(foto di Francesco Squeglia)
La Fondazione Teatro di Napoli ha portato in scena al Teatro Sociale di Brescia il lavoro di Dale Wasserman tratto dal romanzo di Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, tradotto da Giovanni Lombardo Radice, adattato da Maurizio de Giovanni. Pubblicato nel 1962, il romanzo racconta l’esperienza dell’autore in un ospedale psichiatrico dove ha lavorato come volontario. Siamo in California e Randle McMurphy, delinquente condannato al carcere, riesce a farsi ricoverare in quel manicomio per sfuggire ad una dura pena. Si finge “matto”, si agita, attira l’attenzione, è pieno d’idee e iniziative e si diverte un sacco con i matterelli che girano per i reparti. Le scene convincono, in questo bello spettacolo di Alessandro Gassmann con Daniele Russo, Elisabetta Valgoi e con Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Emanuele Maria Basso, Davide Dolores, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Antimo Casertano, Gabriele Granito, Giulia Merelli. Convincono perché gli attori sembrano matti per davvero: uno con la camminata sincopata, i gesti plateali, la voglia di vita e di evasione; l’altro con i capelli in piedi e la faccia da scienziato pazzo, che gira per le sale dell’ospedale con una scatola di sua invenzione che crede una bomba pronta ad esplodere, ed ogni tanto lo fa, mettendosi, la sveglia che contiene, a suonare; l’altro ancora sordo e muto che però sente e parla e, forse, è ridotto così per le cure a cui è stato sottoposto. Ognuno è là per sua volontà, per farsi curare e sottostare a regole societarie che altrimenti non era in grado di seguire. E grazie a quei volti, Kesey racconta le coercizioni, l’uso e abuso di farmaci, l’uso dell’elettrochoc per fare in modo che le persone stiano tranquille e le cose possano essere comodamente gestite. Bravissima nel ruolo della suora direttrice del reparto Elisabetta Valgoi, intransigente e incapace di accettare altri modi oltre al suo di concepire la vita. Almeno tra quelle mura. L’adattamento del romanzo ambienta la storia ad Aversa, nell’ospedale psichiatrico, nel 1982.
La forza narrativa dell’autore rimane, e forse prende respiro, grazie a de Giovanni e Gassmann che, ancora oggi, indagano la follia, la prigionia e la libertà, ma anche la solitudine, la malattia, la paura che qualsivoglia avvenimento ci tramuti in quel pazzo, in quel Randle. E che qualcuno ci impedisca di capire, di sentire, di esprimerci. Paure ataviche che vengono fermate, nella trama, da una lobotomia, cioè da qualsivoglia modo di bloccarci le ali e impedirci il nostro volo libero. Da parte di tutti coloro che non vogliono vedere, non hanno tempo per capire, non sono interessati a conoscere e a sentire se non loro stessi. Un lavoro bellissimo, che ha fatto molto ridere il pubblico in sala, quel ridere che soltanto può davvero penetrare ogni sorta di animo umano e arrivare alla riflessione profonda, vera. Tutto aiutato anche dalle videografie di Marco Schiavoni, molto interessanti e capaci di sottolineare la scena ancor più. Efficaci le scene di Gianluca Amodio, con costumi di Chiara Aversano e disegni luci di Marco Palmieri.
Belle le musiche originali di Pivio & Aldo De Scalzi.
Nessun rimpianto per l’adattamento cinematografico di Milos Forman con Jack Nicholson come interprete. Ancora un ottimo spettacolo inserito nella stagione del Sociale di Brescia.
Alessia Biasiolo

