XX Edizione Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty

Torna da giovedì 20 luglio a domenica 23 luglio, a Rosolina Mare (RO), “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty”, la manifestazione sostenuta da Amnesty International che collega musica e diritti umani. La quattro giorni di suoni e diritti “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty” riesce a mettere in scena proposte artistiche in grado di fare riflettere e divertire, lasciando che siano bellezza ed emozione a lavorare al fianco di Amnesty International nella promozione dei diritti umani. Si tratta di una tappa importante nella storia della manifestazione: questa edizione è la 20esima ed è entrata a far parte di una rassegna più ampia, “Arte per la Libertà”. Arte per la Libertà è un grande contenitore, nato in collaborazione con DeltArte, che unisce creatività e diritti umani coinvolgendo location uniche della Provincia di Rovigo, per dare vita ad un calendario ricco di eventi, fra musica, arte, cinema e teatro. Il clou di Arte per la Libertà è come sempre Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty, la quattro giorni di Rosolina Mare: grandi ospiti si alternano sul palco insieme a band emergenti da tutta Italia in concorso per il “Premio Amnesty International Italia Emergenti”, dedicato ai migliori brani legati alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Un evento fortemente sostenuto da Amnesty International in grado di fare riflettere e divertire, dove creatività ed emozione riescono a toccare il cuore delle persone su temi importanti quali uguaglianza e rispetto. Durante i giorni del Festival verrà promossa la nuova campagna “CORAGGIO“, per fermare l’ondata di attacchi contro i difensori e le difensore dei diritti umani. La campagna, che sarà portata avanti da tutte le sezioni di Amnesty International nel mondo, chiede il riconoscimento e la protezione di coloro che difendono i diritti umani, così come la possibilità che possano operare in un ambiente sicuro. Chi difende i diritti umani sta subendo un assalto globale senza precedenti a causa della repressione contro la società civile e del crescente impiego della sorveglianza. Tutti gli eventi sono ad ingresso libero Presentano: Savino Zaba (Rai1, Radio2) e Carmen Formenton (Voci per la Libertà)

PROGRAMMA

GIOVEDÌ 20 LUGLIO Ore 21.00 Arena Piazzale Europa

Inaugurazioni installazioni: “INALIENABILE” del collettivo PianoB Progetto di immagini e riflessioni a cura di PianoB realizzato per il Festival “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty”. Inalienabile è un percorso di riflessione sul rapporto tra musica e diritti umani, che vede alternarsi fotografie, voci e video, con la testimonianza di musicisti come Francesco Guccini, Fiorella Mannoia, Carmen Consoli, Edoardo Bennato, Piotta, Modena City Ramblers, Roy Paci, Simone Cristicchi. Una condivisione di temi da cui scaturisce terreno fertile per una più ampia presa di coscienza. “SOS – SAVE OUR SOULS” di Achilleas Souras Lavoro del giovane Achilleas Souras, “SOS” -Save Our Souls, è un’installazione dalla forte valenza sociale, costruita e assemblata con centinaia di giubbotti salvagente recuperati da quelle migliaia abbandonate sulle coste dell’Isola di Lesbo dai migranti al loro arrivo. “Ogni eco si crea dalla propagazione di un sussurro che viene ripetuto, la mia installazione ha diversi significati e mi rendo conto che ognuno la interpreta a modo proprio. Alla fine dipende da te, puoi scegliere di fare qualcosa oppure di non fare niente. Il mio è un invito a fare qualcosa, se uno se la sente”. “IL PESO DELLE PAROLE” di Andrea Dodicianni Video installazione realizzata per il festival “Arte per la Libertà” da Andrea Dodicianni. Performance che ha fatto discutere la città di Rovigo per un’intera giornata, dodici corpi coperti da lenzuoli in piazza Garibaldi, con altrettante targhette che recitavano luoghi comuni sull’immigrazione. Frasi vere, quelle riportate davanti ai teli bianchi disposti ordinatamente in piazza, frasi raccolte tra le persone per strada dal team di Dodiciannni con una serie di interviste alla popolazione locale. Il video racconta il risveglio della città con l’opera e la sorpresa delle persone che, ignare, ne entravano in contatto, ponendo l’accento su come si sia ormai perso il contatto con la violenza di certe parole. Cosa succederebbe se queste frasi diventassero realtà? Saremo pronti ad accettarle o lo facciamo solo quando capita a migliaia di chilometri di distanza? LIVE: PSYCODRUMMERS Gli strumenti musicali che usano sono autocostruiti e il loro intento primario è quello di creare un forte impatto emotivo nel pubblico. Il gruppo degli Psycodrummers nasce a Rovigo e fin da subito si propone in grandi spazi, caratterizzandosi per il forte coinvolgimento che si crea con i partecipanti alle loro performan-ce, grazie ad una potente ispirazione che va dal funk alla samba, dall’hip hop alla cultura giapponese fino alle ritmiche africane. Hanno recentemente partecipato al tour di Giorgia. THE BASTARD SONS OF DIONISO Il gruppo trentino raggiunge nel 2009 la finale di X-Factor, ed è indubbiamente la firma del contratto con la Sony Music e i successivi tour in giro per l’Italia che li fa conoscere al grande pubblico grazie a centinaia di concerti. “Sulla cresta dell’ombra” è il settimo album di “The bastard sons of Dioniso”, un lavoro essenziale in cui il suono elettrico viene messo da parte a favore di suoni acustici, più morbidi ma non meno incisivi. Dodici tracce, tra le quali due inediti e nuovi arrangiamenti di brani del passato.Open act: GIOVI e CONTROTEMPO, due giovanissimi progetti musicali di Rovigo che fuori concorso presenteranno rispettivamente “Occhio non vede cuore non duole” e “Secreti Night”.

VENERDÌ 21 LUGLIO Ore 18.30 Bar ristorante Oasi – Viale dei Pini

Presentazione del Rapporto 2016 – 2017 sui diritti umani nel mondo di Amnesty International, un documento significativo sulla situazione dei diritti umani in 159 paesi, una lettura fondamentale per chi prende decisioni politiche, per gli attivisti e per chiunque sia interessato ai diritti umani. Con il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury, il giornalista Ivan Grozny ed Elena Guerra di “Verità e giustizia per Mauro Guerra” Ore 21.00 Arena Piazzale Europa LIVE: Semifinali concorso:   MASSIMO FRANCESCON BAND con “Sognando la rivoluzione”– Treviso – Folk-Rock Cantautorale La band nasce nel 2013 con il progetto di arrangiare e proporre dal vivo le canzoni di Massimo Francescon. Nel 2013 produce il video e singolo “Sognando la rivoluzione” che racconta i fatti della scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Nel 2014 poi si aggiudica il premio “Voci Nuove”, mentre a settembre del 2015 esce il primo lavoro del gruppo (e secondo del cantautore): “Cuore Nero”. La Massimo Francescon Band si è già aggiudicata il Premio Web Social 2017, grazie ai voti raccolti sul sito e sui profili Facebook e Youtube di Voci per la libertà. ELISA ERIN BONOMO con “Scampo” – Venezia – Alternative rock Cantautrice e chitarrista, comincia a comporre dai 12 anni prevalentemente in lingua inglese per poi passare anche all’italiano verso i 20. Ha fra l’altro scritto uno spettacolo teatrale assieme all’attrice Grazia Raimondo, “BlackOut!”, incentrato sul tema del precariato e dell’immigrazione. Recentemente ha pubblicato, dopo alcuni ep da sola o con La Cantina dei Bardi, “Antifragile”, il suo primo album da solista, un concept album all’inglese (ma cantato in italiano) che parla di cambiamenti, di traslochi, di resilienza. NEVRUZ con “L’immigrato” – Modena – Pop-rock Conosciuto ai più per la sua partecipazione, nel 2010, a X Factor, aveva già all’epoca esperienze di vario tipo in importanti festival. Dopo il talent televisivo ha pubblicato gli album “Tra l’amore e il male” nel 2010 e “La casa e gli spiriti perduti” nel 2012, quest’ultimo prodotto da Elio e le storie tese. Quell’anno il sisma della bassa modenese gli porta via tutto. Si trasforma così in “menestrello delle tende” girando i paesi colpiti con la sua chitarra per cantare canzoni ai terremotati. Nell’autunno 2017 uscirà il suo nuovo disco, intitolato “Il mio nome è nessuno”. CARLO VALENTE con “Crociera Maraviglia” – Rieti – Cantautore “Fisarmonicista per tradizione, pianista per curiosità, chitarrista per sbaglio e cantautore per caso”: così si definisce. Ha aperto concerti della Bandabardò, Tricarico, Max Manfredi ed ha vinto, nel 2015, il Premio DUEL (Cantautori a confronto) e il premio per il miglior testo al Premio Bindi. Il 2 marzo 2017 è uscito il suo primo LP dal titolo “Tra l’altro…”, prodotto e arrangiato da Piergiorgio Faraglia e Francesco Saverio Capo. È finalista delle Targhe Tenco 2017 nella sezione Opera Prima. Frequenta la scuola di alta formazione “Officina Pier Paolo Pasolini” a Roma con la direzione artistica di Tosca. Ospite: DIODATO Torna finalmente con un nuovo progetto discografico uno dei più talentuosi giovani cantautori italiani, è infatti da poco uscito il secondo disco di inediti dal titolo “Cosa siamo diventati”. Sono stati tre anni intensi quelli che dal 2013, anno di uscita del cd di esordio “E forse sono pazzo”, hanno segnato la vita del cantautore. Dalla partecipazione al Festival di Sanremo nel 2014 (categoria “Nuove proposte”) con il bellissimo brano “Babilonia”, alla vittoria del premio “Best New Genera-tion” di Mtv, alle dodici puntate consecutive a “Che tempo che fa” che ha ispirato il disco “A ritrovar Bellezza” del 2014 – personale tributo dell’artista ai grandi della musica italiana – come Sergio Endrigo, Domenico Modugno, Mina, Luigi Tenco, Bruno Lauzi dove ha proposto alcune delle più belle canzoni di sempre. Diodato è pronto ora per una nuova straordinaria avventura.

