Musica dal paradiso per Lindqvist

L’incubo peggiore di ognuno di noi. Non esistere. Avere la percezione dell’azzeramento dell’esistenza esistendo. Un preludio di cosa ci sarà dopo la morte. Lo smembramento delle nostre certezze. L’azzeramento dei nostri punti saldi. E anche il dramma di avere il tempo e lo spazio per scoprire tutto di noi: i nostri timori, i nostri drammi interiori, le nostre colpe e le mancanze di una vita normale che, improvvisamente, si trova alla resa dei conti. È questo il contenuto di “Musica dalla spiaggia del paradiso”, ultimo lavoro di John Ajvide Lindqvist, autore svedese affermato. Il clima è proprio nordico. Persone in un campeggio che cercano la vacanza o di ingannare il tempo e che, improvvisamente, devono affrontare il nulla. Svegliandosi al mattino scoprono che tutto è scomparso. Altre persone, auto, camper, paesaggio, tutto. Nel nulla niente funziona. Hanno poco cibo. Si devono riscoprire antichi esploratori comportandosi, malgrado la guida di un Suv, proprio come i nostri progenitori quando dovevano andare a caccia. Adesso devono trovare un segnale per la radio, per il telefono cellulare, per connettersi con un mondo che non c’è più. E dove sarà finito? Il dilemma è quello classico di questo genere di romanzi che rasentano l’horror: il nulla è nostro o altrui? Siamo noi nel niente oppure sono gli altri a non esserci? Le domande esistenziali che sottendono questo bel lavoro, carico di suspance lenta e nebulosa proprio come l’ambiente che ci si immagina dalle prime pagine della descrizione dell’accaduto, si susseguono mentre si snoda pian piano la vita dei protagonisti. Il domandarsi cosa si era scelto di fare andando laggiù con un uomo che si sapeva già non sarebbe stato ancora a lungo il proprio marito e che, poi, perché lo si era sposato? A che servono i propri marmocchi se si trascorre la vita sul ciglio di una crisi di nervi? Perché trovare romantico un posto in cui non ci sarebbero state le proprie preferite cose da mangiare? Insomma, perché vivere così e continuare a vivere così se non si è vivi affatto? Il paesaggio scomparso in cui si trovano a vagare come ombre dell’assurdo Peter, Molly, Donald, Majvor e pochi altri, è proprio il vivere quotidiano della maggior parte degli esseri umani. Il nulla. L’assurdo del vivere senza farlo. L’Autore conduce il lettore ad un’appassionante riflessione su se stessi proprio mentre accompagna i propri personaggi a cercare non più l’autore, ma il palcoscenico, perché il mondo non basta più, non giustifica il vivere e non lo spiega affatto. Si fa strada sempre più, o si acutizza per chi già era sul’orlo del baratro personale, l’angoscia: quel qualcosa che non si curava ora è assente e già manca, lo vi percepisce come una nostalgia pungente che fa male, molto male a chi la prova.

La paura della perdita così sapientemente spiegata dagli psicologi, con Lindqvist diventa reale, tangibile, vera, percepita, possibile da spiegare e da leggere così come avviene, così come nasce e prende forma. Il peggior incubo diventa realtà e si materializza sotto gli occhi del lettore con una maestria da principe del thriller psicologico. La paura, ma anche la rabbia, il risentimento, l’angoscia e il terrore sono materializzati e spiegati dall’Autore con un’acutezza spaventosa e che permette a ognuno di identificarsi nel romanzo stesso, come se le pagine prendessero forma e diventassero noi stessi in vari momenti della nostra vita, anche solo nei sogni o negli incubi. Un romanzo da leggere d’un fiato senza cercare per forza di capirlo, ma lasciandolo entrare nella nostra mente e nella nostra anima per vedere se sa suscitare emozioni inconfessabili o che non pensavamo di provare. E l’assurdità del viver quotidiano diventa ancor più bruciante quando le persone che cercano di scoprire cosa sta loro accadendo, o cosa è accaduto al resto dell’umanità, dissertano sulla copertura di un telefono cellulare, ammettendo che quelli di vecchia generazione hanno una copertura migliore dei moderni, ergo forse possono connettersi con il mondo reale prima e meglio. Forse. Poi, nel dramma, arriva la follia. Può essere della piccola Molly che si diverte a guardare un film horror in cui le persone vengono squartate, oppure la nausea per tutto ciò che sta accadendo o non accadendo attorno, ma anche la materializzazione della domanda inconscia di ogni genitore che sta mettendo al mondo un figlio. Cosa sarà? Potrebbe essere un mostro? O potrà diventarlo? Peter si trova a vivere anche questo: chi è sua figlia? O meglio, cos’è? Neanche gli animali sono risparmiati e vivono della novità come se avessero un’anima. Alla fine, tutto viene a galla, proprio grazie all’assenza. Le proprie paure materializzate permettono agli essere umani di capire se stessi e la loro vera natura, mentre scoprono lo stesso dei loro amici e conoscenti. O forse no. Forse tutto è un abisso senza senso. Forse non è nemmeno verro. Forse il paradiso è solo il vuoto. Chissà…

Da leggere, per gli amanti dei brividi e della narrazione perfetta.

