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La mostra fa il punto sulle indagini archeologiche in corso a Dos dell’Arca, piccola collina sul versante orientale della Valle Camonica, che – insieme agli altri tre dossi vicini (Piè, Fondo Squaratti e Quarto Dosso) – presenta rilevanti tracce di frequentazione umana dal Neolitico all’età del Ferro ed è tra i contesti più interessanti per la ricerca archeologica e per l’arte rupestre del territorio camuno.
L’esposizione, frutto della collaborazione tra la Direzione regionale Musei nazionali Lombardia, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Bergamo e Brescia e l’Università degli Studi di Pavia, è un viaggio alla scoperta di relazioni e contatti dentro e fuori la Valle Camonica e ruota attorno al binomio archeologia e arte rupestre. E non poteva essere diversamente in un territorio famoso in tutto il mondo per le sue incisioni, divenute patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1979.
Segnalato per la prima volta nel 1957 da Gualtiero Laeng, naturalista che ha legato il suo nome alla scoperta dell’arte rupestre camuna nel 1909, Dos dell’Arca fu oggetto di ulteriori indagini archeologiche nel 1962, con la campagna di scavi guidata da Emmanuel Anati. I reperti emersi nel corso degli scavi, datati tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro (II-I millennio a.C.), fanno parte dal 2014 dell’esposizione permanente del MUPRE.
Tra il 2016 e il 2023, a distanza di oltre 60 anni, sono state condotte nuove ricerche in concessione ministeriale dirette dall’Università degli Studi di Pavia con il “Progetto Quattro Dossi”, che gettano nuova luce sulla vita di questo dosso e degli altri tre con cui era in relazione: Pié, Fondo Squaratti e il Quarto Dosso.
I principali risultati di queste ricerche, esposti qui per la prima volta, raccontano, insieme alle incisioni rupestri, le articolate e complesse vicende di Dos dell’Arca dal Neolitico fino alla romanizzazione, lungo 4000 anni di storia.
MUPRE – Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica, Via S. Martino, 7 – 25044 Capo di Ponte (BS), Tel. +39 0364 42403. La mostra resterà aperta fino all’8 giugno prossimo.
Orari: martedì – venerdì 10.00-16.00; sabato e domenica 10.00-13.00 e 14.00-18.00. Lunedì chiuso. Biglietto intero: 5 €; Ridotto: 2 € (18 – 25 anni); Gratuito minori di 18 anni.
Il MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna ha un nuovo spazio di sperimentazione creativa, luogo versatile di condivisione e di partecipazione nel quale si condenseranno e si ibrideranno funzione espositiva e funzione laboratoriale: la Arts & New Media Room, che rappresenta l’anima più innovativa e sperimentale del museo. Con il nuovo spazio ci si prefigge di stimolare nuovi ed inconsueti processi creativi ospitando periodicamente eventi espositivi dedicati ai più innovativi territori della contemporaneità, installazioni ambientali, performance, ma anche momenti di formazione con esperti, laboratori e residenze artistiche, che consentiranno inoltre di sondare il rapporto fra la creatività artistica e le nuove frontiere della tecnologia.
“La Arts & New Media Room ospita Spazio Neutro, un percorso espositivo curato direttamente dal museo e nel contempo è il punto di contatto con l’effervescente creatività che gravita attorno al MAR, che trova così nuovi spazi e nuove opportunità. Prosegue quindi il percorso per rendere il MAR sempre più aperto, connesso e accessibile. Una piattaforma di socialità, attenta al benessere dei cittadini, che fa delle relazioni e dell’innovazione la sua cifra distintiva” (Roberto Cantagalli, direttore del MAR ).
L’attivazione dell’Arts & New Media Room è stata resa possibile grazie alle risorse derivanti dal progetto di inclusione digitale Digital Unite, finanziato con fondi PR FESR-Regione Emilia-Romagna 2021/27 e dal progetto VALUE PLUS, finanziato nell’ambito del programma europeo Interreg Italia – Croazia 2021/27.
“Con il progetto Spazio Neutro il MAR si arricchisce di un nuovo luogo e una nuova funzione. Una Project Room pensata, come avviene in tanti musei europei e nel mondo, per ampliare le possibilità del museo di ospitare e sostenere progetti di artisti e artiste: uno spazio dove la stessa fruizione possa essere immaginata in modi inediti e sperimentali. Un ulteriore passo di apertura del museo alla città e al contemporaneo” (Fabio Sbaraglia, Sindaco f.f. del Comune di Ravenna ).
Il primo percorso espositivo di SPAZIO NEUTRO è dedicato all’artista Diego Miguel Mirabella.
SPAZIO NEUTRO è un progetto che propone al pubblico un punto di vista alternativo nella visione delle opere d’arte.
Il museo, nella sua caratterizzazione più classica, e per convenzione, richiede una certa distanza dall’opera per la sua fruizione, richiede compostezza formale, chiede silenzio. La visione di una collezione in un museo è sempre dettata da principi museologici e museografici che in questo spazio neutro, vengono ribaltati, cercando di modificare la relazione con le opere lì installate.
Il progetto, ideato e diretto da Giorgia Salerno, curatrice e conservatrice delle collezioni del Museo, vedrà la presenza di artisti contemporanei chiamati a ripensare la propria opera in relazione allo spazio fornendo al pubblico un modo alternativo di vivere l’opera e abitare pienamente l’ambiente. Alla base della programmazione, inoltre, vi è l’esigenza di affrontare tematiche attuali che coinvolgono i musei internazionali, come l’evoluzione del museo relazionale, la decolonizzazione delle collezioni e le IA generative.