SABATO 22 LUGLIO

Ore 18.30 Chiosco Bagni Bellarosa Serenella – Lungomare

Presentazione del libro di Savino Zaba “Parole parole…alla radio”, uno squarcio del mondo radiofonico, coniugando in modo singolare l’excursus storico del linguaggio nel nostro Paese alle più preziose testimonianze a riguardo. Con Savino Zaba (Rai1, Radio2), Enrico Deregibus (giornalista) e Michele Grossato. Ore 21.00 Arena Piazzale Europa Live: Semifinali concorso:   TUKURÙ con “Musango” – Bari – Musica afromediterranea È un progetto musicale nato nel 2016. Williams Sassene, già voce nei Negrissim’, con all’attivo vari dischi e tourneè in Africa e in Europa, nato a Parigi, cresciuto a Yaounde’ (Camerun), è autore dei testi e cantante del gruppo. Il suo “hip-hop della foresta” si adagia sui riff di chitarra di Giovanni Ceresoli, che suona anche cavaquinho e percussioni. Con l’ausilio di una loop-station nascono suoni che vanno dal desert-blues all’afrobeat, al funky su cui entrano il violoncello di Nika D’Auria e le tastiere di Domenico Monaco, coppia consolidata in vari progetti di musica elettronica. REGIONE TRUCCO con “Mama don’t cry” – Torino – Indie La band nasce dalla volontà del cantautore Umberto d’Alessandro e dell’etichetta discografica Vollmer Industries di creare un progetto condiviso con i musicisti che da anni lo accompagnano nei suoi concerti. La formazione è composta, oltre che da d’Alessandro, da Andrea Re e Arianna Abate. È imminente, a inizio estate, l’uscita del loro primo album, che vanta la produzione di Cosmo, album anticipato proprio dal video del brano in concorso. A loro è andato il Premio Under 35 di Voci per la libertà, organizzato in collaborazione con Mescalina. ERICA BOSCHIERO con “La memoria dell’acqua” – Treviso – Cantautrice È stata vincitrice del Premio d’Aponte 2008, del Premio Botteghe d’Autore 2009, del Premio Corde Libere 2013, del Premio Lunezia – Future Stelle 2015, ha ricevuto il premio per il Miglior Testo a Musicultura e al Premio Parodi nel 2012. Ha attualmente all’attivo ben cinque diversi spettacoli nati da altrettante collaborazioni. Dopo il suo primo disco, “Dietro ogni crepa di muro”, ad aprile 2015 esce il suo secondo album “Caravanbolero”, che vede la partecipazione tra gli altri di Fausto Mesolella (Avion Travel), Debora Petrina e di un’intera banda di paese. AMARCORD con “I nostri discorsi” – Firenze – Elettro Pop-Rock Nascono dalla convinzione che “niente si ricordi meglio dell’affermazione ‘mi ricordo’ stessa.” Nel 2016 esce l’album di esordio “Vittoria”, promosso con un intenso tour estivo. Hanno vinto il Premio Ernesto de Pascale per la miglior canzone italiana all’interno del Rock Contest Controradio 2015; tale premio permetterà agli Amarcord di registrare il secondo album presso lo ZooStudio di Ligabue, che li ha premiati. Nel 2017 vengono selezionati per le finali di Musicultura e partecipano come vincitori del contest 1MNext al “Concertone” del Primo Maggio a Roma. Ospite: LELE Una storia musicale che inizia studiando il pianoforte all’età di 12 anni al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli e che arriva fino a Sanremo 2017. I primi impegni che lo vedono protagonista anche in tv sono nel 2015, quando Lele partecipa alla terza edizione di “The Voice of Italy” e nell’anno seguente alla quindicesima edizione di “Amici” di Maria De Filippi, entrando al serale nella squadra bianca di Emma ed Elisa. Il 27 maggio 2016 pubblica il suo primo album “Costruire”, che ha dato inizio al suo percorso di musicista, sostenuto anche dall’affetto dei suoi fan (più di 150.000 su Facebook e quasi 500.000 su Instagram). La svolta recente della sua promettente carriera artistica è la partecipazione al festival di Sanremo 2017, che vince nella categoria “Nuove Proposte” con il brano “Ora mai”. É attualmente in radio con il singolo “Così com’è”.

DOMENICA 23 LUGLIO Ore 18.30 Centro Congressi Piazzale Europa

Incontro pubblico Premio Amnesty International Italia con NADA e RICCARDO NOURY Il Premio Amnesty International Italia nasce dalla volontà dell’Associazione Voci per la Libertà e di Amnesty International Italia con lo scopo di coinvolgere artisti affermati a livello nazionale che abbiano pubblicato una canzone per sensibilizzare il pubblico alla difesa dei diritti umani. Nada, con la sua “Ballata triste”, una canzone che ci parla del terribile problema del femminicidio, è la vincitrice del Premio Amnesty International Italia2017 come miglior brano sui diritti umani dell’anno precedente. Le parole di Nada: “Non sono molto abituata a ricevere premi e le volte che mi è capitato ho sempre cercato di non esserci, ma il premio di Amnesty International mi fa davvero felice, soprattutto per questa mia canzone così tremendamente attuale. Da donna cerco di intuire, ma non trovo niente da capire in quello che succede troppo spesso alle donne, che purtroppo, e quasi sempre tra le mura domestiche, vengono distrutte da chi dice di amarle. “Ballata Triste” racconta di una giornata apparentemente normale che finisce in tragedia. L’ho scritta un giorno di getto dopo avere sentito per l’ennesima volta l’orrenda storia di un femminicidio. All’inizio non sapevo se registrarla, mi faceva male, ma poi ho pensato che anche in una canzone si possono raccontare sentimenti di ribellione verso situazioni così drammati-che, con la speranza che una voce fra le tante possa suscitare un po’ più di attenzione. Sono convinta che ci dobbiamo educare fin da bambini a superare nella vita le difficoltà del vivere insieme, e imparare che se finisce un amore si deve riuscire ad avere riguardo per l’altro e per il dolore”.

Ore 21.00 Arena Piazzale Europa Live: Finali concorso con i migliori 5 artisti Premio Amnesty International Italia: NADA Nada ritira il PREMIO AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA per “BALLATA TRISTE”, migliore brano sui diritti umani del 2016, sul femminicidio.

EXTRAFESTIVAL SABATO 29 LUGLIO ore 19.00 Gorino Ferrarese – Crociera musicale sul fiume Po e il suo Delta con concerto acustico di Davidel Fleurs des Maladives – Prenotazione obbligatoria Dall’imbarco di Gorino Ferrarese una crociera sul Po di Goro, durante la quale si vedranno la Sacca di Goro, le valli di Gorino, l’isola del Mezzanino, l’isola del Bacucco, (denominata isola dei Gabbiani), Scannone di Goro (denominato isola dell’ Amore) e la foce del Po di Goro. Non mancherà, come sempre un ottimo accompagnamento musicale: Il frontman Davide di Les Fleures Des Maldives reinterpreterà in chiave acustica i brani del gruppo e alcune cover. Il gruppo è noto per la sua cruda vena cantautorale, un rock italico d’autore già ampiamente riconosciuto dalla critica e premiato dal pubblico. Nel 2014 sono stati finalisti a Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty. Il loro più recente e secondo album “Il rock è morto” è uscito a marzo di quest’anno. A bordo ci saranno inoltre il servizio bar e cucina gestiti dallo staff della motonave. Il servizio cucina comprende le pizze del nostro sponsor ITALPIZZA, insalata di riso e insalatona, torte dolci e salate.

 

Amnesty International Italia

Terzo anniversario del rapimento delle studentesse in Nigeria. Lo ricorda Amnesty International

In occasione del terzo anniversario del rapimento delle 276 studentesse della scuola di Chibok, Amnesty International ha sollecitato le autorità della Nigeria a raddoppiare gli sforzi per ottenere il rilascio delle ragazze ancora sotto sequestro e di centinaia di altre che sono state rapite dal gruppo armato Boko haram nel nord-est del paese.

“Boko haram continua a rapire donne, ragazze e ragazzi che vengono spesso sottoposti a terribili violenze, tra cui stupri e pestaggi, e costretti a compiere attentati suicidi. Purtroppo, molti di questi rapimenti vengono ignorati dai mezzi d’informazione e questo fa sì che le famiglie perdano ogni speranza di riabbracciare i loro cari”, ha dichiarato Makmid Kamara, direttore ad interim di Amnesty International Nigeria.

“Boko haram compie questi terribili rapimenti e altri attacchi, alcuni dei quali costituiscono crimini di guerra su scala quasi quotidiana. Occorre fermarli. Oggi ricordiamo le ragazze di Chibok e siamo solidali con le loro famiglie così come le migliaia di altre persone rapite, uccise o rese profughe dal gruppo armato”, ha proseguito Kamara.