 

John Ajvide Lindqvist: “Musica dalla spiaggia del paradiso”, Marsilio, Venezia, 2015, pagg. 430; euro 18,50.

 

Alessia Biasiolo

 

Per un’estate thriller, “La Contessa Rossa” di Niky Marcelli

Adatto al lettore appassionato di gialli, ma anche di fatti da casa nostra, il nuovo romanzo di Niky Marcelli, giornalista milanese con sfumature newyorkesi e romane. La trama di un racconto intenso e con buoni spunti, si intreccia al settantesimo della conclusione della seconda guerra mondiale, a lotte partigiane contro nazisti feroci; non manca il mistero e l’ispezione di gallerie segrete, con roboanti vetture sfreccianti tra Bormio, Cesenatico, Firenze e molti altri interessanti posti. Citate realtà che molti italiani forse non conoscono, come l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ma anche altri accenni di storia e di storie, che il lettore si divertirà a scoprire se sono vere o romanzate.

Tutto ruota attorno a due belle ragazze attuali, una contessina e una giornalista mezza squattrinata, e una donna di un tempo, i cui resti sono stati ritrovati sulle Dolomiti. Non manca la traccia esotica, per eredi di un nazista che vivono in America Latina. Buono l’impianto complessivo, se si sorvola sui difetti di digitazione ortografica che si trovano un po’in tutte le pagine, e su alcune imperfezioni di concetto che, tuttavia, sono perdonabili nella dinamica generale delle oltre quattrocento pagine. Qualche calo di tono in descrizioni che appaiono scolastiche, non incide sul romanzo nel suo complesso che lascia intravvedere come l’autore abbia ancora spazio per regalarci altri romanzi; le sue pagine sicuramente denotano l’abitudine all’inchiesta e al girovagare che, sia in ambito giornalistico che letterario, fa bene non solo alla traccia romanzesca, ma alla capacità di creare intrecci non scontati. Da approfondire ho trovato la tecnica descrittiva. Ma andiamo un po’ in profondità.

Il romanzo si presta a soddisfare il più vasto pubblico e mantiene tutti gli ingredienti necessari a creare un giallo. C’è l’omicidio e l’inseguimento, il pedinamento e lo scasso; qualche sprazzo di sesso che sempre serve da pinza in questo genere di lavori; l’intuito femminile e i bei posti in cui pernottano o si soffermano in vacanza le belle protagoniste. Il ritrovamento dei resti della Contessa Rossa e di una borsa piena di fogli, si porta appresso il fascino dei famosi documenti rubati, trafugati o distrutti durante gli ultimi momenti della seconda guerra mondiale italiana, argomento che ha fatto parlare e discutere a lungo. E il mistero della “Spada di Odino” che il lettore deve scoprire cosa sia nel proseguo della lettura, sempre più affascinante mano a mano che si continua nella scoperta di questo autore, rende un banale episodio di cronaca e la storia di gossip che circonda una contessina, un vero e proprio affare da thriller internazionale. Buoni i personaggi ritagliati da cronache che sembrano vere, dimostrando qui la penna del giornalista, ma anche la passione per la narrazione.

Tratto interessante del lavoro è proprio il vasto apparato di circostanze e di ambienti che difficilmente si trovano in testi italiani, ingentilendo di letteratura i percorsi di vita dello scrittore.

Un romanzo da non perdere e da consigliare.

 

Niky Marcelli: “La Contessa Rossa”, Teke Editori, Roma, 2015, pagg. 424; euro 18,00

 

Alessia Biasiolo

 

La speranza. Per ricominciare

Il sacerdote si avvicina a uno dei suoi parrocchiani, molto malato, e gli dice: “Sono venuto per parlare dell’altro mondo”. E il suo parrocchiano gli risponde: “Apprezzo la sua visita, ma non vede che ne ho abbastanza di questo?”.

Preghiera di un fedele: “Mio Dio, desidero molto conoscerti, ma non affrettare il nostro incontro”.