Il progetto di Diego Miguel Mirabella, creato specificamente per il Museo e visitabile fino al 2 febbraio prossimo, si estende a tutte le pareti dello spazio. Non ci sono confini nel diramarsi dell’ornato, interrotto solo dall’artificio della luce riflessa delle finestre della sala creato dall’artista. La decorazione, che prende ispirazione dalle memorie visive dell’artista e dall’ornato musivo ravennate, diviene qui un paesaggio in continua evoluzione narrativa, stilistica e cromatica. Mirabella si muove su diversi registri culturali, dall’Occidente all’Oriente e, spaziando dalla pittura alla scultura, utilizza la decorazione ornamentale come una vera e propria lingua visiva, che a volte si intreccia con la parola al fine di narrare storie che, in questa occasione, conducono lo spettatore in una dimensione quasi onirica, in cui gli elementi si celano o si mostrano a chi guarda. I pigmenti presenti sulle pareti, uniti alla polvere di mosaico, avvolgono il pubblico che, come immerso nello spazio, diviene parte integrante dell’opera, della storia narrata dall’artista. Lo spazio continua la sua vita anche di notte, quando la luce artificiale esterna attraversa le finestre e si sovrappone all’illusione visiva creata dall’artista, custodendo una segreta felicità. Per la natura coinvolgente del progetto e con l’obiettivo di offrire un nuovo punto di vista, il pubblico potrà sostare all’interno dello spazio in modo informale, sedendosi per terra, sdraiandosi o nella modalità che più riterrà comoda per entrare in relazione con l’opera d’arte.
MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna, Arts & New Media Room aperto dal martedì –al sabato alle ore 9.00 – 18.00, e domenica alle ore 10.00 – 19.00; dal 14 gennaio l’orario di apertura della domenica sarà 15.00 – 19.00; ingresso compreso nel biglietto del Museo.
In occasione del Centenario della scomparsa di Giacomo Puccini, il Teatro del Giglio Giacomo Puccini di Lucca (Piazza del Giglio, 13/15) – la città natale del celebre compositore – ospiterà, nel foyer e nel ridotto, la mostra pittorica “Visse d’Arte” dell’artista Corrado Veneziano. La mostra inaugurata lo scorso 22 dicembre, giorno della nascita di Puccini,sarà visitabile fino al 18 gennaio 2025.
L’esposizione, curata da Francesca Barbi Marinetti, Cinzia Guido e Sonia Martone, è l’unica mostra pittorica di un autore contemporaneo inclusa nel programma ufficiale delle celebrazioni Puccini 100. Dopo aver esordito a Roma presso il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali e aver viaggiato tra Bruxelles, L’Aquila, Montecarlo, Rabat e Bogotà, l’appuntamento lucchese rappresenta l’ultima tappa del 2024, offrendo un importante ponte verso il 2026, anno del centenario della prima rappresentazione di Turandot.
Le opere esposte – circa 20 tele a olio di grande impatto – evocano l’intero repertorio lirico pucciniano, con un’originale tensione figurativa che si intreccia alla raffinatezza della musica. Dodici di queste opere richiamano visivamente i capolavori di Puccini: dalle note sul pentagramma che diventano onde, corde, rami o scale, ai personaggi femminili iconici – Tosca, Turandot, Manon, Butterfly, Suor Angelica, la Fanciulla del West – che si stagliano in una dimensione pittorica evocativa e potente.
L’arte di Veneziano dialoga con il mondo pucciniano attraverso un percorso visivo ricco di simboli e suggestioni: un omaggio ai luoghi amati da Puccini (Roma, Firenze, Parigi, le Fiandre, la Foresta Nera, Nagasaki, Pechino) e alle sue figure liriche, trasformando la forza melodica delle opere in capolavori pittorici eterei e contemporanei.
Il Teatro del Giglio Giacomo Puccini, cuore pulsante della tradizione pucciniana, si conferma la cornice ideale per questa esposizione, dove il visitatore potrà immergersi in un viaggio visivo che esplora la complessità e la magia del linguaggio del compositore lucchese. In anteprima assoluta, saranno presentate anche nuove tele dedicate a Turandot, principessa “della Cina al tempo delle favole”, simbolo del capolavoro incompiuto di Puccini.
La mostra, organizzata in collaborazione con la Città di Lucca e il Teatro del Giglio Giacomo Puccini, Iacovelli and Partners, e l’associazione D.dArte, gode del riconoscimento del Comitato nazionale per le celebrazioni “Puccini100”, nonché degli auspici della Presidenza Commissione Cultura della Camera dei Deputati.
Visse d’Arte sarà visitabile fino al 18 gennaio, dalle ore 16.00 alle 21.00, ad esclusione dei giorni 13, 16 e 17 gennaio.
Corrado Veneziano (Dottorato in Arte e Musica, Laurea in Lettere), dopo un primo impegno teatrale (regista con la Biennale di Venezia nelle direzioni artistiche di Maurizio Scaparro) e docente (a Santa Cecilia e all’Accademia nazionale d’Arte drammatica Silvio D’Amico), negli ultimi anni ha concentrato la sua attività creativa nell’ambito squisitamente pittorico.
Su entusiastico incoraggiamento di Achille Bonito Oliva, Marc Augé e Derrick de Kerckhove (autori dei primi cataloghi), ha presentato i suoi lavori per la prima volta a Roma nel 2013, e subito dopo a Bruxelles (Istituto Italiano di Cultura) nel 2014.