Amnesty International continua a partecipare alla campagna #BringBackOurGirls e sollecita il governo nigeriano ad assicurare il massimo impegno per tutte le persone rapite e a fornire adeguato sostegno alle famiglie. Dall’inizio del 2014, Amnesty International ha documentato almeno altri 41 casi di rapimenti di massa da parte di Boko haram. Se da un lato il governo nigeriano sta facendo notevoli sforzi per liberare le 195 ragazze ancora nelle mani del gruppo armato, le vittime di sequestri di massa meno noti non beneficiano di altrettanto sostegno. “Il governo nigeriano sta facendo passi avanti nel recupero di zone precedentemente controllate da Boko haram ma molto di più dev’essere fatto per impedire ulteriori rapimenti e attentati e per fornire sostegno adeguato a tutte le persone liberate o fuggite dalla prigionia”, ha sottolineato Kamara. “La sanguinosa insurrezione di Boko haram e l’offensiva delle forze di sicurezza per fermarla hanno causato la fuga di oltre due milioni di persone nel nord-est della Nigeria e condotto moltissime persone sull’orlo della fame. È fondamentale, per il bene della popolazione nigeriana, che i responsabili di queste atrocità siano portati di fronte alla giustizia”, ha concluso Kamara.

Dal 2009 Boko haram sta portando avanti una violenta campagna di uccisioni, attentati, rapimenti e saccheggi su scala quasi quotidiana contro la popolazione civile del nord-est della Nigeria. Città e villaggi sono stati devastati. Scuole, chiese, moschee e altri edifici pubblici sono stati attaccati e distrutti. Boko haram si sta accanendo contro i civili intrappolati nelle aree sotto il suo controllo e ha interrotto la fornitura di numerosi servizi pubblici, tra cui soprattutto la sanità e l’istruzione.

Le ricerche condotte da Amnesty International dimostrano che Boko haram si è reso responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità rimasti impuniti. Nell’aprile 2014 Boko haram ha rapito 276 studentesse della scuola secondaria pubblica di Chibok. Questi rapimenti sono un elemento costante della strategia di Boko haram. Il 14 aprile 2015 Amnesty International ha pubblicato un ampio rapporto in cui ha documentato 38 casi del genere. Dall’aprile 2015 migliaia di donne, uomini, ragazzi e ragazze rapiti da Boko haram sono stati liberati o sono riusciti a fuggire dalla prigionia, ma altre migliaia di civili rimangono tuttora nelle mani del gruppo armato.

Amnesty International Italia

Ad Alicia Keys il Premio Amnesty

La celebre musicista di fama mondiale e attivista Alicia Keys e il movimento che lotta per i diritti dei popoli nativi del Canada sono stati insigniti da Amnesty International con il Premio Ambasciatore della Coscienza 2017, che verrà conferito ufficialmente con una cerimonia a Montréal, in Canada, il 27 maggio. A ritirare il premio che onora il movimento per i diritti dei nativi del Canada saranno sei persone che rappresentano la forza e la diversità del movimento che ha coraggiosamente combattuto per porre fine alla discriminazione e per garantire la sicurezza e il benessere delle famiglie e delle comunità native: Cindy Blackstock, Delilah Saunders, Melanie Morrison, il senatore Murray Sinclair, Melissa Mollen Dupuis e Widia Larivière. “Il premio Ambasciatore della Coscienza è la più alta onorificenza di Amnesty International, che celebra coloro che hanno mostrato eccezionale leadership e coraggio nella difesa dei diritti umani”, ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. “Sia Alicia Keys che il movimento per i diritti dei nativi canadesi hanno a loro modo contribuito all’ispirazione e sono stati significativi per la promozione dei diritti umani e assicurare opportunità alle generazioni future. Fondamentalmente, ci ricordano di non sottovalutare mai quanto lontano la passione e la creatività ci possano portare nella lotta contro l’ingiustizia”.

Alicia Keys: dalla musica all’attivismo Alicia Keys ha utilizzato la sua carriera e i suoi 15 Grammy come ispirazione per una campagna rivolta al cambiamento. “Ricevere questo grande onore ed essere insieme al movimento per i diritti degli indigeni è emozionante”, ha detto Alicia Keys. “Mi incoraggia a continuare a denunciare contro l’ingiustizia e a richiamare l’attenzione sulle questioni che sono importanti per me.” Spesso denominata “regina del rythm & blues”, Alicia Keys ha sempre intessuto il suo attivismo con la sua arte. Nella sua vasta attività filantropica ha co-fondato Keep A Child Alive (KCA), un’organizzazione non profit che fornisce trattamenti e cure per i bambini e le famiglie colpite dall’Hiv in Africa e in India. KCA collabora con le organizzazioni di base per progettare, attuare e condividere soluzioni innovative per alcune delle sfide più urgenti in materia di lotta all’Aids. KCA ha raccolto più di 60 milioni di dollari per fornire assistenza a centinaia di migliaia di bambini e alle loro famiglie e per sollecitare maggiore comprensione e sostegno. Nel 2014, ha co-fondato il Movimento Siamo qui per incoraggiare i giovani a mobilitarsi per il cambiamento, ponendo la domanda “Perché sei qui?”, come un invito all’azione. Attraverso questo movimento ha cercato di stimolare il suo pubblico a intervenire su questioni come la riforma della giustizia penale e porre fine alla violenza pistola. Sconvolta dal fatto che ora ci sono più rifugiati nel mondo oggi che in qualsiasi altro momento della storia, nel 2016 la musicista ha contribuito a ideare, e anche a prendervi parte, un cortometraggio dal titolo “Let Me In” in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Con la sua canzone “Hallelujah” al centro, il film pone la questione della crisi dei rifugiati agli spettatori raccontando la potente storia di una giovane famiglia americana costretta a fuggire verso il confine con il Messico. “La nostra coscienza è qualcosa di cui siamo tutti dotati al momento della nascita, non importa chi siamo”, ha detto Alicia Keys. “Quella piccola voce che ti parla e ti dice quando qualcosa non è giusto, la uso sempre come la mia guida. Fin da quando ero una bambina la mia voce interiore mi urlava! Ora dico: dunque, cosa posso fare? Questa è una domanda che possiamo porci e poi agire”.

Una luce splendente per i diritti dei popoli nativi del Canada Nonostante vivano in uno dei paesi più ricchi del mondo le donne, gli uomini e i bambini nativi sono costantemente tra le persone più emarginate della società in Canada. Ora, dopo decenni di silenzio pubblico e apatia, un movimento vivace e diversificato di attivisti ha catturato l’attenzione del pubblico. Quest’anno il premio Ambasciatore della coscienza verrà condiviso tra dirigenti e militanti del movimento che hanno mostrato notevole coraggio nel condurre importanti battaglie per i diritti all’uguaglianza, difendendo il diritto alla terra e mobilitando all’azione nativi e non nativi. Dal dicembre 2012, il movimento di base “Idle No More” ha contribuito a far luce sulla lotta in corso dei nativi per poter decidere autonomamente circa le loro terre, risorse e ambiente. In prima linea in questa protesta sono stati Melissa Mollen Dupuis e Widia Larivière, i co-fondatori del movimento in Québec. Principalmente guidato da donne, il movimento rappresenta una nuova ondata di mobilitazione nativa che dà una piattaforma agli attivisti di base, favorisce l’orgoglio culturale dei giovani nativi e porta nativi e non nativi del Canada a condividere i problemi comuni come l’ambiente e l’economia. Dopo aver appreso la notizia del premio, Melissa Mollen Dupuis e Widia Larivière hanno affermato: “Ricevere un tale prestigioso attestato internazionale è un riconoscimento del lavoro svolto da migliaia di persone che, a modo loro, si impegnano ogni giorno per i diritti dei popoli nativi in un movimento spontaneo e pacifico di cittadini.” “In una società che incoraggia la ricerca del potere e del profitto a scapito del benessere della comunità nel suo insieme, le parole e le azioni della comunità – e di chi al suo interno è più a rischio di subire l’ingiustizia sociale e la discriminazione – sono uno degli strumenti più efficaci di cui disponiamo nella lotta contro gli effetti della colonizzazione in Canada”. Cindy Blackstock spera che il premio contribuirà a focalizzare l’attenzione mondiale sulle ingiustizie ancora prevalenti in Canada. Come leader della Società per la cura dei bambini e delle famiglie delle Prime nazioni, Cindy Blackstock ha condotto una battaglia legale decennale contro il taglio dei finanziamenti dei servizi sociali per i bambini delle Prime nazioni. Nel 2016, la corte per i diritti umani del Canada ha emesso una sentenza che invita il governo federale a prendere misure immediate per porre fine alle sue pratiche discriminatorie. Tuttavia, il governo canadese ha continuato a ritardare la piena attuazione della sentenza, con la conseguenza che i bambini delle Prime nazioni stanno ancora soffrendo per la discriminazione. “La coscienza della gente si sta svegliando di fronte alla discriminazione razziale del governo canadese nei confronti dei bambini e delle famiglie delle Prime nazioni”, ha detto Cindy Blackstock. “Ora la domanda è: Che cosa abbiamo intenzione di fare al riguardo? Stiamo permettendo al Canada di celebrare il suo 150° compleanno mentre si bea nel suo razzismo o vogliamo prendere la parola e chiedere di fermare la discriminazione?”

Il premio Ambasciatore della Coscienza celebra individui e gruppi che hanno dimostrato eccezionale coraggio contro le ingiustizie, usato il loro talento per ispirare gli altri e hanno promosso la causa dei diritti umani. Mira inoltre a creare dibattito, incoraggiare l’azione pubblica e sensibilizzare storie di ispirazione e le questioni dei diritti umani. Il premio è stato ispirato dal poema “Dalla Repubblica di coscienza” scritto per Amnesty International dal compianto poeta irlandese Seamus Heaney. I vincitori delle passate edizioni sono musicisti di fama mondiale e artisti del calibro di Harry Belafonte, Joan Baez e Ai Weiwei, nonché figure ispiratrici tra cui Malala Yousafzai e Nelson Mandela.