Al termine di ogni capitolo del libro di Jean Monbourquette dedicato al “tempo prezioso della fine”, scritto con Denise Lussier-Russel, ci sono molti “sorrisi di saggezza” al termine di ogni breve percorso, per rendere sorridente il lettore, pur parlando di un argomento che vorremmo sempre rimandare. In realtà, il volume non è scritto per chi è alla fine della propria vita, ma per tutti, anche per coloro che vogliono riappropriarsene. Così il titolo “La speranza” è quanto mai azzeccato, perché possiamo decidere di fare finire la nostra vita non in senso materiale, ma perché vogliamo darvi una svolta. Il volume parla di colpe da ammettere per superarle, di parti di noi o della nostra vita che avremmo voluto diverse o avremmo voluto cambiare, quindi leggiamo questo prezioso testo con lo spirito di cambiamento che, sin dalla saggezza di millenni prima di Cristo, porta il saggio a sapere che solo con e nel movimento si può avanzare in se stessi. Perché acquisiamo certezze, anche di voler cambiare, anche di non voler più fare ciò che si è fatto, eccetera. Il volume è un manuale denso di “percorsi di crescita” personale che accompagnano, in varia maniera (ciascuno può scegliere il più congegnale), a consapevolizzare se stessi e il proprio passato, scrivendo il proprio futuro. Quello che si vorrebbe fare ed essere, perché non lo si è fatto, cosa si potrebbe cambiare di noi per riuscirci. Adesso. Il famoso detto non è mai troppo tardi, è il segnalibro di questo testo che insegna ad affrontare, accettare, vivere, sperare, scegliere una guida. Prepararsi al grande viaggio della fine, non per forza perché la fine è vicina, ma proprio per trovarsi alla fine capaci di avere la propria vita tra le mani e di lasciarla nel migliore dei modi. Un percorso che può aiutare chi ha malati in famiglia, oppure a superare un lutto, anche il proprio lutto, quando si dovesse venire a sapere che si è giunti al termine della propria strada.

Così da capire che ogni momento è prezioso, anche se l’esempio è degli altri: a volte non dobbiamo ammalarci noi per comprendere, possiamo farlo anche vicino alla sofferenza degli altri. E sofferenza fisica e morale. Un libro facile da leggere e da mettere in pratica, adatto a tutte le età e a tutte le estrazioni.

Jean Monbourquette, Denise Lussier-Russel: “La speranza”, Paoline, Milano, pagg. 248; euro 17,00

 

Alessia Biasiolo

 

 

Anche il lago Tai lacrima

Un avvincente romanzo quello di Qiu Xiaolong, scrittore e traduttore originario di Shanghai, ma residente negli Stati Uniti dal 1989, dove è docente di cinese alla Washington University di Saint Louis. Xiaolong ha creato la famosa e fortunata serie poliziesca il cui protagonista è l’ispettore capo Chen Cao, della polizia di Shanghai, tradotta in dieci lingue. Pubblicato da Marsilio, “Le lacrime del lago Tai” racconta ancora una volta di atmosfere cinesi fatte di cibo apparentemente improponibile per gli occidentali, di donne, di sogni e di politica. L’ispettore capo Chen Cao è in vacanza. Data la sua fama, è ospite d’onore in una residenza di lusso sulle rive del lago Tai, luogo esclusivo nel quale si trova al posto del suo capo. Finalmente può spegnere il cellulare e cercare di smettere di osservare dettagli, sfumature, persone e porte chiuse, come se si volessero tenere nascosti segreti. Anche in Cina la politica ha i suoi privilegi, soprattutto per coloro che rappresentano il potere in un luogo in cui tutto dovrebbe essere per tutti e ciascuno uguale all’altro. In realtà i privilegi non mancano e le velate sottolineature dello scrittore portano una carica di osservazione nel lettore che comincia a stare più attento a dove la storia vuole andare a parare. Infatti, alcuni luoghi sembrano vietati, altre circostanze sembrano dovere restare segrete e, piano piano, l’autore induce il lettore a diventare l’ispettore capo e a porsi le stesse sue domande. Il famoso lago Tai è inquinato: le sue acque sono pericolose, pullulano di un’alga tossica e fetida che lo rende più simile ad un liquame. Nei pressi del lago c’è un’industria chimica il cui direttore viene assassinato. L’ispettore capo Chen Cao resta intanto affascinato da una bellissima donna, Shanshan, bella e determinata ambientalista che denuncia lo scempio fatto del lago e per questo viene sospettata dell’assassinio del direttore dell’industria chimica, accusata di essere la principale causa del pesante inquinamento delle acque lacustri. Così l’ispettore non è in ferie del tutto e, anzi, prende in mano l’indagine. È evidente che il denaro può tutto e, oltre a rendere più o meno comoda la vita, rende la verità l’una piuttosto che l’altra. La critica verso lo status di vita cinese fatto di corruzione che sembra la normale necessità per un Paese che deve ammantarsi di progresso, è evidente. Xiaolong sottolinea ancora una volta, come negli altri suoi romanzi, il malfunzionamento del Paese, elogiando tutti coloro che, nel loro piccolo, cercano di porvi rimedio, spesso facendone le spese. I ritratti sono a tutto tondo, sia che si tratti di Huang suo aiutante, sia che si tratti di un improvvisato ristoratore sulle rive del lago, oppure degli ambienti che sembrano vivere come persone. Una Cina antica che vive accanto a quella nuova, con riti e usanze che evidentemente sono superati, ma che mantengono una ragione d’essere più grande di quella che molti papaveri cercano di giustificare per il loro presente squallido. La poesia che l’autore mantiene per tutto il lungo racconto, è una poesia di immagini e di suoni resi così tangibili dalla capacità descrittiva semplice, asciutta ed efficace, da rendere il romanzo un vero capolavoro letterario, mentre il tema trattato non è mai perso di vista. Entrambi i piani del narrare dimostrano il profondo amore di Xiaolong per il suo Paese d’origine, ed egli dimostra anche di essere stato capace di mantenere il suo essere cinese intatto, traghettandolo ai lettori occidentali come una perla rara che permette di acquisire conoscenza di un mondo non solo affascinante perché per noi esotico, ma saggio e dalla filosofia ampia e densa.