Nel 2015 ha ideato e realizzato il Logo per la RAI – Prix Italia, e ha poi esposto (tra l’altro) a San Pietroburgo (nella Galleria Comunale Nevskij 8), nel Museo Nazionale d’Arte Moderna di Lanzhou in Cina, nella Chiesa di Saint Florentin di Amboise su invito del Presidente della Repubblica Francese e con il patrocinio del Museo del Louvre.
La sua mostra Dante l’Europeo è stata presentata nel 2023 negli spazi espositivi dell’Unione Europea-Comitato delle Regioni, con il sostegno di Unioncamere Europa e il patrocinio dell’Ambasciata italiana, dell’ICAS Intergruppo Arte e Cultura della Camera dei Deputati, dell’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, della Regione Lazio, del CNR-Consiglio nazionale delle ricerche, e della Camera di Commercio Belga Italiana.
Un’opera di questo ciclo pittorico è diventata il Francobollo dello Stato italiano dedicato all’Inferno di Dante.
In Italia ha esposto in una larga serie di spazi istituzionali, tra cui nel Complesso Monumentale di Palazzo Valdina del Parlamento Italiano, nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, nel Museo Nazionale Ridola di Matera, nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
Tra i Musei statali e le istituzioni internazionali che hanno acquisito le sue opere (catalogate ed esposte al pubblico), ricordiamo il Museo Ossolinski di Breslavia, la Chiesa di San Nicola di Bruxelles, il Teatro dell’Opera di Bucarest, l’Università di Granada, il Palazzo Municipale di Los Angeles, il Ministero degli Affari Esteri ad Algeri, l’Istituto italiano di Cultura di Tunisi.
Un ciclo delle sue opere (13 stele dedicate alle Georgiche virgiliane) è esposta in modo permanente sulla banchina nord dell’Isola Tiberina a Roma.
La sua ultima mostra personale italiana – Dipingendo Cavalcaselle. Di tersa mano, a cura di Francesca Barbi Marinetti e Lucia Calzona è stata esposta a Venezia nella Biblioteca Nazionale Marciana nel complesso monumentale del Museo Correr e, successivamente, Palazzo Altemps di Roma nell’estate del 2024.
Presso lo Spazio per le Arti Contemporanee del Broletto di Pavia, è allestita la mostra dell’artista nata a Varese, ma residente a Pavia dal 1977, Sandra Tenconi dal titolo “Montagne 1964-2024”, che rimarrà aperta fino al prossimo 26 gennaio.
Le montagne sono profondamente sentite dall’artista ancor prima che dipinte. Sandra Tenconi procede per grandi cicli tematici e le montagne sono uno di questi, e tutti sono contraddistinti da un rapporto intimo e personale con la natura. Il paesaggio non viene semplicemente raccontato, perché la sua non è una pittura descrittiva, ma di emozione e il paesaggio diventa un paesaggio dell’anima. La mostra è un’antologica dedicata alle montagne, perché raccoglie quelle opere che meglio contraddistinguono la sua produzione, alcune delle quali mai esposte e pubblicate, che fanno parte dell’inizio della sua carriera artistica.
Organizzata dal Comune di Pavia, la mostra “Montagne 1964-2024”, a cura di Francesca Porreca, presenta oltre ottanta opere fra disegni, tele e pastelli.
I soggetti principali delle opere in mostra non sono semplici diorami di luoghi, ma diventano espressioni di stati d’animo e sentimenti interiori. lo Skyline delle vette montuose, in particolare, occupa un posto speciale nella sua opera: dalle Alpi italiane alle cime svizzere, fino alle vette della Shenandoah Valley negli Stati Uniti, ogni paesaggio montano viene trasformato in una sorta di “ritratto” spirituale, dove la materia cromatica si fa portatrice di emozioni complesse.
Nella poetica dell’artista la natura si presenta spesso in una condizione “sospesa” tra realtà e immaginazione. Le sue montagne non sono solo fisicamente riconoscibili ma anche sublimemente astratte, tanto che sembrano galleggiare in un’atmosfera rarefatta, tra luci, ombre e slanci cromatici improvvisi. Questo dialogo tra presenza fisica e trascendenza spirituale diventa uno dei tratti distintivi della sua visione naturalista, che si nutre tanto di contemplazione quanto di emozione.
Le opere di Tenconi non si limitano a rappresentare la natura in maniera realistica, ma ne colgono l’essenza più profonda, vogliono essere anche una profonda riflessione dell’artista sulla fragilità e la caducità della natura, che dimostra il suo essere in simbiosi con essa.
Orari di apertura: da giovedì a domenica 15-19 con ingresso libero. Informazioni: cultura@comune.pv.it
Si è inaugurata con successo negli spazi del MO.CA Centro per le nuove culture di Palazzo Martinengo di Brescia la mostra fotografica di Franco Carlisi e Francesco Cito “Romanzo italiano”, patrocinata dal Comune di Brescia, curata da Giusy Tigano e organizzata da GT Art Photo Agency in collaborazione con SMI Group.
«L’idea del progetto espositivo “Romanzo italiano” – ha raccontato la curatrice Giusy Tigano – l’ho avuta in mente e nel cuore per diversi anni, ma ha preso forma per la prima volta lo scorso autunno negli spazi espositivi di Palazzo Brancaccio a Roma. il MO.CA di Brescia è dunque la seconda tappa di questa mostra, resa possibile innanzitutto dalla collaborazione con SMI Group, che da subito ha sposato la proposta di una lettura parallela, armonica e poetica sul tema del matrimonio con le foto di Carlisi e Cito».