Amnesty International Italia

Ministro egiziano per il petrolio a Ravenna

 Sono passati da pochi giorni 14 mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, e il Ministro del petrolio e delle risorse minerarie dell’Egitto, Tarek El Molla, interverrà alla sessione plenaria di apertura dell’Offshore Mediterranean Conference, in programma da domani 29 al 31 marzo a Ravenna. A quella che è considerata la più prestigiosa vetrina internazionale dell’oil&gas prenderà parte anche il direttore dell’Italian Egyptian Oil Company, Fabio Cavanna. L’intervento del ministro El Molla riguarderà il tema della transizione verso un mix energetico sostenibile. Il ministro El Molla parteciperà inoltre a una delle sessioni speciali dedicate al Mediterraneo, nuovo hub del gas per l’Europa anche alla luce delle importanti scoperte effettuate e dei futuri programmi di esplorazione. “Come peraltro più volte confermato da rappresentanti di Eni, i rapporti tra Italia ed Egitto per ciò che riguarda il settore petrolifero vanno avanti senza problemi. Vanno invece avanti faticosamente e con molti problemi le indagini per accertare le responsabilità, in Egitto, della sparizione, della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni” ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. “Non vorremmo che qualcuno dei partecipanti alla Conferenza di Ravenna pensasse che quest’ultimo obiettivo possa essere sacrificato all’esigenza di non compromettere un clima favorevole agli scambi commerciali” ha aggiunto Marchesi. “Per questo, chiediamo ai rappresentanti dell’industria italiana e alle autorità eventualmente presenti di ribadire ancora una volta al ministro El Molla la richiesta al governo egiziano di collaborare in pieno alle indagini della procura di Roma”.

Per maggiori informazioni: appello da firmare per chiedere “Verità per Giulio Regeni” https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/

capitolo relativo all’Egitto tratto dal Rapporto 2016-2017 di Amnesty International https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/medio-oriente-africa-del-nord/egitto/

Amnesty International Italia

In Egitto, secondo Amnesty International, misure cautelari punitive

Amnesty International ha denunciato lo scorso 6 marzo, che le autorità egiziane stanno ricorrendo sempre di più a misure cautelari arbitrarie ed eccessive per perseguitare gli attivisti rilasciati dal carcere, come ad esempio trascorrere fino a 12 ore al giorno nelle stazioni di polizia.

Secondo la normativa vigente in Egitto sulle misure cautelari da eseguire prima del processo o come pena accessoria alla condanna, le persone rilasciate devono trascorrere un certo numero di ore al giorno o alla settimana presso una stazione di polizia.

Amnesty International ha documentato almeno 13 casi in cui nei confronti di attivisti scarcerati sono state imposte misure arbitrarie ed eccessive, addirittura tali da facilitare un ulteriore arresto.

“Le autorità egiziane stanno punendo gli attivisti con misure cautelari eccessive e in alcuni casi addirit tura ridicole, che limitano i loro diritti fondamentali e talvolta costituiscono una vera e propria privazione della libertà. Molte di queste persone erano state accusate o condannate per il loro attivismo pacifico e non avrebbero mai dovuto essere arrestate”, ha dichiarato Najia Bounaim, vicedirettrice per le campagne presso l’ufficio regionale di Amnesty International di Tunisi.

“L’abuso delle misure cautelari è la più recente tattica cui le autorità stanno ricorrendo per stroncare il dissenso. Queste condizioni arbitrarie devono essere abolite e gli attivisti in carcere solo per aver esercitato i loro diritti alla libertà d’espressione o di manifestazione devono essere posti in libertà immediatamente e senza alcuna condizione”, ha aggiunto Bounaim.

Le misure cautelari vengono decise dai giudici ma il numero di ore da trascorrere presso le stazioni di polizia è lasciato alla discrezionalità delle autorità di polizia.

Gli ex detenuti, anziché presentarsi a una stazione di polizia per firmare il registro e poi andar via, hanno l’obbligo di rimanervi anche per 12 ore al giorno, durante le quali non possono ricevere visite né comunicare, se non con agenti di polizia.

Ahmed Maher e Mohamed Adel, due attivisti rilasciati dopo tre anni di carcere per manifestazione non autorizzata, sono sottoposti a tale misura e per questo motivo non possono lavorare, studiare o esprimere liberamente le loro opinioni.

In almeno quattro casi documentati da Amnesty International, attivisti in libertà condizionata sono stati nuovamente arrestati anche se non avevano violato le misure cautelari loro imposte.

Sebbene la legge 99 del 1945 preveda che una persona rilasciata con misura cautelare a suo carico possa trascorrere le ore assegnate a casa, in modo che sia reperibile in caso di ispezioni, la polizia ha ampi poteri di obbligarla a passarle presso una stazione di polizia se risulti complicato effettuare l’ispezione presso il suo domicilio. La legge prevede un anno di carcere per chi viola le misure cautelari imposte, senza specificare in cosa possa consistere la violazione. Gli standard internazionali richiedono alle autorità di illustrare, in forma orale o scritta, le caratteristiche delle misure cautelari non detentive, compresi gli obblighi e i diritti del destinatario di tali misure.

Gli ampi poteri discrezionali, privi di supervisione giudiziaria, affidati alla polizia trasformano di fatto le misure cautelari non detentive in un’altra forma di detenzione.

Queste misure facilitano ulteriori violazioni dei diritti umani ai danni di attivisti già perseguitati dalle autorità, come le detenzioni arbitrarie, i maltrattamenti, le restrizioni arbitrarie alla libertà di movimento e di espressione; possono inoltre interferire nel godimento di altri diritti, come quello al lavoro, allo studio e a un adeguato standard di vita.

“Si tratta di misure arbitrarie ed eccessive, in sintesi un’altra forma di detenzione mascherata. Alcuni attivisti non possono esercitare i lo ro diritti alla libertà di espressione, associazione e movimento anche dopo la fine della pena. Ecco un altro modo con cui il sistema giudiziario egiziano riduce al silenzio e intimidisce le voci critiche”, ha commentato Bounaim.

Secondo la legge egiziana, le misure cautelari possono essere applicate rispetto a un’ampia serie di reati e criminalizzano il diritto di manifestazione pacifica e quello alla libertà di espressione. Le persone condannate ai sensi dell’articolo 375 bis del codice penale per “minaccia alla salute pubblica” o per aver “instillato terrore nella popolazione” possono trascorrere in carcere da 12 mesi a cinque anni seguiti da un analogo periodo di misure cautelari.

Nel caso in cui le misure cautelari siano disposte prima del processo, con la determinazione delle ore da trascorrere presso le stazioni di polizia, è lo stesso giudice a stabilire se e come tali misure siano violate e a ordinare un nuovo arresto. Poiché la legge non specifica in cosa consista la violazione, la polizia ne approfitta per segnalare che la persona oggetto delle misure non si è presentata. In generale, queste misure scoraggiano fortemente gli attivisti dal prendere parte a iniziative pubbliche.

Alcuni casi

Nel dicembre 2013 Ahmed Maher, noto attivista politico e leader del movimento giovanile 6 aprile, è stato condannato per manifestazione non autorizzata a tre anni di carcere e a una multa di circa 7000 euro insieme ad altri due attivisti, Mohamed Adel e Ahmed Douma. Come pena accessoria, sono stati disposti tre anni di misura cautelare.

Il 5 gennaio 2017 si è presentato alla stazione di polizia di al-Tagamu’ al-Khamis per l’avvio della misura cautelare. Lì ha appreso che avrebbe dovuto trascorrervi 12 ore al giorno, dalle 6 di sera alle 6 di mattina: in altre parole, un altro anno e mezzo di detenzione.

Secondo il suo avvocato, Maher si sente come se fosse di nuovo in carcere, limitato nei suoi movimenti e impedito dal prendere parte a ogni attività politica e a esprimere le sue idee. Non può prendersi cura della madre malata, non trova un lavoro e non può proseguire a praticare la sua professione di ingegnere civile.

Poiché nella condanna del dicembre 2013 non era specificato in cosa sarebbe consistita la misura cautelare accessoria alla pena, l’avvocato ritiene che sia stata l’Agenzia per la sicurezza nazionale a indicare alla polizia di tenere sotto controllo Maher per 12 ore al giorno.

Nei primi quattro giorni, Maher è stato costretto a rimanere seduto in un corridoio buio, di fronte a una cella. In seguito, è stato posto in una piccola stanza di un metro e mezzo per due in un sottoscala. Nelle 12 ore che è costretto a trascorrere nella stazione di polizia gli è vietato usare dispositivi elettronici e non può incontrare familiari. A seconda dei turni degli agenti, gli viene negato anche l’uso dei servizi igienici. Ha chiesto un colloquio con la direzione della stazione di polizia, che gli è stato finora negato.

Mohamed Adel (vedi sopra) ha iniziato il periodo di misura cautelare il 22 gennaio 2017. A sua volta, è obbligato a trascorrere 12 ore, dalle 6 di sera alle 6 di mattina, presso la stazione di polizia di Aga, nel governatorato di Dakahlia. Non può usare il telefono cellulare e altri dispositivi elettronici e gli è vietato guardare la televisione. Ha chiesto un giorno alla settimana di annullamento della misura, per poter proseguire gli studi universitari al Cairo, ma la richiesta è stata respinta.