Un romanzo da leggere tutto d’un fiato e anche centellinandolo pagina per pagina.

Qui Xiaolong: “Le lacrime del lago Tai”, Marsilio, Venezia, pagg. 336; euro 18,00.

 

Alessia Biasiolo

 

Suor Pura Pagani

Interessante il volume dedicato a suor Pura Pagani, sul finire dello scorso anno, da Mara Meneghini. Un ripercorrere le sue vie per tracciare la storia di una semplice suora che è destinata agli onori degli altari. Uno scampolo di vita iniziato nel 1914 e finito nel 2001, anni trascorsi per la maggior parte come Piccola Suora della Sacra Famiglia. Casa madre a Castelletto di Brenzone, sul lago di Garda, luogo ameno e reso ancor più prezioso dal lavoro delle suore che hanno saputo mantenere le volontà dei fondatori (entrambi beati, don Giuseppe Nascimbeni e madre Maria Mantovani), le Piccole Suore hanno mandato suor Pura in alcune case come maestra d’asilo, ma ben presto divenne nota per la sua capacità di ascoltare e di consigliare. Spesso non era nemmeno necessario andare da lei a raccontarle i fatti o le motivazioni delle necessità: dotata di preveggenza, suor Pura aveva sempre una parola buona, un’indicazione, un consiglio che, se seguiti, portavano sulla strada giusta, risolvevano i nodi problematici, trovavano sorrisi al posto di lacrime. Per questo motivo intorno a suor Pura si sono attivati molti credenti che vogliono fare conoscere la figura di quella semplice e umile suora che parlava con la Sacra Famiglia, che sapeva pregare ed essere ascoltata, soprattutto per il bene del prossimo.

Un libretto che può aiutare a conoscere quella donna e a trovare una via d’uscita ai propri problemi esistenziali o di fede, per chi ne ha necessità.

 Mara Meneghini: “Una vita per gli altri. Suor Pura Pagani”, edizioni Villadiseriane, 2014, pagg. 112; euro 8,00.

 Alessia Biasiolo

 