A questo proposito, il CEO di SMI Group Cesare Pizzuto ha ricordato la sinergia che si è subito creata fra SMI Group e Giusy Tigano: «Ci siamo incontrati poco più di un anno fa e noi di SMI Group abbiamo trovato il progetto estremamente interessante, molto vicino a quelli che sono i nostri valori. SMI Group è un’azienda creativa che ha nel suo ethos la passione per la bellezza, per cui ha sentito nelle sue corde la volontà di dare un contributo alla realizzazione di questo progetto».
Enrico Cinti, Direttore Generale di SMI Group, ha poi aggiunto: «Crediamo moltissimo nella fotografia come mezzo di espressione privilegiato, e in particolare abbiamo creduto da subito a questo meraviglioso progetto espositivo proposto da Giusy Tigano. Non solo perché Franco Carlisi e Francesco Cito sono due straordinari autori, ma perché “Romanzo italiano” mette in contrapposizione due punti di vista differenti, in due realtà territoriali tanto diverse ma altrettanto caratterizzate quando si parla di matrimonio. Questa seconda mostra è l’inizio di un percorso che vedrà in futuro SMI Group continuare a collaborare con GT Art Photo Agency e ad appoggiare eventi di questo tipo, che permettono di conoscere realtà importanti e farle scoprire al pubblico, oltre a incontrare artisti come Carlisi e Cito, che portano avanti il loro lavoro con grande passione, professionalità ed entusiasmo».
Francesco Cito ha raccontato le origini del progetto “Matrimoni Napoletani”: «Ho iniziato a fotografare matrimoni quasi per caso. Mi trovavo in taxi a Napoli, la mia città natale, quando vidi due sposi che stavano facendo un servizio fotografico prima di andare a sposarsi a Castel Dell’Ovo, dove si celebrano matrimoni tutti i giorni tranne la domenica per non sovrapporsi alle cerimonie liturgiche. Quel giorno è stata la prima volta che mi resi conto della teatralità del rito nuziale a Napoli, di quanto sia importante il giorno del matrimonio per la cultura napoletana, un rito che non riguarda solo gli sposi ma coinvolge un’intera comunità. Ho conosciuto molti fotografi che abitualmente facevano servizi matrimoniali, ma per me, che normalmente fotografavo tutt’altro, era importante raccontare ciò che non si vede, ciò che gli stessi sposi non vorrebbero che si notasse, tutto quello che rimane nascosto dietro le quinte».
La mostra “Romanzo italiano” presenta 120 fotografie in bianco e nero di due dei fotografi italiani di maggior rilievo a livello internazionale, i quali si confrontano creando una narrazione condivisa sul tema del matrimonio.
Le immagini di Carlisi e Cito ci offrono un racconto visivo profondo e originale, un romanzo per immagini che sfida la fotografia matrimoniale tradizionale, distaccandosi dagli stereotipi di stile e linguaggio. La loro è un’esplorazione visionaria, che narra con toni poetici, ironici e disincantati le emozioni e i molteplici aspetti relazionali e sociali del matrimonio.
Le fotografie di Franco Carlisi sono una selezione del più ampio progetto “Il Valzer di un giorno”, vincitore del Premio Bastianelli nel 2011 e del Premio Pisa nel 2013. Il lavoro si concentra sulle nozze in una Sicilia nascosta, lontano dalle convenzioni, catturando l’essenza di un momento che si svolge oltre la rappresentazione scenica del matrimonio. Le immagini, dal grande impatto visivo e quasi barocche nella loro intensità, raccontano scene in cui il tempo rimane in sospensione per cogliere dettagli intensi e spontanei, come un abbraccio, uno sguardo, la lacrima di una sposa o la commozione di un genitore.
La selezione fotografica di Francesco Cito proviene dal progetto “Matrimoni Napoletani” (o “Neapolitan Wedding”), vincitore del prestigioso World Press Photo nel 1995 (categoria “Day in the Life”, 3° premio). Anche in questo caso, l’autore abbandona la monotonia della fotografia matrimoniale convenzionale per creare un linguaggio visivo nuovo, fortemente autoriale, che esplora le dinamiche sociali del matrimonio con occhio critico e riflessivo.
Il libro-catalogo della mostra, realizzato in edizione limitata per l’evento di apertura di Roma e che può essere acquistato scrivendo a info@gtartphotoagency.com, presenta due testi di approfondimento scritti da Andrea Camilleri per Franco Carlisi e Michele Smargiassi per Francesco Cito.
Tutte le opere presenti in mostra possono essere acquistate come stampe fine art in edizione limitata, certificate e firmate in originale dagli autori, rivolgendosi all’agenzia GT Art Photo Agency.
MO.CA Centro per le nuove culture, Via Moretto 78, Brescia. Fino al 19 Gennaio 2025. Ingresso libero. Orari di apertura mostra: Lunedì 15.00-19.00. Da martedì a domenica 10.00-13.00 / 15.00-19.0. Chiusa il 6 gennaio.