Adel ha dovuto rinviare il matrimonio. Sente di non poter avere la libertà di esprimere le sue idee per il timore che questo potrebbe violare la misura cautelare e comportare un nuovo processo.

Abd el-Azim Ahmed Fahmy, conosciuto come Zizo Abdo, è stato arrestato nel maggio 2016 con l’accusa di istigazione a prendere parte a una manifestazione non autorizzata. Dopo cinque mesi di detenzione preventiva, è stato sottoposto a una misura cautelare consistente nel trascorrere due ore tre volte alla settimana nella stazione di polizia di Bolak al-Dakrour, al Cairo. Il 14 febbraio 2017 un tribunale ha ordinato la fine della misura cautelare e 45 giorni di carcere perché l’8 febbraio non si era presentato alla stazione di polizia. Il motivo: era stato arrestato dalla polizia in un bar e trattenuto per cinque ore in un’altra stazione di polizia…

Il 26 febbraio un tribunale ha accolto l’appello di Fahmy ripristinando l’originale misura cautelare. Fahmy si sente intrappolato tra libertà e prigione, non può lavorare né viaggiare. Evita in tutti i modi ogni coinvolgimento in attività politiche per il timore che ciò comporti una violazione della misura cautelare e dunque il ritorno in carcere.

Khaled el-AnsarySaid Fatallah Ahmed Kamal hanno trascorso sette mesi in detenzione preventiva, per appartenenza a un gruppo illegale chiamato “Giovani del 25 gennaio”, dal 30 dicembre 2015 al 1° agosto 2016. Poi sono stati rilasciati con la misura cautelare di trascorrere quattro ore, dalle 20 alle 24, in tre distinte stazioni di polizia per tre volte alla settimana. Il 7 settembre il periodo è stato ridotto a due ore una volta alla settimana. Due giorni dopo, la procura ha fatto appello e il tribunale ha disposto un nuovo arresto per 45 giorni, nonostante non avessero in alcun modo violato la misura cautelare. Da allora, i 45 giorni di carcere sono stati via via rinnovati, l’ultima volta il 25 febbraio.

El-Ansary e Fatallah hanno intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro il loro trattamento. Secondo la madre di el-Ansary, la misura cautelare e il carcere stanno avendo un effetto assai negativo sugli studi universitari e il lavoro del figlio e sulla vita e la situazione economica della famiglia.

Amnesty International Italia

 

 

 

Una ricerca di Amnesty International sulle App che proteggono la privacy

In una propria ricerca, Amnesty International ha dichiarato che aziende quali Snapchat e Microsoft, proprietaria di Skype, non adottano le protezioni minime in materia di privacy nei loro servizi di messaggistica istantanea, mettendo così a rischio i diritti umani degli utenti. La “Classifica della privacy dei messaggi” realizzata dall’organizzazione per i diritti umani valuta in che modo le 11 aziende produttrici delle più popolari applicazioni di messaggistica usano la crittografia per proteggere la privacy degli utenti e la libertà d’espressione. “Chi pensa che i servizi di messaggistica istantanea siano privati, si sbaglia di grosso: le nostre comunicazioni sono sotto la costante minaccia della cyber-criminalità e dello spionaggio di stato. Sono soprattutto i giovani, i più inclini a condividere fotografie e informazioni personali su app come Snapchat, quelli più a rischio” – ha dichiarato Sherif Elsayed-Ali, direttore del programma Tecnologia e diritti umani di Amnesty International. Secondo Amnesty International, la crittografia end-to-end, grazie alla quale i dati condivisi possono essere visti solo da chi li invia e da chi li riceve, è il requisito minimo che le aziende dovrebbero prevedere per garantire che le informazioni private inviate attraverso le app di messaggistica istantanea rimangano private. Le aziende in fondo alla classifica mancano di un livello adeguato di crittografia. “Spetterebbe proprio alle aziende rispondere alle minacce assai conosciute nei confronti della privacy e della libertà d’espressione dei loro utenti, eppure molte di esse perdono il confronto già a questo primo stadio. Milioni di persone stanno usando app di messaggistica che negano persino la minima protezione della privacy” – ha denunciato Elsayed-Ali. La “Classifica della privacy nei messaggi” di Amnesty International valuta le aziende su una scala di punteggio da 1 a 100 rispetto a questi cinque parametri: – riconoscere le minacce online alla privacy e alla libertà d’espressione dei loro utenti; – prevedere di default la crittografia end-to-end; – informare gli utenti sulle minacce ai loro diritti e sul livello di crittografia impiegato; – rendere noti i dettagli sulle richieste ricevute dai governi di conoscere i dati degli utenti e su come esse hanno risposto; – pubblicare informazioni tecniche sui sistemi di crittografia impiegati.

Tencent, Blackberry e Snapchat rimangono sotto i 30 punti L’azienda cinese Tencent si colloca all’ultimo posto della classifica con zero punti su 100, risultando quella che fa di meno per proteggere la privacy nella messaggistica e anche quella meno trasparente. È seguita da Blackberry e Snapchat, rispettivamente con 20 e 26 punti. Nonostante il suo dichiarato forte impegno in favore dei diritti umani, Microsoft si ferma a 40 punti a causa di un debole sistema di crittografia. Nessuna di queste quattro aziende mette a disposizione un servizio di crittografia end-to-end per le comunicazioni degli utenti. Anche Snapchat, l’azienda statunitense che ha oltre 100 milioni di utenti quotidiani, raggiunge un punteggio basso. Pur avendo dichiarato un forte impegno per la privacy, non protegge abbastanza quella dei suoi utenti. Non ha un sistema di crittografia end-to-end e non è trasparente nell’informare i suoi utenti sulle minacce ai loro diritti umani o sull’uso della crittografia.

Facebook e Apple in testa alla classifica Nessun’azienda garantisce una privacy impenetrabile, ma Facebook – le cui applicazioni Messenger e WhatsApp raggiungono insieme due miliardi di utenti – ottiene il punteggio più alto, 73 su 100. Delle 11 aziende valutate, è quella che usa maggiormente la crittografia per rispondere alle minacce ai diritti umani ed è la più trasparente riguardo alle azioni intraprese. Tuttavia, nonostante preveda l’opzione della crittografia end-to-end nella modalità “conversazione segreta”, l’applicazione Messenger di Facebook utilizza una forma più blanda di crittografia, col risultato che Facebook ha accesso a tutti i dati. WhatsApp prevede la crittografia end-to-end di default e spicca per la chiarezza delle informazioni sulla privacy fornite ai suoi utenti. Apple si colloca a 67 punti su 100. Utilizza la crittografia end-to-end in tutte le comunicazioni delle sue app iMessage e Facetime ma dovrebbe fare di più per informare gli utenti che i loro messaggi via sms sono meno sicuri di quelli inviati tramite iMessage e dovrebbe adottare un protocollo di crittografia più aperto per consentire complete verifiche indipendenti.

La crittografia end-to-end: una protezione basilare prevista da poche aziende Servizi di messaggistica istantanea come WhatsApp, Skype e Viber sono usati quotidianamente da centinaia di milioni di persone, compresi attivisti per i diritti umani, oppositori politici e giornalisti che vivono in paesi nei quali potrebbero trovarsi in grave pericolo per via del loro lavoro. A causa delle grandi fughe di dati che si verificano fin troppo spesso e delle operazioni di sorveglianza di massa dei governi che proseguono incontrastate, il massimo livello di crittografia e la trasparenza su chi può accedere alle informazioni contenute nei messaggi sono fondamentali per la loro protezione. Eppure solo tre aziende – Apple, Line e Viber – hanno raggiunto il massimo punteggio rispetto alla fornitura di default della crittografia end-to-end in tutte le loro applicazioni di messaggistica. “La maggior parte delle aziende non rispetta gli standard sulla protezione della privacy degli utenti. Gli attivisti di ogni parte del mondo fanno affidamento sulla crittografia per proteggersi dallo spionaggio delle autorità ed è inaccettabile che le aziende li mettano in pericolo non affrontando adeguatamente le minacce ai diritti umani” – ha commentato Elsayed-Ali. “Il futuro della privacy e della libertà d’espressione online dipende in larga misura dalle aziende, se forniranno servizi in grado di proteggere le nostre comunicazioni o se invece le serviranno su un piatto a occhi indiscreti” – ha concluso Elsayed-Ali. Amnesty International pertanto sta chiedendo a tutte le aziende di prevedere la crittografia end-to-end di default su tutte le loro applicazioni di messaggistica. In questo modo, potrebbero proteggere i diritti delle persone comuni così come degli attivisti pacifici e delle minoranze perseguitate in ogni parte del mondo, consentendo loro di esercitare la libertà d’espressione. L’organizzazione per i diritti umani chiede inoltre alle aziende di rendere pubblici tutti i dettagli relativi alle politiche e alle prassi che hanno adottato per adempiere alla loro responsabilità di rispettare il diritto alla privacy e alla libertà d’espressione.

Ulteriori informazioni La “Classifica della privacy dei messaggi” non valuta la sicurezza delle applicazioni e non va considerata come suggerimento a giornalisti, attivisti, difensori dei diritti umani e altre persone che rischiano di subire violazioni di usare un’applicazione piuttosto che un’altra. Inoltre, non valuta il comportamento complessivo delle aziende nel campo dei diritti umani o il livello di privacy in tutti i servizi da loro forniti. Amnesty International ha scritto alle 11 aziende valutate, richiedendo informazioni sugli standard di crittografia in vigore e sulle politiche e le prassi adottate per assicurare l’adempimento alle responsabilità sui diritti umani in relazione ai servizi di messaggeria istantanea. Blackberry, Google e Tencent non hanno risposto.

