dal 2009, in quest’area non vi sono state esecuzioni. Il solo paese che ancora si aggrappa alla pena capitale e’ la Bielorussia, dove comunque nel 2013 non sono state eseguite condanne.

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G.P. Formula 1. Amnesty International teme repressione proteste in Bahrein

Alla vigilia del Gran premio di Formula 1, in programma dal 4 al 6 aprile, Amnesty International ha sollecitato le autorita’ del Bahrein a non stroncare le proteste pacifiche previste in occasione dell’evento sportivo. Negli anni scorsi, le autorita’ hanno adottato dure misure repressive contro coloro che prendevano parte alle manifestazioni per le riforme, gli attivisti che si opponevano alla famiglia reale e i promotori delle campagne per il rispetto dei diritti umani. “Le autorita’ del Bahrein non devono commettere gli errori del passato, limitando la liberta’ di movimento e stroncando le proteste. Il diritto della popolazione del Bahrein a esprimere in modo pacifico la sua opposizione alle politiche governative e la sua preoccupazione per la situazione dei diritti umani e’ legittimo e dev’essere rispettato” – ha dichiarato Said Boumedouha, vicedirettore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Gli attivisti dell’opposizione che hanno chiesto il boicottaggio del Gran premio sono stati gia’ etichettati dal governo come “traditori”. Si teme che le autorita’ possano prendere a pretesto i recenti scontri e gli atti di terrorismo contro la polizia per imporre ulteriori restrizioni durante il Gran premio, come ad esempio impedire l’uscita dai villaggi e sciogliere violentemente le proteste pacifiche. Durante le precedenti edizioni del Gran premio, ai giornalisti locali e stranieri e’ stato impedito di seguire le proteste e alcuni di essi sono stati espulsi per averlo fatto senza autorizzazione. “Anziche’ continuare a ricorrere a misure di sicurezza nei confronti delle proteste antigovernative, le autorita’ dovrebbero marcare il Gran premio con l’annuncio di misure concrete per affrontare la drammatica situazione dei diritti umani nel paese” – ha affermato Boumedouha. “Tre anni dopo l’inizio della rivolta, abbiamo visto solo cambiamenti di facciata e promesse di riforme non mantenute. Gli arresti arbitrari, la repressione delle manifestazioni e le torture durante la detenzione proseguono senza sosta. Usare il Gran premio per rafforzare l’immagine pubblica del Bahrein e’ poco piu’ di un mero tentativo di nascondere le crescenti violazioni dei diritti umani dietro un evento sportivo internazionale” – ha commentato Boumedouha. Ecco alcuni casi. Salah ‘Abbas Habib, un manifestante di 37 anni, fu ucciso dalle forze di sicurezza il 20 aprile 2012 nel corso di una protesta relativa allo svolgimento del Gran premio di quell’anno. Ai familiari fu impedito per tre giorni di vedere il cadavere. Nel novembre 2013 un agente di polizia e’ stato assolto per mancanza di prove e a causa delle contraddittorie dichiarazioni dei testimoni. Nessun’altra persona e’ sotto inchiesta per l’omicidio di Salah’ Abbas Habib, i cui familiari attendono dunque ancora giustizia. Nel 2013, Nafeesa al-Asfoor e Rayhana al-Mousawi, due attiviste di 31 e 38 anni, sono state arrestate per aver tentato di entrare nel circuito automobilistico del Gran premio per protestare contro la detenzione di attivisti politici. Entrambe sono state accusate di aver progettato atti di terrorismo e di possedere esplosivi. Il processo e’ in corso. Nel settembre 2013, Rayhana al-Mousawi e’ stata condannata a cinque anni, in un altro processo, per i suoi legami con la “Coalizione 14 febbraio”, un movimento giovanile che nel marzo di quest’anno le autorita’ hanno dichiarato organizzazione terrorista. Le due attiviste hanno denunciato di essere state sottoposte a maltrattamenti e torture durante la detenzione e di essere state costrette a firmare “confessioni” che in seguito hanno ritrattato. Amnesty International ha chiesto che sia avviata un’indagine indipendente e approfondita sulle denunce di tortura e che i responsabili siano portati di fronte alla giustizia. Il Gran premio di Formula 1 del 2014 segna anche tre anni dall’arresto di Mahdi ‘Issa Mahdi Abu Dheeb, ex presidente dell’Associazione degli insegnanti del Bahrein. Dopo l’arresto, venne tenuto in isolamento per 64 giorni e torturato anche dopo aver firmato la “confessione”. Amnesty International lo considera prigioniero di coscienza e continua a chiedere il suo rilascio immediato e incondizionato e l’avvio di un’indagine sulle sue denunce di tortura. Numerosi altri attivisti per i diritti umani, tra cui Nabeel Rajab e Abdelhadi Al-Khawaja, e centinaia di prigionieri politici stanno languendo in carcere solo per aver organizzato o invocato manifestazioni contro il governo. “La radicata cultura dell’impunita’ che pervade le forze di sicurezza del Bahrein fa si’ che di volta in volta ai responsabili delle torture e di altre gravi violazioni dei diritti umani venga consentito di farla franca. Invece di affrontare le violazioni dei diritti umani in corso, le autorita’ del Bahrein continuano a cercare il consenso internazionale attraverso eventi come il Gran premio di Formula 1 mentre allo stesso tempo violano clamorosamente i diritti dei loro cittadini” – ha concluso Boumedouha.