Nel 1873, come attestato da un atto notarile, l’industriale Giorgio Enrico Falck acquistò una fabbrica nel lecchese i cui primi nuclei risalivano a prima del 1760. Poi ristrutturato, l’opificio consisteva in una fabbrica sociale con un maglio che modellava utensili in ferro. Quando Falck decise di trasferire l’attività a Sesto San Giovanni intorno al 1930, Alberto Gianola acquistò lo stabilimento dando vita ad ampliamenti e ristrutturazioni che presero il nome di Trafilerie di Malavedo. Esse, come molti altri siti, fanno parte della lunga storia che caratterizza Lecco e il suo territorio idoneo alla metallurgia, vista la presenza di miniere, boschi e acqua, quindi di materia prima, di legna per azionare i forni e di acqua per azionare le macchine. Il torrente Gerenzone era il fornitore della forza motrice, tanto che lungo il suo corso nacquero fucine e fabbriche, così come il lavoro degli abitanti del posto e la loro mentalità. Il corso delle acque venne sapientemente canalizzato in un complesso sistema che garantiva l’approvvigionamento per la produzione di materiali in ferro, rame, ottone. Nell’Ottocento l’attività si sviluppò ancora di più, grazie alle innovazioni tecnologiche, a motori che facilitavano il lavoro e a macchine che lo permettevano più agilmente. La zona si sviluppò ancora, con fabbriche industriali e grandi laminatoi: anche se non perse mai la prevalente connotazione artigianale, divenne il terzo polo industriale italiano. Oggi le grandi industrie hanno lasciato il posto a imprese medie altamente specializzate. Gli enti locali hanno sapientemente tramutato il sapere antico in un agile tour anche eco-sostenibile che permette di visitare posti stupendi seguendo l’archeologia industriale. Si possono vedere ancora ponticelli e chiuse, mentre si cammina verso altri opifici, come il Bolis nato prima del 1819, poi Metallurgica Celeste Piazza che mantenne il maglio a caduta: produceva sottili barre metalliche che venivano arrotondate e poi trafilate, cioè fatte passare da una lastra di acciaio dotata di fori da cui si otteneva il filo di ferro. Anche il Laminatoio di Malavedo, sorto dalla fusione di due fucine settecentesche, era gestito nel 1870 da Falck con Redaelli e Bolis e, da buona fucina grossa, forniva il materiale praticamente a tutte le fabbriche lecchesi. Enrico Falck, di origini alsaziane, aveva importato la tecnologia a cilindri prima a Dongo e poi a Lecco, da dove si trasferì nel milanese per dare vita ai grandi complessi industriali. Nel 1906 il laminatoio divenne una cartiera e poi abbandonato per il lavoro, fino all’uso residenziale. D’uso abitativo è diventato anche lo stabilimento che prima ospitava una filanda dove veniva praticata la torcitura del filo di seta; nel 1920 la filanda diventò un catenificio. Oltre alla lavorazione della seta, a Lecco si follava la lana per il panno, come avvenne per quella che sarà la Ditta Carera Felice & C., poi filanda e trafila proprio per i Carera. Sono state accatastate lì nel XVIII secolo ben sette ruote per la fucina, di cui ne rimane una. Durante la metà del XIX secolo Giuseppe Badoni introdusse nelle sue fabbriche innovazioni come il puddellaggio, cioè l’arricchimento della ghisa, e i forni a riverbero per poter costruire macchinari per la ferrovia e l’industria tessile: era stato realizzato il connubio tra metallurgia e meccanica, così la Badoni realizzò in tutto il mondo edifici in ferro, locomotive, linee ferroviarie e telefoniche, ponti, gasdotti. Nel 1920 lo stabilimento aveva anche le turbine idroelettriche. Riproduzioni di una miniera di ferro medievale, di una fucina, reperti ferrosi dei Piani d’Erna (il più antico sito metallurgico delle Alpi), spiegazioni del processo di estrazione, fusione e lavorazione del ferro si possono trovare nel museo storico e archeologico di Lecco, sito nel Palazzo Belgiojoso. I punti di interesse storico individuati sono undici, raggiungibili alla scoperta dell’interessante legame tra uomo e natura nei secoli.
Il percorso attraverso la provincia di Verona alla scoperta di borghi e paesi per i quali la vicenda militare (Prima Campagna d’Italia 1796-1797), e poi politica, di Napoleone Bonaparte è transitata, è quanto mai interessante e molto ben strutturato, grazie alla collaborazione di vari Enti. Un percorso di visita e di conoscenza che non disdegna l’enogastronomia, data la ricca proposta della Val d’Adige fino al lago di Garda.
Napoleone aveva costretto il Re di Sardegna a firmare l’armistizio di Cherasco lasciando la guerra, mentre egli contro gli austriaci continuava a combattere: vince a Lodi, Salò, Lonato (Madonna della Scoperta), Castiglione, Arcole e quindi è a Rivoli, le due battaglie che lo consacreranno come il migliore comandante e stratega, oltre che abile politico per l’importanza europea del suo progetto.
Nella battaglia di Rivoli del 14 e 15 gennaio 1797 l’abile militare, con un attacco notturno, riuscì a vincere l’armata austriaca grazie alla sua cavalleria e alle bordate di artiglieria. Ne restano i “campi della morte”, i resti del monumento che Bonaparte fece erigere in memoria della battaglia e poi distrutto dagli austriaci, la collina di Monte Castello dalla quale egli poté fare la ricognizione delle postazioni nemiche e sulla quale c’è un forte austriaco. La chiesa di Rivoli merita una visita: i francesi l’avevano trasformata in ufficio della loro Divisione. Il paese ospita poi il Museo Napoleonico ricco di cimeli e di documenti.
A Verona si ricorda la sollevazione popolare contro i francesi tra il 17 e il 25 aprile 1797, detta le Pasque Veronesi, con una lapide. Per punizione, i francesi distrussero le merlature delle mura e delle torri del Castello scaligero. Nel 1805 i francesi distrussero anche l’Arco dei Gavi del I secolo d.C., ricostruito poi nella piazza adiacente Castelvecchio nel 1931-1932. Nell’arena cittadina, in onore dell’incoronazione di Bonaparte del 16 giugno 1805 venne organizzata una caccia ai tori, spettacolo che l’imperatore gradì, tanto che stanziò una lauta cifra per i lavori di restauro dell’anfiteatro romano, gesto ricordato con una targa nel monumento.