Contrada Armacà

Bellissimo. Un romanzo da non perdere. Autore ne è Gianfrancesco Turano, inviato speciale de “l’Espresso” e già autore di saggi. Tra i suoi romanzi “Ragù di capra”, “Catenaccio”, per citare un paio di esempi, fino a questo splendido “Contrada Armacà” che narra la storia di un giovane parrucchiere, Rosario Laganà, assassinato; omicidio chiuso troppo in fretta in una Reggio Calabria che sembra distratta dinanzi a questa morte. Movente droga o passione, in entrambi i casi sempre meglio non immischiarsi. Ma lo zio di Rosario, Demetrio Malara, non vuole saperne di chiudere l’omicidio così, come se niente fosse, e non indagare il fatto che Rosario era intimo di una suicida, molto vicina al sindaco. Lei sapeva che le sarebbe successo qualcosa e anche Rosario non era tranquillo, quando l’aveva saputa morta. Immaginava che non lo avrebbero ucciso con il figlioletto in auto o vicino, ma certi delitti non guardano in faccia nessuno. Così Demetrio si fa aiutare da un ex studente un po’ strampalato come lui, e cerca di indagare dove non vuol investigare nessuno. Ci si apre un mondo, tra Reggio Calabria, mare e monti, l’Aspromonte visto con gli occhi di chi lo ama, traffico di cocaina e persone di varia estrazione, risse e menefreghismi. Un clima che è lontano da quello solito dei polizieschi, in cui sembra che tutto poi vada a finire bene. In questo romanzo non se ne è mai sicuri, perché ci si ritrova a vivere barcollando come i protagonisti, come sempre sul filo del rasoio, a non sapere di chi fidarsi e di chi no, se si sarebbe tornati a casa intatti o meno. La facciata di una città rispettabile è squarciata e ne esce un microcosmo di lutti e di traffici, dove il denaro sembra poter comprare tutti e tutto e non esserci giustizia e lealtà per nessuno. Il sistema criminale che viene descritto è sovranazionale, forse arriva fino negli Stati Uniti, i retroscena sono proprio visti da un cronista che non si fa scrupoli di snidare la notizia con il piglio di chi cerca la verità, almeno per il proprio figlio, per il proprio nipote. Il lettore viene affascinato da uno stile irresistibile, infarcito di termini dialettali che fanno venire voglia di correre immediatamente in Calabria a cercare di scoprire qualcosa insieme ai due protagonisti della vicenda. Non manca una topografia della ‘ndrangheta a Reggio e dintorni, come il giornalista la chiama, ricca di spunti e, soprattutto, di date, nomi, sentenze, delitti. Insomma, da leggere.

 Gianfrancesco Turano: “Contrada Armacà”, chiarelettere, Milano, 312; euro 16,90

 

Alessia Biasiolo

 

“Tempo lungo” di Melega

Venne chiamato Gianluigi, come il nonno morto di influenza Spagnola nel 1919, detto poi Luisin o Gigi o Giangi, Giangiòn, Bigio. In America veniva chiamato Gaianluki e in altri modi per noi ridicoli. La famiglia era originaria di Bologna, ma il suo polo di vita è stata Milano. “Sono come uno che sia tornato da un grande viaggio e sia ora solo nella sua stanza, coi ricordi di quel che è stato e non tutto viene alla mente come era…”. Particolareggiata è invece la descrizione di Milano come la vedeva da bambino. Una vita intensa che ha attraversato tutta la storia d’Italia come l’abbiamo ora, con il referendum per la repubblica o la monarchia, il voto alle donne, le bevute di slivowitz. La grappa fatta con le more di gelso, anche se gli esperti sanno non esser grappa, ma che per tutti si chiamava così, sia che derivasse da frutta o da vinacce, bastava fosse un liquido uscito da un alambicco. Oggetto misterioso e magico allo stesso tempo. E poi le redazioni giornalistiche, la cronaca, i primi esperimenti di stile. Un libro spesso come un racconto del nonno, e cadenzato, come i ricordi che ci si può permettere di ricordare con un sorriso. La Chiesa senza Vangelo, dove il numero delle uova raccolte dal prete nella cerca autunnale era importante più d’altro. Con i peccati rimessi a carrettate, sempre gli stessi, sempre alle date di Pasqua e Natale; una Chiesa in cui cercavano di fare del proprio meglio, “Dove non succedevano puttanate” e “se qualcuno ti fregava, il prete era sempre dalla parte dei fregati”. Poi nell’Azione Cattolica, dove qualcuno cercava di crearsi feudi di potere sulle anime, tra messe e ribelli impuniti. Quindi un andare e venire della memoria e dei fatti che diventa uno dei punti di forza del romanzo-saggio di vita vissuta-autobiografia di un uomo e di un Paese intero. Giornalista a “il Giorno”, pittori, viaggi, Pomedo dove anche alcuni fascisti andarono a “cambiare aria” intorno al 25 aprile di settant’anni fa. Poi tornano davanti agli occhi gli epurati che vivevano in miseria; i tram vuoti perché la gente non aveva i soldi per pagare il biglietto. Risparmi bruciati dall’inflazione, carta rigenerata giallastra di manifesti pubblicizzanti il prestito della ricostruzione, e alcune donne della vita con i propri sogni e i sentimenti reali della quotidianità. Interessante il confronto con oggi: “I giornali apparivano come bollettini di peste”, non lasciavano spazio ai morti violenti. “Nei giornali non c’era posto per i delitti: ma se tutti i morti di morte violenta di quel periodo risorgessero e marciassero insieme, uno spaventoso esercito apparirebbe sui campi di Lombardia”. Gli ebrei tornavano, ma chi aveva avuto in custodia i loro beni giurava li avessero rubati i tedeschi. “I reduci dai campi di concentramento flottavano dal Brennero come un perenne ricordo, uno spettrale ammonimento di quel che era passato”. E poi gli amori, le donne, Barbara che lo accusa di risucchiarla come forse aveva fatto con tutto e tutti per tutta la vita. Le idee prese a prestito oppure utilizzate dagli altri, ma rielaborate in chiave personale come le impressioni, le immagini, i ricordi appunto. Un Paese che si costruiva come la personalità del giornalista, tra viaggi, commenti, luoghi comuni e rarità. Un libro dal tono coinvolgente, che non si può smettere di leggere.