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Rapporto di Amnesty International su Israele

Negli ultimi tre anni, le forze israeliane hanno mostrato un profondo disprezzo per la vita umana uccidendo decine di civili palestinesi nella Cisgiordania occupata, bambini compresi, nella pressoche’ totale impunita’.

Lo ha denunciato Amnesty International, in un rapporto dal titolo “Grilletto facile. Uso eccessivo della forza da parte di Israele in Cisgiordania”, che descrive il crescente spargimento di sangue e l’aumento delle violazioni dei diritti umani nei Territori occupati palestinesi, dal gennaio 2011, a causa dell’uso non necessario, arbitrario e brutale della forza da parte delle forze israeliane contro i palestinesi.

In tutti i casi esaminati da Amnesty International, i palestinesi uccisi da soldati israeliani non sembravano porre un’immediata e diretta minaccia alla vita. In alcuni casi, vi sono prove che si sia trattato di omicidi intenzionali, equivalenti a crimini di guerra.

“Il rapporto presenta una serie di prove che mostrano un drammatico ripetersi di omicidi illegali e di lesioni immotivate ai danni di civili palestinesi da parte delle forze israeliane che operano in Cisgiordania” – ha dichiarato Philip Luther, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.“La frequenza e la persistenza nell’uso della forza arbitraria e abusiva da parte di soldati e poliziotti israeliani contro manifestanti pacifici in Cisgiordania, cosi’ come l’impunita’ di cui hanno beneficiato gli autori, fanno pensare a una vera e propria politica” – ha aggiunto Luther.

Uccisioni e ferimenti

Lo scorso anno, Amnesty International ha svolto ricerche sull’uccisione di 22 palestinesi della Cisgiordania, 14 dei quali nel corso di proteste. Nella maggior parte dei casi si trattava di persone di eta’ inferiore ai 25 anni e almeno quattro erano bambini.

Secondo dati delle Nazioni Unite, il numero dei palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane nel 2013, 27, e’ superiore alla somma dei due anni precedenti. In totale, secondo l’Onu, dal 2011 sono stati uccisi 45 palestinesi.Tra le persone uccise o ferite figurano manifestanti pacifici, attivisti per i diritti umani, giornalisti e semplici passanti.