Il rapporto “For your eyes only? Ranking 11 technology companies on encryption and human rights” è online all’indirizzo: http://www.amnesty.it/snapchat-e-skype-tra-le-app-che-non-proteggono-la-privacy-degli-utenti

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Un anno dall’accordo tra UE e Turchia. Il parere di Amnesty International

In occasione del primo anniversario dell’accordo tra Unione Europea e Turchia, firmato il 18 marzo 2016 ed entrato in vigore due giorni dopo, Amnesty International ha parlato di “una vergognosa macchia sulla coscienza collettiva dell’Europa”, che ha causato la sofferenza di migliaia di migranti e rifugiati. L’accordo, finalizzato al rinvio dei richiedenti asilo in Turchia e fondato sulla premessa che la Turchia sia un paese sicuro per loro, non ha raggiunto gli obiettivi che si era dato ma ha lasciato migliaia di persone in condizioni squallide e insalubri sulle isole della Grecia. “Oggi ricordiamo un giorno nero nella storia della protezione dei rifugiati: un giorno in cui i leader europei hanno cercato di svincolarsi dai loro obblighi internazionali, incuranti del costo che ciò avrebbe comportato in termini di miseria umana”, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International. “Un anno fa, le isole greche sono state trasformate in campi di sosta e le coste europee da luogo di rifugio sono diventate luogo di pericolo. A un anno di distanza, migliaia di persone restano bloccate in un limbo rischioso, disperato e apparentemente senza fine”, ha aggiunto Dalhuisen. Nella maggior parte dei casi, i richiedenti asilo non possono lasciare le isole greche. Sono fermi in luoghi sovraffollati e squallidi e a volte sono vittime di crimini d’odio. A Lesbo cinque rifugiati, tra cui un bambino, sono morti in circostanze fortemente legate a questa situazione. Sebbene i leader europei continuino a fingere che la Turchia è un paese sicuro, finora i tribunali greci hanno bloccato il ritorno dei richiedenti asilo siriani in Turchia. Amnesty International ha tuttavia rilevato che alcuni richiedenti asilo provenienti dalla Siria sono stati rinviati con la forza in Turchia in violazione del diritto internazionale, senza neanche avere accesso alla procedura d’asilo e senza poter contestare la decisione. Altri hanno fatto ritorno “volontariamente” in Turchia a causa delle misere condizioni in cui si trovavano sulle isole greche. L’anniversario dell’accordo coincide con la scadenza imposta a un gruppo di avvocati per produrre ulteriori prove su un caso attualmente all’esame del più alto tribunale amministrativo greco, che determinerà se davvero la Turchia può essere considerata un “paese sicuro” per i rifugiati. Il caso è quello di un richiedente asilo siriano di 21 anni, “Noori” (il suo vero nome è celato per motivi di sicurezza), detenuto illegalmente da sei mesi, dopo che la sua richiesta d’asilo era stata giudicata inammissibile in quanto il tribunale di primo grado aveva ritenuto la Turchia “paese terzo sicuro”. A seconda della sentenza del tribunale, attesa entro la fine di marzo, potrà essere immediatamente rimandato in Turchia. Il verdetto potrebbe costituire un precedente e aprire le porte a ulteriori rinvii. Invece di cercare di rimandare richiedenti asilo e rifugiati in Turchia, dove non ricevono effettiva protezione, l’Unione europea dovrebbe collaborare con le autorità greche per trasferire urgentemente i richiedenti asilo sulla terraferma ed esaminare i loro casi. I governi europei dovrebbero metter loro a disposizione posti per la ricollocazione o ulteriori percorsi legali e sicuri per raggiungere altri paesi europei, ad esempio attraverso visti umanitari o riunificazioni familiari. Nonostante il suo palese fallimento e le evidenti violazioni del diritto internazionale, l’accordo con la Turchia viene citato da alcuni leader europei come un modello da replicare in accordi con altri paesi. “Il fatto che i leader europei salutino come un successo un accordo che ha causato sofferenze incalcolabili mette in evidenza una verità: l’accordo tra Unione europea e Turchia non ha niente a che fare con la protezione dei rifugiati e ha tutto a che fare col proposito di tenerli fuori dall’Europa”, ha sottolineato Dalhuisen. “Questo accordo è una macchia sulla coscienza collettiva dell’Europa. Non dev’essere visto come un modello da imitare ma come un modello di disperazione per migliaia di persone che sono fuggite da guerre e conflitti in cerca di protezione”, ha concluso Dalhuisen.
Per maggiori informazioni: rapporto “A blueprint for despair. Human rights impact of the EU Turkey deal” (14 febbraio 2017) https://www.amnesty.it/unione-europea-alto-costo-umano-dellaccordo-la-turchia-sui-rifugiati-replicarlo-altrove/ capitolo sulla Turchia tratto dal Rapporto 2016-2017 di Amnesty International https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/europa/turchia/

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Olio di palma. Le accuse di Amnesty International

Amnesty International ha accusato l’azienda agro-alimentare Wilmar di tentare di nascondere le denunce di abusi nelle piantagioni di palme da olio, favorita dall’assenza di indagini da parte del governo dell’Indonesia.

Nonostante le autorità indonesiane avessero annunciato la costituzione di una task force per verificare quanto aveva denunciato Amnesty International in un suo rapporto del novembre 2016, non è stato registrato alcun passo avanti nelle indagini. Nel frattempo, la Wilmar cerca di intimidire i suoi impiegati affinché neghino i fatti.

“I lavoratori delle piantagioni vivono nel timore di subire rappresaglie per aver reso pubbliche le loro misere condizioni di lavoro, tra cui il trasferimento in un’altra piantagione lontano dalle famiglie o addirittura la perdita dell’impiego”, ha dichiarato Seema Joshi, direttrice del team Imprese e diritti umani di Amnesty International.

“La loro difficile situazione è tutt’altro che agevolata dalla completa mancanza d’azione del governo indonesiano su quanto denunciato nel nostro rapporto dello scorso novembre”, ha aggiunto Joshi.

A gennaio, durante un incontro con le rappresentanze sindacali, la Wilmar ha preteso che i lavoratori firmassero un documento in cui smentivano che gli abusi denunciati da Amnesty International avessero luogo nelle loro piantagioni.

“Qualsiasi dichiarazione estorta dalla Wilmar mediante coercizione, anche con la minaccia di licenziamento, non è valida dal punto di vista legale. L’atteggiamento dell’azienda è molto preoccupante dato che sta cercando di screditare pubblicamente le prove raccolte da Amnesty International”, ha commentato Joshi.

Wilmar ha deciso di ricorrere a questa tattica dopo che la stampa aveva diffuso la notizia che il governo indonesiano avrebbe svolto un’indagine approfondita sulle denunce contenute nel rapporto di Amnesty International.

“Siamo contenti che il governo indonesiano abbia preso quell’impegno, ma nei tre mesi successivi alla pubblicazione del rapporto non abbiamo visto nulla. Ribadiamo la necessità di un’indagine urgente”, ha sottolineato Joshi.

“Alla luce del tentativo della Wilmar di screditare il nostro rapporto e della sua mancanza di azione su quanto abbiamo denunciato, il governo indonesiano deve rispettare l’impegno a istituire una task force per indagare”, ha precisato Joshi.

L’ufficio di Singapore della Wilmar ha diffuso una nota secondo la quale le denunce di Amnesty International sono sotto esame e le indagini interne proseguiranno fino a quando non giungeranno a una conclusione, che verrà resa pubblica. Le firme dei sindacalisti, continua la nota, sono state apposte volontariamente.

La dichiarazione della Wilmar, tuttavia, sembra in contrasto con l’approccio adottato dietro le quinte.

Il rapporto “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti”, pubblicato da Amnesty International il 29 novembre 2016, ha rivelato le condizioni di lavoro nelle piantagioni della Wilmar in Indonesia: lavoro minorile, lavoro forzato, esposizione ad agenti pericolosi e discriminazione contro le donne. Si tratta di pratiche vietate dalla legge indonesiana, in alcuni casi veri e propri reati.

Tre mesi dopo la pubblicazione del rapporto, nessuno dei marchi menzionati ha preso misure per porre fine agli abusi nei confronti dei lavoratori nelle piantagioni di cui si servono né ha fornito alcun rimedio a coloro che li hanno subiti.

Nonostante si sia impegnata a indagare sulle conclusioni del rapporto di Amnesty International, ricorrendo anche a consulenti esterni, Amnesty International non ha riscontrato alcuna convincente prova che la Wilmar abbia preso seriamente in esame le conclusioni del rapporto, tra cui l’impiego di lavoro minorile, lo sfruttamento della forza lavoro femminile e il mancato rispetto delle paghe minime.