Ad Arcole un Museo Napoleonico raccoglie stampe, dipinti e cimeli dell’epoca donati da Gustavo Alberto Antonelli. Nel 1810 vene inaugurato l’Obelisco voluto da Napoleone a memoria della battaglia del 15-17 novembre 1796: resta l’unico originale in Italia. Nel 1877 furono restaurate le iscrizioni inneggianti a Napoleone fatte scalpellare dagli austriaci. Nel bicentenario della battaglia, il comune di Arcole si gemellò con il comune di Cadenet, luogo natale di André Estienne, il tamburino che durante la battaglia incitò all’attacco i francesi.
La Campagna d’Italia si chiuderà con il Trattato di Campoformio del 1797 che segnerà la fine della Serenissima Repubblica di Venezia, portando l’Austria a controllare il Veneto, mentre il Milanese passa alla Repubblica Cisalpina.
A tavola, tipici della zona si possono trovare gli asparagi, il radicchio rosso, i kiwi, le pesche; gli gnocchi di patate, la pastissada de caval, il lesso con la pearà, i tortellini di Valeggio (Borghetto di Valeggio fu teatro di violenti scontri tra francesi e austriaci il 30 maggio e il 6 agosto 1796, quando in entrambi i casi gli austriaci furono costretti a ripiegare prima su Trento, e la seconda volta su Rivoli Veronese e Verona, tallonati dai francesi già vittoriosi a Castiglione), il luccio di lago e una vasta scelta di vini dall’Amarone, al Bardolino, al Soave, al Lugana, sempre per citarne solo alcuni.
Per sfuggire all’accerchiamento messo in atto dalle truppe del Kuomintang comandate da Chiang Kai-shek, nel 1934 l’Armata Rossa Cinese afferente al Partito Comunista iniziò una marcia per ritirarsi. Dopo 370 giorni di cammino lungo novemilaseicento chilometri, dal 16 ottobre 1934 al 22 ottobre 1935, gli uomini in marcia, detta poi Lunga, transitarono per il Jiangxi e lo Shaanxi percorrendo oltre 12mila chilometri di altipiani, montagne, guadando fiumi, sempre combattendo all’occorrenza, fino allo sfondamento dell’accerchiamento avvenuto grazie ai 130mila soldati comandati da Mao Zedong e Zhu De.
I soviet che avevano originato il problema comunista da fronteggiare erano nati a partire dal 1927 soprattutto nelle campagne cinesi, dopo che il governo aveva abolito il Partito comunista, vietandolo a partire dalle città dov’era scomparso. Mao aveva preso il controllo del Partito a partire dal gennaio 1935, soprattutto perché non pensava soltanto alla fuga, ma aveva una visione più ampia e organizzata, anche per difendersi dall’attacco giapponese che aveva approfittato dei disordini interni per penetrare in Cina dalla Corea e dalla Manciuria.
La marcia venne ostacolata anche dagli abitanti delle varie provincie, a volte favorevoli al comunismo e altre volte no; alcuni generali appoggiarono l’idea di Mao di dirigersi a combattere contro i giapponesi, mentre altri militari si dirigevano verso i confini dell’Unione Sovietica. A luglio le truppe di Mao riuscirono a congiungersi con quelle del soviet di Henan che stavano altrettanto fuggendo; in ottobre, molto ridotti in numero, i soldati arrivarono nello Shaanxi dove presero la capitale e si posero a fronteggiare i giapponesi fino al 1945. Il Partito comunista cinese dimostrò così di volere combattere i giapponesi più di quanto non lo volesse Chiang Kai-shek che venne catturato e consegnato a Mao. Questi lo liberò, anche dietro ordine di Stalin.
Alla fine della seconda guerra mondiale, Lin Biao conquistò la Cina settentrionale riuscendo a vincere la guerra civile cinese. Grazie alla Lunga marcia, Mao diventò il capo della rivoluzione, con un grande prestigio che condivise con tutti i comandanti del gruppo.
Mao Zedong o anche Mao Tse-tung era nato nel 1893 a Shaoshan, nella provincia di Hunan, in una famiglia di contadini mediamente agiata. A quattordici anni sposò Luo Shi per ordine del padre che aveva combinato il matrimonio, anche se Mao rifiutò di sottostare al matrimonio stesso con il quale non fu mai d’accordo. Durante la rivoluzione del 1911 poté tornare a scuola dove sostenne l’attività fisica e l’azione collettiva, avvicinandosi alle idee di Bakunin e Marx, soprattutto per l’abolizione della differenza tra lavoro manuale e fisico. Dopo il diploma, viaggiò verso Pechino durante il movimento anti-imperialista del 4 maggio 1919, al seguito di Yang Changji che poi divenne suo suocero. La moglie venne poi imprigionata e uccisa nel 1930 dalle truppe di Chiang Kai-shek, a capo del Kuomintang dal 1925. Nel frattempo Mao guidò azioni collettive per i diritti dei lavoratori e si occupò dell’addestramento dei contadini.