Negli ultimi tre anni i palestinesi feriti in modo grave a causa dell’uso di proiettili veri da parte delle forze israeliane sono stati almeno 261, tra cui 67 bambini. Nello stesso periodo, un numero allarmante di palestinesi della Cisgiordania – oltre 8000, tra cui 1500 bambini – e’ rimasto ferito in altro modo, ad esempio a causa delle pallottole di metallo rivestite di gomma e dello sconsiderato uso dei gas lacrimogeni. In alcuni casi, i feriti sono deceduti.“Lo sconcertante numero di feriti ci ricorda amaramente quanto sia pericolosa la vita quotidiana per i palestinesi nella Cisgiordania occupata” – ha commentato Luther.

Diverse vittime sono state colpite alle spalle, probabilmente mentre cercavano di fuggire e non ponevano alcuna reale minaccia alla vita delle forze israeliane o di altre persone. In altri casi, le ben equipaggiate forze israeliane hanno fatto ricorso a metodi letali contro manifestanti che lanciavano sassi, causando un’inutile perdita di vite umane.

IndaginiA oltre un anno di distanza non sono state ancora rese note le conclusioni di un’indagine delle autorita’ israeliane su alcune sospette uccisioni illegali.“L’attuale sistema israeliano d’indagine si e’ dimostrato completamente inadeguato. Non e’ ne’ indipendente ne’ imparziale e manca del tutto di trasparenza. Le autorita’ devono condurre indagini rapide, esaurienti e indipendenti su tutti i casi di presunto uso arbitrario e abusivo della forza, specialmente quando esso abbia procurato lesioni gravi o causato la morte delle persone” – ha sottolineato Luther. “Occorre inviare alle forze armate e alla polizia israeliane un messaggio forte: gli abusi non rimarranno impuniti. Se i responsabili di violazioni dei diritti umani non saranno chiamati a rispondere delle loro azioni, le uccisioni e le lesioni illegali sono destinate a continuare”.ProtesteNegli ultimi anni, in Cisgiordania sono state organizzate costanti proteste contro la prolungata occupazione israeliana e tutta una serie di politiche e prassi repressive, quali la continua espansione degli insediamenti illegali, gli 800 chilometri di barriera / muro, le demolizioni forzate delle abitazioni, gli sgomberi forzati, i posti di blocco, l’uso riservato delle strade ai coloni e altre restrizioni al movimento dei palestinesi.

Le proteste riguardano anche la detenzione di migliaia di palestinesi, gli attacchi militari israeliani contro Gaza e l’uccisione o il ferimento di palestinesi durante precedenti manifestazioni o nel corso di raid per eseguire arresti.

Trasferimenti di armi

Amnesty International ha chiesto alle autorita’ israeliane di istruire le loro forze armate ad astenersi dall’uso della forza letale, compreso l’impiego di proiettili veri o di pallottole di metallo rivestite di gomma, salvo quando sia strettamente necessario per proteggere vite umane. Le autorita’ israeliane devono anche rispettare il diritto dei palestinesi a manifestare pacificamente.

L’organizzazione per i diritti umani ha sollecitato gli Usa, l’Unione europea e il resto della comunita’ internazionale a sospendere tutti i trasferimenti di munizioni, armi ed altro equipaggiamento a Israele.

“Senza la pressione della comunita’ internazionale, la situazione non e’ destinata a cambiare in tempi brevi” – ha commentato Luther. “E’ stato sparso troppo sangue di civili. Questo sistema duraturo di abusi dev’essere interrotto. Se le autorita’ israeliane desiderano provare al mondo che sono impegnate a rispettare i principi democratici e gli standard del diritto internazionale dei diritti umani, le uccisioni illegali e l’uso non necessario della forza devono finire adesso”.

Un caso

Samir Awad, un palestinese 16enne di Bodrus, vicino a Ramallah, e’ stato ucciso nei pressi della sua scuola nel gennaio 2013, mentre con alcuni amici cercava di protestare contro la costruzione della barriera / del muro che divide in due il loro villaggio. E’ stato colpito tre volte (alla nuca, a una gamba e a una spalla) mentre cercava di fuggire dai soldati israeliani che avevano circondato il gruppo. Testimoni oculari hanno dichiarato che i soldati lo hanno colpito intenzionalmente mentre fuggiva.