 

Amnesty International Italia

Secondo Amnesty, i marchi che usano olio di palma beneficiano di lavoro minorile

I principali marchi mondiali di cibo e prodotti domestici stanno vendendo alimenti, cosmetici e altri beni di uso quotidiano contenenti olio di palma ottenuto attraverso gravi violazioni dei diritti umani in Indonesia, dove bambini anche di soli otto anni lavorano in condizioni pericolose. Lo ha denunciato Amnesty International, in un rapporto intitolato “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti”. Il rapporto è il risultato di un’indagine sulle piantagioni dell’Indonesia appartenenti al più grande coltivatore mondiale di palme da olio, il gigante dell’agro-business Wilmar, che ha sede a Singapore, fornitore di nove aziende mondiali: AFAMSA, ADM, Colgate-Palmolive, Elevance, Kellogg’s, Nestlé, Procter & Gamble, Reckitt Benckiser e Unilever. “Le aziende stanno chiudendo un occhio di fronte allo sfruttamento dei lavoratori nella loro catena di fornitura. Nonostante assicurino i consumatori del contrario, continuano a trarre benefici da terribili violazioni dei diritti umani. Le nostre conclusioni dovrebbero scioccare tutti quei consumatori che pensano di fare una scelta etica acquistando prodotti in cui si dichiara l’uso di olio di palma sostenibile” – ha dichiarato Meghna Abraham di Amnesty International, che ha condotto l’indagine. “Grandi marchi come Colgate, Nestlé e Unilever garantiscono ai loro consumatori che stanno usando olio di palma sostenibile ma le nostre ricerche dicono il contrario. Non c’è nulla di sostenibile in un olio di palma che è prodotto col lavoro minorile e forzato. Le violazioni riscontrate nelle piantagioni della Wilmar non sono casi isolati ma il risultato prevedibile e sistematico del modo in cui questo produttore opera” – ha aggiunto Abraham. “C’è qualcosa che non va se nove marchi, che nel 2015 hanno complessivamente fatturato utili per 325 miliardi di dollari, non sono in grado di fare qualcosa contro l’atroce sfruttamento dei lavoratori dell’olio di palma che guadagnano una miseria” – ha commentato Abraham. Amnesty International avvierà una campagna per chiedere alle aziende di far sapere ai consumatori se l’olio di palma contenuto in noti prodotti come il gelato Magnum, il dentifricio Colgate, i cosmetici Dove, la zuppa Knorr, la barretta di cioccolato KitKat, lo shampoo Pantene, il detersivo Ariel e gli spaghetti Pot Noodle proviene o meno dalle piantagioni indonesiane della Wilmar.

Sistematiche violazioni nella catena di fornitura Amnesty International ha intervistato 120 lavoratori delle piantagioni di palma di proprietà di due sussidiarie della Wilmar e per conto di tre fornitori di quest’ultima nelle regioni indonesiane di Kalimantan e Sumatra. Questi sono i principali risultati: – donne costrette a lavorare per molte ore dietro la minaccia che altrimenti la loro paga verrà ridotta, con un compenso inferiore alla paga minima (in alcuni casi, solo 2,50 dollari al giorno) e prive di assicurazione sanitaria e di trattamento pensionistico; – bambini anche di soli otto anni impiegati in attività pericolose, fisicamente logoranti e talvolta costretti ad abbandonare la scuola per aiutare i genitori nelle piantagioni; – lavoratori gravemente intossicati da paraquat, un agente chimico altamente tossico ancora usato nelle piantagioni nonostante sia stato messo al bando nell’Unione europea e anche dalla stessa Wilmar; – lavoratori privi di strumenti protettivi della loro salute, nonostante i rischi di danni respiratori a causa dell’elevato livello di inquinamento causato dagli incendi delle foreste tra agosto e ottobre 2015; – lavoratori costretti a lavorare a lungo, a costo di grave sofferenza fisica, per raggiungere obiettivi di produzione ridicolmente elevati, a volte usando attrezzature a mano per tagliare frutti da alberi alti 20 metri; – lavoratori multati per non aver raccolto in tempo i frutti dal terreno o per aver raccolti frutti acerbi. La Wilmar ha ammesso l’esistenza di problemi relativi al lavoro nelle sue attività. Ciò nonostante, l’olio di palma proveniente da tre delle cinque piantagioni indonesiane su cui Amnesty International ha indagato è stato certificato come “sostenibile” dal Tavolo sull’olio di palma sostenibile, un organismo istituito nel 2004 dopo uno scandalo ambientale. “Il nostro rapporto mostra chiaramente che le aziende usano quell’organismo come uno scudo per evitare controlli. Sulla carta hanno ottime politiche, ma nessuna ha potuto dimostrare di aver identificato rischi di violazioni nella catena di fornitura della Wilmar” – ha dichiarato Seema Joshi, direttrice del programma Imprese e diritti umani di Amnesty International.

Dubbi sulle dichiarazioni di “sostenibilità” Esaminando la documentazione sulle esportazioni e altre informazioni pubblicate dalla Wilmar, le ricerche di Amnesty International hanno rintracciato olio di palma in nove marchi globali di cibo e prodotti domestici. Sette di questi hanno confermato di utilizzare olio di palma fornito dalla Wilmar ma solo due (Kellogg’s e Reckitt Benckiser) hanno accettato di fornire dettagli sui prodotti coinvolti. Otto su nove di questi marchi fanno parte del Tavolo sull’olio di palma sostenibile e sui loro siti o sulle tabelle nutrizionali dichiarano di usare “olio di palma sostenibile”. Le nove aziende non hanno smentito l’esistenza di violazioni ma non hanno fornito alcun esempio di azioni intraprese su come vengono trattati i lavoratori nelle attività della Wilmar. “I consumatori vorrebbero sapere quali prodotti sono legati alle violazioni dei diritti umani ma le aziende mantengono una grande segretezza” – ha commentato Joshi. “Le aziende devono essere più trasparenti su cosa contengono i loro prodotti. Devono dichiarare da dove vengono le materie prime contenute nei prodotti che si trovano sugli scaffali dei supermercati. Se non lo faranno, beneficeranno e in qualche modo contribuiranno alle violazioni dei lavoratori. Attualmente, stanno mostrando una completa mancanza di rispetto nei confronti di quei consumatori che, quando si recano alla cassa, pensano di aver fatto una scelta etica” – ha aggiunto Joshi. Il lavoro minorile Il rapporto di Amnesty International denuncia che bambini da otto a 14 anni svolgono lavori pericolosi nelle piantagioni possedute e dirette dalle sussidiarie e dai fornitori della Wilmar. Lavorano senza equipaggiamento di sicurezza in piantagioni dove vengono usati pesticidi tossici e trasportano sacchi di frutti che possono pesare da 12 a 25 chili. Alcuni di loro abbandonano la scuola per dare una mano ai genitori nelle piantagioni, altri lavorano il pomeriggio dopo la scuola o nei fine settimana e nei giorni festivi. Un bambino di 14 anni che raccoglie e trasporta frutti di palma in una piantagione della Wilmar ha raccontato di aver lasciato la scuola a 12 anni perché suo padre si era ammalato e non era più in grado di raggiungere gli obiettivi di produzione. Con lui lavorano, al termine dell’orario scolastico, i suoi fratelli di 10 e 12 anni. “Aiuto mio padre ogni giorno, da due anni. Ho studiato fino alla sesta classe poi mi sono messo a lavorare con mio padre, perché lui non ce la faceva più, si era ammalato. Mi dispiace aver abbandonato la scuola. Avrei voluto continuare per diventare più bravo. Avrei voluto fare l’insegnante”. Il lavoro, che richiede un enorme sforzo fisico, può causare danni alla salute dei bambini. Uno di loro, che oggi ha 10 anni, ha a sua volta abbandonato la scuola quando ne aveva otto per lavorare in una piantagione della Wilmar. Si sveglia alle sei del mattino e lavora sei ore al giorno, esclusa la domenica: “Non vado più a scuola. Trasporto i sacchi coi frutti ma riesco a riempirli solo a metà. Sono pesanti. Lo faccio anche se piove ma è più difficile. Mi bruciano le mani e mi duole il corpo”.

Le lavoratrici Il rapporto di Amnesty International denuncia la discriminazione nei confronti delle donne, assunte giorno per giorno senza garanzie d’impiego permanente e benefici sociali come l’assicurazione sulla salute e la pensione. Amnesty International ha anche documentato casi di lavoro forzato e di capisquadra che sfruttano le donne minacciandole di non pagarle o di ridurle la paga. Una donna ha raccontato come sia stata costretta a lavorare di più attraverso minacce implicite ed esplicite: “Se non raggiungo gli obiettivi, mi impongono di lavorare di più ma senza paga. Io e la mia amica abbiamo detto al caposquadra che eravamo stanche e volevamo andare via ma lui ci ha detto ‘se non avete voglia di lavorare, andate a casa e non tornate più’. Come si fa a lavorare con questi obiettivi impossibili? Mi bruciano i piedi, mi bruciano le mani e mi fa male la schiena”. L’Indonesia ha una legislazione sul lavoro molto solida, in base alla quale la maggior parte di questi trattamenti costituirebbero reati penali, ma viene applicata malamente. Amnesty International chiede al governo indonesiano di migliorare la sua applicazione e indagare sulle violazioni denunciate nel rapporto.