Gianluigi Melega: “Tempo lungo. Autobiografia del boom”, Marsilio, 2014.

Alessia Biasiolo

La famiglia Karnowski

Pubblicato per la prima volta nel 1943, “La famiglia Karnowski” è stato recentemente ridato alle stampe permettendo al più vasto pubblico di assaporare alcune delle pagine più interessanti e significative del Novecento. Maestro indiscusso del romanzo, Israel Joshua Singer, nato a Bilgoraj nel 1893, cresciuto a Leoncin e a Varsavia, fu a lungo viaggiatore per la Polonia, la Galizia e l’Unione Sovietica, fino a quando, nel 1934, lasciò l’Europa per emigrare negli Stati Uniti, dove morì nel 1944. Prolifico autore di romanzi e racconti, oltre che di articoli giornalistici, visse tuttavia nell’ombra del fratello minore Isaac B., premio Nobel per la Letteratura. Per questo motivo, Isaac Joshua Singer non venne approfondito, perdendo la possibilità di farsi conoscere ed apprezzare come avrebbe potuto. Quindi, l’operazione di riedizione ci consegna tra le mani la saga dei Karnowski, famiglia ebrea polacca, non soltanto per raccontarci chi erano e di cosa si sono occupati, fatto questo di fondamentale importanza per persone che facevano del successo personale la loro ragione di vita, quanto per immergerci in un affresco di sensazioni assopite, in colori stinti che, tuttavia, hanno il fascino del nascosto, del passato, delle tradizioni di cui siamo ghiotti quando sono lontane da noi. Quindi leggiamo di David che, a seguito di una lite all’interno della sua comunità, lascia il suo shtetl polacco e si reca a Berlino. Solo lì, infatti, è certo che potrà trovare la propria strada, lontano dall’oscurantismo di chi voleva interpretare le scritture a modo suo, impedendogli di dare il proprio colto contributo, frutto di una severa preparazione personale. A Berlino, mette in piedi un’attività che cerca di fare prosperare, allo stesso tempo imponendosi di lasciarsi alle spalle accenti e modi di fare, scegliendo di frequentare la società che conta per poter trovare lo spazio che è convinto di meritare nella società tedesca. Gli fa da contraltare la moglie Lea che, pur seguendo fedelmente il marito, non vuole saperne di cancellare il proprio passato e di dimenticare le proprie origini, pertanto fugge, appena può, in casa di un ebreo normale, fracassone e dalla famiglia allegra, per poter vivere ancora di frasi gergali, del proprio dialetto, delle proprie chiassose riunioni, lontane dall’apparenza nella quale sembrava volerla imprigionare il marito. Ha un figlio, maschio, che David vuole allevare secondo i propri dettami, ma che, come lui, è un ribelle e vuole vivere la propria vita a modo suo. Scialacqua soldi, si diletta tra prostitute e serate dissolute, fino a quando conosce la figlia di un medico dedito alla beneficienza. Così lontano da suo padre che pensa solo ai soldi, il medico padre della sua amata si arrabatta tra l’ambulatorio dove la gente paga quel che può, lasciando i soldi su un piatto da dove chiunque ne abbia bisogno si può servire, e le passeggiate salutistiche in compagnia della figlia. Una coppia davvero stravagante, tanto che la ragazza si preoccupa più di dissezionare cadaveri che di godersi la vita, seguendo il padre vedovo nel suo lavoro, e imparando bene quanto lui a curare la gente. Elsa è invaghita del bel giovane ricco Karnowski, che la corteggia tanto da mettersi a studiare Medicina per poter diventare interessante ai suoi occhi, ma non ha alcuna intenzione di lasciare il proprio lavoro e la propria carriera per diventare moglie e madre. Una società che sta cambiando e che si avverte mutare attraverso le scelte di vita dei vari protagonisti, ma che si avverte anche protesa a cercare altre vie di esistenza, tra rigore e ordine da un lato e tra appartenenze comuniste dall’altro. Un mondo che si avvicina sempre più ai nostri tempi, attraversando come in una bella fiaba attimi intensi di sconvolgimento interiore: lotte tra padri e figli, discussioni tra marito e moglie, e via discorrendo. Singer indugia molto, in modo lieve, sui rapporti tra le persone: quelli tra madre e figlio, ad esempio, e tra le donne e loro stesse, mettendo davanti al lettore la figura di una donna libera a fianco di un marito molto appariscente, e una donna succube che potrebbe diventare suocera di una donna libera. Allo stesso tempo, la moglie di David si ritrova incinta di una figlia sulla quale, finalmente, può rivolgere tutte le sue attenzioni sapendo di poterla sottrarre al controllo del marito, più intento a seguire il figlio maschio, pur rendendosi conto di avere allevato un ribelle a tratti inetto e di avere fallito la linea di condotta paterna quasi del tutto. Insomma, procedendo nell’affascinante e coinvolgente lettura, ci si ritrova ad essere nei salotti delle persone di cui Singer sta narrando e di voler conoscere tutti i loro segreti, per contare su un’amicizia sincera come quella di un buon libro. Pagine di un Novecento che talvolta rimpiangiamo e di cui vogliamo conoscere sempre di più. È così, quindi, che la saga famigliare procede fino a quando David e Lea Karnowski si trovano davanti l’amato della figlia, e a breve suo sposo, in un momento in cui la ragazza si ammette disillusa dall’amore e dall’ammirazione per alti ragazzi tedeschi, biondi e dagli stivali alti e lucidi, che portano a pensare ad un’altra Germania, quella dell’odio razziale. Ecco che all’improvviso, gli stessi Karnowski non sono più le importanti persone che David desiderava fossero, ma soltanto degli ebrei, come il nuovo genero, per fortuna come affermò lo stesso David. La storia procede per continui rivolgimenti personali, famigliari e storici e accompagna in un interno senza commenti, senza retorica, senza partecipazione da parte dello scrittore. Abbiamo ogni sorta di emozione descritta, ma con la compostezza di un saggio che guarda alla vita senza scomporsi quando questa si dimostra per quello che è. Un interessante mosaico che un maestro sapiente insegna a decifrare, mentre si snoda apparentemente senza fine davanti ai suoi occhi.