Malik Murar, 16 anni, un amico di Samir Awad, ha dichiarato ad Amnesty International: “Prima gli hanno sparato a una gamba, ma ha continuato a correre. Ma quanto puo’ andare veloce un bambino ferito? Potevano arrestarlo facilmente. Invece gli hanno sparato alle spalle coi proiettili veri”.

Amnesty International ritiene che l’uccisione di Samir Awad costituisca un’esecuzione extragiudiziale o un omicidio intenzionale, che secondo il diritto internazionale sono crimini di guerra.

“E’ difficile credere che un bambino disarmato possa essere percepito come una minaccia imminente nei confronti di un soldato ben equipaggiato. In questo e in altri casi, i soldati israeliani paiono aver sparato avventatamente alla minima avvisaglia di una minaccia” – ha commentato Luther.

In base al diritto internazionale, le forze di polizia e militari incaricate di far rispettare la legge devono sempre usare moderazione e mai ricorrere alla forza arbitraria. Le forze di sicurezza devono usare la forza letale solo in presenza di un imminente rischio per la loro vita o per la vita di altri. Israele ha ripetutamente rifiutato di rendere pubbliche le regole e la normativa riguardanti l’uso della forza da parte dei militari e della polizia nei Territori palestinesi occupati.

L’esercito israeliano ha una lunga storia di uso eccessivo della forza contro i manifestanti palestinesi in Cisgiordania, almeno dai tempi della prima Intifada del 1987.

In un documento pubblicato nel 2013, intitolato “Silenzio. Noi siamo la polizia”, Amnesty International ha denunciato l’uso eccessivo della forza da parte delle autorita’ palestinesi della Cisgiordania nei confronti dei manifestanti palestinesi.

Amnesty International Italia

 

Crimini di guerra e contro l’umanità nella Repubblica Centrafricana

Amnesty International ha presentato le conclusioni preliminari di una missione di ricerca durata due settimane e ha dichiarato che nella Repubblica Centrafricana sono in corso crimini di guerra e contro l’umanita’. L’organizzazione per i diritti umani chiede il rapido dispiegamento di una robusta forza di peacekeeping, dotata di un chiaro mandato relativo alla protezione dei civili e di risorse sufficienti per poterlo eseguire in modo efficace.

‘Le nostre ricerche sul campo nella Repubblica Centrafricana delle ultime due settimane non lasciano dubbi sul fatto che tutte le parti in conflitto stanno commettendo crimini di guerra e contro l’umanita’’ – ha dichiarato Christian Mukosa, esperto di Amnesty International sul paese. ‘Questi crimini comprendono esecuzioni extragiudiziali, mutilazioni, distruzione intenzionale di edifici religiosi come le moschee e lo sfollamento forzato di un massiccio numero di persone’ – ha spiegato Mukosa.

La delegazione di Amnesty International, composta da tre persone, ha potuto documentare violazioni e abusi commessi a partire dal 5 dicembre, quando la violenza ha fatto esordio nella capitale Bangui con un attacco all’alba delle milizie anti-balaka. In alcune zone della capitale, le milizie anti-balaka sono andate di porta in porta fino a uccidere circa 60 musulmani. Le forze del governo di fatto, conosciute come ex-Seleka, hanno eseguito rappresaglie di dimensioni ancora maggiori contro i cristiani, uccidendo circa 1000 uomini in due giorni – tra cui un piccolo numero di donne e bambini – e razziando sistematicamente le abitazioni civili. Nei giorni successivi, le violazioni dei diritti umani sono proseguite con un’intensita’ sconvolgente.

Nonostante la presenza di militari francesi e africani dovrebbe garantire la protezione dei civili, questi sono uccisi selvaggiamente ogni giorno. Le vittime dall’8 dicembre sono state almeno 90, alcune uccise a colpi d’arma da fuoco, altre da facinorosi armate di machete e altre ancora a colpi di pietra.