Ulteriori informazioni Le ricerche di Amnesty International hanno rintracciato olio di palma lavorato da raffinerie e frantoi proveniente dalle piantagioni esaminate, in sette delle nove aziende: AFAMSA, ADM, Colgate-Palmolive, Elevance, Nestlé, Reckitt Benckiser e Kellogg’s attraverso una sua joint-venture. Le altre due, Procter & Gamble e Unilever, hanno confermato ad Amnesty International che usano olio di palma proveniente dalle piantagioni della Wilmar in Indonesia ma non hanno specificato esattamente da quale raffineria si riforniscono. Poiché Amnesty International ha rintracciato olio di palma dalle piantagioni oggetto della sua ricerca in 11 delle 15 raffinerie della Wilmar, è assai possibile che queste due aziende si riforniscano da almeno una di queste raffinerie. Amnesty International ha chiesto alle aziende di chiarire se l’olio di palma dichiarato nel contenuto di una lista di prodotti provenga da attività della Wilmar in Indonesia. Due di loro, Kellogg’s e Reckitt Benckiser, hanno confermato. Colgate e Nestlé hanno ammesso di ricevere olio di palma dalle raffinerie indonesiane della Wilmar. Il rapporto di Amnesty International collega queste raffinerie alle piantagioni che ha indagato. Colgate e Nestlé hanno però dichiarato che nessuno dei prodotti elencati nel rapporto di Amnesty International contiene olio di palma proveniente dalle piantagioni della Wilmar, tuttavia non hanno reso noto quali altri prodotti invece lo contengono. Due altre aziende, Unilever e Procter & Gamble, non hanno corretto l’elenco dei prodotti fornito da Amnesty International. Le rimanenti tre, infine, hanno risposto in modo vago o non hanno risposto affatto. Il rapporto “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti” è disponibile presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia e all’indirizzo: http://www.amnesty.it/marchi-usano-olio-palma-beneficiano-del-lavoro-minorile-forzato.

Amnesty International Italia

Auto elettriche alimentate con il lavoro minorile? Una ricerca di A.I.

Alla vigilia del Motor Show di Parigi, dove verranno presentati alcuni nuovi modelli, Amnesty International ha sollecitato i principali produttori di auto elettriche a informare i consumatori sulle verifiche che stanno facendo per assicurare che la catena di rifornimento non si basi sul lavoro minorile e a rendere note le loro conclusioni.

General Motors (GM), Renault-Nissan e Tesla non hanno comunicato quali misure abbiano adottato per as sicurare che il cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo da bambini anche di soli sette anni non sia usato nelle batterie che alimentano le loro auto elettriche.

“Le auto elettriche potrebbero non essere così pulite come si pensa. I consumatori devono avere la certezza che le loro auto verdi non siano collegate alla miseria del lavoro minorile. I frequentatori del Motor Show di Parigi comprerebbero un’auto se sapessero che è costata l’infanzia di qualcuno?” – ha dichiarato Mark Dummett, ricercatore di Amnesty International su imprese e diritti umani.

“Dalle ricerche di Amnesty International emerge un sostanziale rischio che il cobalto estratto dai bambini finisca nelle batterie delle auto elettriche. Siccome questi veicoli vengono presentati come una scelta etica per automobilisti consapevoli dal punto di vista ecologico e sociale, le aziende che li producono devono chiarire e dimostrare che agiscono con diligenza nel procurarsi i materiali con cui li fabbricano” – ha proseguito Dummett.

Il cobalto è un componente fondamentale delle batterie al litio che alimentano le auto elettriche. Più della metà delle riserve mondiali di cobalto si trova nella Repubblica Democratica del Congo, dove si calcola il 20 per cento sia estratto a mano.

In un rapporto diffuso nel gennaio 2016, intitolato “Ecco ciò per cui moriamo”, Amnesty International aveva denunciato che bambini anche di soli sette anni lavorano in condizioni terribili nelle miniere artigianali di cobalto del sud del paese, senza la minima protezione, anche 12 ore al giorno per uno o due dollari, rischiando fortemente di perdere la vita in incidenti mortali (80 casi tra settembre 2014 e dicembre 2015) e di contrarre malattie a lungo termine ai polmoni.

Il rapporto citava i dati dell’Unicef secondo i quali nel 2014 circa 40.000 bambini lavoravano nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo, la maggior parte dei quali estraendo cobalto.

Le ricerche di Amnesty International rese pubbliche alla vigilia del Motor Show di Parigi hanno identificato cinque aziende automobilistiche a rischio. Da fonti giornalistiche e/o comunicati stampa aziendali, è emerso che il produttore sud-coreano LG Chem fornisce batterie alla General Motors per la Chevrolet Volt, alla Renault-Nissan per i modelli Twizy e Zoe e alla Tesla per la nuova versione del modello Roadster.

Un’altra compagnia sud-coreana, la Samsung SDI, rifornisce la BMW per i modelli i3 EV e i8 HPEV) e la Fiat-Chrysler per la 500 EV. Le due fabbriche automobilistiche lo hanno confermato in forma scritta ad Amnesty International.

Nel suo rapporto del 2016, Amnesty International aveva messo in luce il rischio che altre aziende automobilistiche (tra cui Daimler, Volkswagen e la cinese BYD) stessero usando cobalto proveniente dalle miniere della Repubblica Democratica del Congo, dove non solo i bambini ma anche gli adulti lavorano in condizioni prive di sicurezza.

Il cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo è acquistato da una compagnia cinese (la Huayou Cobalt) che fornisce componenti per batterie a produttori in Cina e Corea del Sud, tra cui LG Chem e Samsung SDI che a loro volta riforniscono molte delle più importanti aziende automobilistiche del mondo.

Replicando al rapporto di Amnesty International, Daimler aveva dichiarato che non si rifornisce direttamen e nella Repubblica Democratica del Congo né da fornitori di quel paese. Volkswagen aveva negato di avere rapporti con la Huayou Cobalt. Entrambe avevano aggiunto, senza però fornire prove, che si stavano impegnandosi maggiormente per scoprire violazioni dei diritti umani lungo la catena di rifornimento del cobalto. Purtroppo, nessuna delle due aziende ha rivelato l’identità dei suoi fornitori né se abbia valutato l’adeguatezza delle modalità estrattive. La BYD non ha risposto affatto.

BMW e Fiat-Chrysler più sensibili al tema dei diritti umani, ma ancora lontane dagli standard internazionali

Rispetto alle nuove ricerche condotte da Amnesty International, General Motors e Tesla non hanno fornito prove su come riescano a identificare e a intervenire su violazioni dei diritti umani nella catena di rifornimento del cobalto, soprattutto in relazione al lavoro minorile. Renault-Nissan si è impegnata a farlo “il più presto possibile” senza fornire ulteriori dettagli.

Al contrario, BMW e Fiat-Chrysler hanno inviato risposte dettagliate, anche se non hanno fornito prove sufficienti sul rispetto, da parte loro, degli standard internazionali in materia di forniture di minerali.

BMW ha dichiarato che analizza la catena di rifornimento del cobalto dal 2013 e che sta lavorando insieme ai fornitori per identificare l’origine dell’estrazione. Non ha tuttavia fatto nomi. Ha aggiunto che Huayou Cobalt non è un suo fornitore e che ha ricevuto assicurazioni dal suo fornitore effettivo, Samsung SDI, che Huayou Cobalt non fa parte della catena di rifornimento. BMW non ha fornito dettagli su eventuali verifiche indipendenti sulle dichiarazioni della Samsung SDI.

Fiat-Chrysler, che a sua volta acquista batterie dalla Samsung SDI, ha dichiarato che Huayou Cobalt non fa parte dei suoi fornitori e pare anche in questo caso di essersi fidata delle dichiarazioni della Samsung SDI. Ha poi ammesso di non aver attivato un programma per identificare gli estrattori e i raffinatori del cobalto. Ciò ha portato Amnesty International a concludere che Fiat-Chrysler non è in grado di valutare se il cobalto estratto dai bambini della Repubblica Democratica del Congo entri o meno nella sua catena di rifornimento.

Secondo le linee guida emanate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, le aziende che utilizzano cobalto estratto in zone a rischio devono identificare coloro che lo estraggono e coloro che lo raffinano e rendere pubbliche le loro valutazioni se chi lo estrae segua con diligenza le procedure per identificare ed evitare rischi di violazione dei diritti umani.

Nessuna delle aziende produttrici di auto elettriche potrebbe oggi dimostrare che sta rispettando queste linee guida.

Amnesty International pertanto continua a chiedere a tutte le aziende multinazionali che usano batterie al litio di dimostrare che stanno applicando quelle linee guida e di essere trasparenti sui risultati delle loro indagini. È fondamentale che queste aziende rendano pubbliche sufficienti informazioni sulle violazioni dei diritti umani da esse eventualmente riscontrate.

L’azione volontaria non basta. Amnesty International chiede ai governi di approvare leggi che richiedano alle aziende di verificare, e rendere pubbliche le informazioni relative, l’origine delle fonti di minerali e l’identità di chi le rifornisce.

Oggi il mercato globale del cobalto è privo di regole. Il cobalto non rientra nell’elenco statunitense dei “materiali provenienti da zone di conflitto”, di cui invece fanno parte l’oro, il coltan, lo stagno e il tungsteno estratti nella Repubblica Democratica del Congo.

In Francia, l’Assemblea nazionale ha approvato una legge che, una volta ottenuto il voto favorevole del Senato a ottobre, obbligherebbe le grandi aziende come la Renault a prevenire violazioni dei diritti umani lungo la catena di rifornimento e stabilirebbe sanzioni per non aver vigilato.

“Si tratta di un grande esempio di come lo stato possa pretendere che le aziende prendano sul serio le questioni relative ai diritti umani e si assumano le loro responsabilità” – ha commentato Dummett.

“Senza una legislazione che renda obbligatoria la due diligence sui diritti umani, le grandi aziende continueranno a evitare l’argomento e a trarre beneficio dal lavoro minorile e da altre violazioni” – ha concluso Dummett.

 

Il rapporto “Ecco ciò per cui moriamo” del gennaio 2016 è online all’indirizzo:

http://www.amnesty.it/amnesty-international-e-afrewatch-lavoro-minorile-e-sfruttamento-per-il-cobalto-degli-smartphone-e-delle-batterie-delle-automobili

 

Amnesty International Italia