Le sue analisi dettagliate della situazione degli agricoltori e delle loro sollevazioni sono i documenti alla base della teoria maoista. Questa influenzò i cinesi, soprattutto i giovani, e si diffusero anche nel resto del mondo. Soprattutto, a differenza delle idee di Lenin, e adattandole alla Cina, le idee di Mao erano che fossero i contadini il motore del Paese, essendo la forza più grande. Contribuì anche ad approfondire le teorie di Marx ed Engels per creare una nuova teoria del materialismo dialettico ateo. Le sue idee e le sue strategie venivano avversate dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Sovietica che vedeva in Chiang Kai-shek il garante dei propri interessi cinesi, così come lo vedevano gli americani, in quanto pensavano che potesse contrastare i giapponesi e impegnarli, liberando così le forze statunitensi nel Pacifico.
Alla fine del conflitto, gli USA continuarono ad appoggiare Chiang Kai-shek nella sua volontà di guerra civile contro le truppe di Mao.
Nel febbraio 1949 l’Armata rossa di Mao entrò a Pechino, mentre nel mese di dicembre venne presa d’assedio l’ultima città controllata dal Kuomintang. Chiang Kai-shek si rifugiò nell’isola di Taiwan. Intanto, il primo ottobre 1949, i comunisti fondarono la Repubblica Popolare Cinese di cui Mao fu presidente fino al 1959.
La collettivizzazione forzata avviata da Mao in Cina durò fino al 1958, con il controllo dei prezzi che ridusse la forte inflazione imperante; promosse anche la semplificazione della scrittura in modo da aumentare il livello di alfabetizzazione del Paese e l’industrializzazione ebbe forte impulso. A fronte di un forte incremento del PIL, la Cina vide un periodo di terrore che riguardava soprattutto i medi e piccoli proprietari terrieri che spesso vennero sterminati, anche fisicamente. Le libertà basilari non venivano di fatto riconosciute, in quanto la politica maoista volta a sentire e tenere conto del parere di tutti, condusse anche a contestazioni della linea di governo o del partito comunista, con conseguenti persecuzioni. Mao elaborò quindi una politica di sviluppo economico alternativo a quella sovietica, con il “grande balzo in avanti” che, invece di coinvolgere l’industria pesante, riguardava soprattutto l’agricoltura, vera spina dorsale del Paese. Questa doveva essere collettivizzata a favore di una maggiore meccanizzazione che avrebbe liberato forza lavoro per l’industria, ma si ridusse per essere volano per la fame dilagante che causò migliaia e migliaia di morti. L’Unione Sovietica ritirò il suo appoggio e si aprì una crisi che indusse i leader del partito a pensare che l’epoca di Mao fosse conclusa. Mao rimase a capo del Partito e rivestì un ruolo istituzionale, mentre la Grande rivoluzione culturale venne attuata negli anni Sessanta, fino alla dichiarazione di un’altra stagione chiusa, definitivamente con la morte di Mao avvenuta nel 1976.
“Io e te dobbiamo parlare” è un film da vedere. Divertente, leggero, adatto a prendersi una boccata d’ossigeno nel caos quotidiano, vede una coppia comica azzeccata, in cui il noto Leonardo Pieraccioni è perfettamente nel ruolo dell’attore: spontaneo, realistico, quasi perfetto. Accanto a regista e attore Alessandro Siani altrettanto nel ruolo, con una capacità recitativa convincente, pur nell’impossibilità di scene da effetti speciali, per due poliziotti imbranati. Pieraccioni e Siani, infatti, impersonano due agenti di Polizia che il loro capo non sa più dove mettere: dovunque siano assegnati, generano problemi e non tanto perché ne siano loro la vera causa, quanto perché, anche quando intorno a loro sparano e si ammazzano, i due nemmeno se ne accorgono. Un po’ il verso a quella Polizia che sembra sempre non esistere quando se ne avverte il bisogno, insomma. A fronte del solito duo spettacolare di agenti, sempre in ordine, lucidi, lindi e pinti che risolvono sempre i casi, sia loro che degli altri. Siani (che impersona Antonio) e Pieraccioni (nei panni di Pieraldo) sono insomma i due Paperino che tanto piacciano alla gente, perché è facile identificarsi in loro e, anche se sono diventati famosi per avere arrestato un boss pluri-ricercato, l’hanno fatto per puro sbaglio. E non siamo un po’ tutti noi quelli a cui, se proprio va bene qualcosa, ci sembra quasi impossibile? Bene. La coppia nel lavoro è un’anticoppia, perché Antonio aveva lasciato la moglie Matilde (Brenda Lodigiani) che adesso è la compagna di Pieraldo, divenuto così il terzo genitore della figlia del collega. Pieraldo non nasconde l’amicizia, che forse vorrebbe tramutare in qualcosa di più, con la collega della stradale Sara (Francesca Chillemi) che si rivelerà degna di arresto, rompendo l’idillio prima che si potesse realizzare. Ma non nasconde nemmeno che avrebbe voluto restare dietro alla sua scrivania di esperto informatico, con la sua amata stufetta a rendergli la vita comoda e tiepida, lontano dall’azione che invece è fondamentale per Antonio, anche se la vive non da poliziotto nostrano, ma all’americana, come se fosse Tom Cruise in uno dei suoi famosi film d’azione. Antonio è il classico figlio degenere di un truffatore, Peppe Lanzetta, che gli ha insegnato a fare “il mariuolo” ed è convinto che il figlio abbia sbagliato mestiere; ma è anche amico di un rapinatore smemorato, tale Fittipaldi (Giovanni Esposito), che diventa una vera iconica macchietta.
Le scene sono ben congegnate e spassose, sia che si tratti di inseguimenti impossibili in tram e motorino, sia che si tratti di dover sparare al poligono senza sapere bene come si impugna una pistola, rendendo i due poliziotti davvero simpatici perché talmente inadatti al loro ruolo che lo spettatore si mette quasi nei panni del loro aiutante. Facile del resto tifare per questa nuova coppia comica davvero indovinata, convincente e capace di fare ridere senza scadere nel banale o nel volgare.