La completa assenza di giustizia e di meccanismi che chiamino gli autori a rispondere di questi crimini ha dato luogo a una crescente spirale di uccisioni per rappresaglia e ha acuito l’odio e la diffidenza tra le comunita’. In totale, 614.000 persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni. Da Bangui sono fuggiti 189.000 abitanti, un quarto della popolazione della capitale.

‘La continua violenza, la massiccia distruzione dei beni e lo sfollamento forzato della popolazione di Bangui stanno alimentando profondi sentimenti di rabbia, ostilita’ e diffidenza’ – ha sottolineato Mukosa. ‘Non vi sara’ alcuna prospettiva della fine del ciclo di violenza fino a quando le milizie non saranno disarmate e le migliaia di civili a rischio non saranno concretamente
ed efficacemente protette. I quartieri residenziali devono essere resi sicuri per primi, in modo che gli abitanti possano fare rientro nelle loro case e riprendere la vita normale’.

Ogni processo di disarmo dev’essere accompagnato da efficaci misure di protezione fisica, soprattutto nei centri nevralgici della capitale, i quartieri PK5, Miskine e Combattant. Amnesty International ha ricevuto notizie di attacchi di rappresaglia contro persone che erano state disarmate.

Uno degli aspetti piu’ preoccupanti dell’attuale situazione e’ la sovrapposizione tra gruppi armati organizzati e gruppi di facinorosi civili. In molti casi, e’ stato difficile identificare i responsabili delle uccisioni sebbene sia evidente che molti civili, a livello locale, incitino a compiere rappresaglie e, in alcuni casi, vi prendano direttamente parte.

Tanto la comunita’ cristiana quanto quella musulmana hanno maturato un profondo sentimento di rabbia e disperazione. Molte persone hanno mostrato ai ricercatori di Amnesty International foto e video di massacri ripresi coi loro telefoni cellulari.

Amnesty International ritiene necessario l’invio urgente di altre truppe internazionali per garantire la sicurezza a Bangui e in altre zone della Repubblica Centrafricana.

L’Unione africana ha promesso l’invio di un massimo di 6000 uomini che andranno a far parte della nuova forza di peacekeeping a partire dal 19 dicembre.
Questo dispiegamento e’ particolarmente urgente ma i dettagli non sono stati ancora resi noti.

Amnesty International chiede inoltre alle Nazioni Unite di accelerare i tempi per istituire una commissione d’inchiesta sui crimini di guerra, i crimini contro l’umanita’ e le altre gravi violazioni dei diritti umani in corso nella Repubblica Centrafricana.

‘E’ importante stabilire le responsabilita’ dei crimini commessi da ogni parte in conflitto e assicurare la fine di decenni di quell’impunita’ che ha dominato il paese’ – ha commentato Mukosa.

Amnesty International ha ricevuto informazioni attendibili secondo le quali capi delle milizie implicate nella violenza sono direttamente coinvolti negli attacchi e dovrebbero essere portati di fronte alla giustizia.

‘La comunita’ internazionale ha un importante ruolo da giocare nella Repubblica Centrafricana: deve garantire che le forze di peacekeeping siano dispiegate in tutta fretta e dotate delle risorse necessarie per impedire un bagno di sangue persino peggiore’ – ha concluso Mukosa.

Amnesty International pubblichera’ un piu’ esaustivo rapporto all’inizio del 2014, mentre Human Rights Watch pubblica oggi un separato rapporto sull’escalation della violenza settaria e delle atrocita’ nella provincia di Ouham, nel nord della Repubblica Centrafricana.