Da leggere.

Isaac Joshua: “La famiglia Karnowski”, Adelphi edizioni, Milano, 2013, pagg. 504.

Alessia Biasiolo

Quando il cielo è pieno di nodi. Ricordi della Resistenza

Dei libri mi piace leggere e assaporare a volte il titolo, a volte il risvolto di copertina, a volte qualche pagina sparsa qui e là, prima di cominciare a leggerli sul serio, lasciandoli raccontarmi loro stessi, senza fermarmi a pareri diversi da quello che, scrivendo una recensione, è il mio. Stavolta prendo tra le mani un nuovissimo libro, davvero fresco di stampa, e leggo una bella dedica. A chi costruirà un avvenire partendo dal passato raccontato in un grosso pugno di oltre duecento pagine. E comincio una lettura appassionante, pur su una trama inusuale, un tracciato di vita che segue la vita, più che l’impaginazione. E io che ho sconvolto più di una persona perché i miei libri a volte non hanno indice, a volte non hanno suddivisione in capitoli, a volte non sembrano avere neanche un titolo, non mi stupisco affatto della scelta. Mi osserva dal risvolto di copertina una composta signora che dimostra molti anni meno di quelli che ha. Ha lo sguardo solare di chi può dedicare il proprio libro come ho scritto; ha la capacità di guardare nel profondo propria di chi sa quello che scrive e ha saputo volere quello che doveva volere nella vita. Mi appare una donna che non sta a chiedersi il perché, ma che agisce. Il suo libro è azione. Ed è scritto come Steve Job ha detto di avere vissuto: alla fine di un percorso che non sai perché hai percorso, unisci i puntini. L’autrice che sembra sorridere dalla foto di copertina, Teresa Vergalli, invece di unire i puntini ha unito di nodi, ma la questione non cambia. Persone come Steve e Teresa ci mostrano il tracciato della loro avventura di vita e sta poi a noi capire se qualcosa di quello che hanno fatto, e di quello che hanno raccontato, ci serve o ci può servire perché la nostra strada abbia un senso. Teresa Vergalli, classe 1927, originaria della provincia emiliana, è stata una staffetta partigiana e proprio di quella storia, “La storia che si fa romanzo”, scrive nel suo ultimo lavoro, “Un cielo pieno di nodi”. Già nota per “Storie di una staffetta partigiana”, impegnata per anni nel movimento di innovazione didattica, Teresa Vergalli è maestra nell’impostare un ragionamento partendo dai singoli fatti. E dando proprio a quelli, quegli insignificanti attimi di vita di persone anonime, l’onore di diventare racconto storico, tassello che va a completare quella Storia che molti pensano di poter scrivere, o riscrivere, solo interpretando, o reinterpretando, documenti polverosi. Ecco che, invece, Ave, Alvaro, don Pietrino ritornano vivi e vegeti davanti a noi lettori, e li immaginiamo nella fretta di dover prendere decisioni, nell’affanno di doverlo fare di nascosto, prima che qualcuno se ne accorga e dia l’allarme. Facendoli arrestare, denunciandoli, o peggio uccidendoli. Si tratta di nascondere e poi fare sparire due russi che la zia Irma ospita dopo che sono riusciti a sfuggire ai tedeschi che li avevano arrestati. Si tratta di correre a fare