Figlio d’arte, possiamo dire di Giacomo Puccini, essendo rampollo di una famiglia da quattro generazioni maestri di cappella del Duomo di Lucca, dove Giacomo è nato il 22 dicembre 1858. Suo padre era un professore di composizione, ma la sua morte prematura pose la famiglia in ristrettezze economiche quando Giacomo, sesto di nove figli, aveva solo cinque anni. Per quel motivo il bambino venne mandato dallo zio materno che lo doveva fare studiare, ritenendolo però poco portato, fannullone e indisciplinato. Comunque lo zio riuscì a fargli apprendere la musica, studio che proseguì frequentando il seminario della Cattedrale di Milano, dove imparò a suonare l’organo, strumento che per molti musicisti fu determinante. Sempre ritenuto inadatto alla scuola, frequentò l’Istituto Musicale di Lucca, allievo di Carlo Angeloni con ottimi risultati, e cominciò, pur giovanissimo, a portare qualche soldo in casa suonando proprio l’organo, oltre che il pianoforte presso il Caffè Caselli della città. Quando poté assistere alla messa in scena di Aida di Verdi, capì che l’opera lirica sarebbe stata la sua strada. Quindi si dedicò alla stesura di alcuni componimenti, tra cui una cantata e un mottetto, mentre un valzer risulta perduto. La chiusura dei suoi studi con la composizione di una Messa di gloria a quattro voci con orchestra, eseguita al Teatro Goldoni di Lucca, suscitò l’entusiasmo della critica. La mamma, dopo avere bussato invano molte porte, riuscì ad ottenergli una borsa di studio dalla regina Margherita, grazie all’intercessione della sua dama di compagnia, la marchesa Pallavicini, arrotondata dall’amico di famiglia Cerù. E così Giacomo fu allievo del Conservatorio di Milano, avendo come maestro Antonio Bazzini per due anni, e poi Amilcare Ponchielli, grazie al quale Giacomo conobbe Pietro Mascagni. I lavori musicali di Puccini cominciarono ad accumularsi, mentre Ponchielli lo ricorderà come uno dei suoi allievi migliori, malgrado la scarsa costanza: si diplomerà infatti con medaglia di bronzo, quindi al terzo posto tra i candidati. Il primo successo di Puccini, suonato davanti ad Arrigo Boito tra gli altri, gli permise di firmare un contratto con la Casa Ricordi che commissionò Edgar, andato in scena al Teatro alla Scala di Milano nell’aprile 1889 con poco apprezzamento del pubblico. Un vero successo fu Manon Lescaut, con i proventi della quale poté tornare a vivere in Toscana; dal 1891 si trasferì a Torre del Lago, frazione di Viareggio, che divenne la sua vera dimora. I suoi lavori continuarono ad essere successi anche grazie alla collaborazione con i librettisti Illica e Giacosa.
Abbiamo quindi La Bohème, Tosca, Madama Butterfly, che alla prima alla Scala di Milano fu un vero fiasco. Quindi il lavoro venne rimaneggiato e portato in scena al Teatro Grande di Brescia, dove ottenne il successo che continua ancora oggi.
Nel 1906 la morte di Giacosa pose fine ad un lavoro a tre mani che aveva avuto tanto apprezzamento: collaborare soltanto con Illica era poco proficuo, mentre alcuni problemi familiari che si portarono dietro anche uno scandalo, provarono molto il musicista, tanto da rendergli quasi impossibile lavorare. Anche il progetto di collaborazione con D’Annunzio non portò a nulla. Successivamente Puccini scrisse La fanciulla del West che, debuttando a New York nel 1910 con Emmy Destinn ed Enrico Caruso nel cast, fu un vero trionfo di pubblico, meno di critica. A seguito di un viaggio tra Germania ed Austria, il compositore conobbe impresari che gli proposero di musicare un testo di Willne che, in un secondo momento, gli propose di cambiarlo con La rondine, ma lo scoppio della prima guerra mondiale e il successivo cambio di alleanza dell’Italia, fece rallentare i progetti con gli austriaci. Comunque, l’opera venne messa in scena a Monte Carlo nel 1917 con buon successo. A questo punto della carriera, Puccini lavorò ad un Trittico che si troverà composto da Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi. Il lavoro debuttò a New York e poi a Roma, nel 1919, anno in cui ricevette la nomina a Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Sempre nel 1919 il sindaco di Roma lo incaricò di scrivere un inno della città che venne accolto entusiasticamente dal pubblico. Cominciò quindi a lavorare alla Turandot, di ambientazione fantastica ed esotica, ma dalla gestazione difficile, tanto che venne quasi ultimata soltanto nel 1923. Scoperto di essere malato di cancro alla gola, dopo essersi sottoposto ad un intervento chirurgico che sembrava riuscito, il compositore, da poco nominato senatore a vita dal Re, morì il 29 novembre 1924 a Bruxelles, dove era andato a curarsi. Quindi venne portato a Milano, dove la cerimonia funebre ufficiale si tenne in Duomo con Arturo Toscanini che diresse l’orchestra del Teatro alla Scala nel requiem tratto da Edgar. La salma verrà poi traslata a Torre del Lago, oggi Torre del Lago Puccini. Toscanini supervisionò anche la conclusione di Turandot. Le opere pucciniane, messe continuamente in scena ancora oggi, riscuotono sempre un successo mondiale.