Articolo di Amnesty International Italia

Cinque anni fa la promessa di Obama di chiudere Guantanamo

Cinque anni dopo che il presidente Barack Obama firmo’ l’ordine esecutivo per chiudere Guantánamo, Amnesty International ha dichiarato che il fatto che la struttura continui a restare aperta e’ un evidente esempio dei doppi standard adottati dagli Usa nel campo dei diritti umani.
‘L’ordine esecutivo firmato il 22 gennaio 2009, che disponeva la chiusura di Guantánamo entro un anno, fu una delle prime decisioni assunte dal presidente Obama dopo la sua entrata in carica’ – ha ricordato Erika Guevara Rosas, direttrice del programma Americhe di Amnesty International. ‘Cinque anni dopo, quella promessa e’ diventata un fallimento nel campo dei diritti umani che rischia di perseguitare il ricordo del presidente Obama, come gia’ e’ successo al suo predecessore’.
A 12 anni di distanza dai primi arrivi restano a Guantánamo oltre 150 detenuti, la maggior parte dei quali senza accusa ne’ processo.
Una manciata di detenuti sta affrontando il processo nell’ambito del sistema delle commissioni militari, che non rispetta gli standard internazionali sul giusto processo. Dei quasi 800 detenuti di Guantánamo, meno dell’uno per cento e’ stato condannato dalle commissioni militari e nella maggior parte dei casi a seguito di un patteggiamento.
Gli Usa si aspettano da altri paesi cio’ che essi rifiutano di fare: accogliere i detenuti rilasciati che non possono essere rimpatriati. A seguito di tale rifiuto, anche coloro che hanno ottenuto una sentenza di rilascio continuano a rimanere a Guantánamo. Il trasferimento, nel dicembre 2013, di tre cinesi di etnia uigura in Slovacchia e’ avvenuto dopo che erano trascorsi piu’ di cinque anni dalla sentenza che aveva giudicato illegale la loro detenzione.
Piu’ di 70 detenuti, in maggior parte cittadini dello Yemen, sono stati autorizzati al trasferimento ma l’amministrazione Usa si e’ appellata alla situazione di sicurezza nel loro paese e ad altre considerazioni per ritardare la loro uscita da Guantánamo.
‘I detenuti di Guantánamo rimangono in un limbo, le loro vite sospese da anni. Molti di essi hanno subito gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la sparizione forzata e la tortura, ma l’accesso a un rimedio giudiziario e’ stato sistematicamente bloccato e l’accertamento delle responsabilita’ e’ stato minimo’ – ha sottolineato Guevara Rosas.
‘Anno dopo anno, mentre tenevano aperto Guantánamo, gli Usa hanno continuato a proclamare il loro impegni per gli standard internazionali sui diritti umani. Se qualsiasi altro paese fosse stato responsabile del vuoto di diritti umani rappresentato da Guantánamo, avrebbe certamente attirato la condanna degli Usa. Da molto tempo e’ necessario che gli Usa pongano fine a questi doppi standard’ – ha proseguito Guevara Rosas.
Amnesty International chiede alle autorita’ statunitensi di assicurare indagini indipendenti e imparziali su tutte le denunce credibili di violazioni dei diritti umani commesse a Guantánamo e in altri centri di detenzione. Le conclusioni di queste indagini dovrebbero essere rese pubbliche e chiunque venisse giudicato responsabile di crimini di diritto internazionale dovrebbe essere portato di fronte alla giustizia, a prescindere dal suo attuale o passato rango.
Secondo Amnesty International, la segretezza sulle violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito e dai servizi segreti degli Usa deve terminare.
‘L’impunita’ per crimini di diritto internazionale come la tortura e le sparizioni forzate commessi contro i detenuti, a Guantánamo e altrove, costituisce una grave ingiustizia che pone gli Usa in forte violazione dei loro obblighi internazionali’ – ha concluso Guevara Rosas.
Amnesty International chiede infine che tutte le vittime delle violazioni dei diritti umani commesse dagli Usa – compresi i detenuti e gli ex detenuti di Guantánamo – abbiano un effettivo accesso a significativi rimedi giudiziari.

Amnesty International Italia