scappare, tra il 9 e l’11 settembre, gli uomini che erano in prigione, prima che si sappia l’accaduto, prima che si capisca bene cosa sta accadendo, lungo una Via Emilia confusa come lo è stata per alcuni lunghi attimi tutta l’Italia. Attonita tra la felicità della fine di un conflitto e lo sconcerto nel non vederlo affatto finire. Tra tutto, una ragazzina, che non ha neanche il seno abbastanza grande per nasconderci in mezzo i messaggi dei banditi che, nascosti prevalentemente sui monti, cercavano di combattere quell’odioso miscuglio di occupanti nazisti e di italiani fascisti. Ospitare Pasquale costa il rogo della baracca ai Filippi; salvano la casa, ma perdono tutto quello che hanno a causa di una spia. Perché essere tanto cattivi contro altri italiani?

Ascoltare Radio Londra per avere notizie di un mondo libero senza sentirsi eroi e senza quell’aureola di misticismo di cui sembravano essersi cinti tanti che Radio Londra la “nascondevano” nei fienili, nel fondo della propria coscienza, sperando fosse tutto vero, sperando fosse la scelta giusta. Ecco. Dai racconti di Teresa traspare questa sensazione: non che tutto fosse accaduto nella certezza di avere la soluzione in tasca, ma nella speranza che fosse davvero così, che tutto finisse in meglio. Si legge della coscienza e dell’istinto di operare per rispondere a se stessi, senza essere eroi, né allora né dopo, né oggi. È la Storia a decretare l’eroismo, a dare risposte per le quali a volte bastano istanti, a volte bisogna pregare e sperare per anni. Ritorni dal fronte, famiglie falsamente unite, lacerazioni profonde. Una girandola di ricordi e di colori, di vita o di morte, a seconda del momento, dell’attimo immortalato nella memoria come se fosse la lastra fotografica di un esperto. E il desiderio di farne partecipe le persone che devono utilizzare questi ricordi per costruire un presente. E quale? Non quello sociale, quello delle parole, dei proclami. No. Il presente di loro stessi. Il presente di noi stessi. Quello di allora era un presente nel quale Teresa, come altri che ha nel cuore, ha lasciato le basi per questo futuro. Ora abbiamo noi stessi da costruire per essere davvero il terreno sul quale potere avere un futuro domani e settant’anni dopo. Settanta anni dopo quel 25 aprile che viene celebrato spesso male, spesso con le parole stonate, senza contare che è stato il momento dell’Italia libera. Dall’occupazione, dal governo fascista, da se stessa. Da quella parte di sé che doveva imparare ad essere diversa, a crescere per essere migliore. Bene, Teresa, ce l’hai fatta. Siamo qui a dirti, leggendo il tuo bel libro che, nel nostro meglio, siamo il futuro, magari imperfetto, che il tuo essere partigiana ha creato. Grazie.

 

Teresa Vergalli: “Un cielo pieno di nodi”, Editori Riuniti, Roma, 2015, pagg. 232; euro 21,50.

 

Alessia Biasiolo

La grande illusione. Matteo Renzi

Lo spunto è il titolo del famoso film che ha riportato l’Italia in auge nella cinematografia internazionale, ricalcando, pur se in modo rivisitato, la “Dolce vita” in versione anni Duemila. Ma la “grande illusione” per Fabrizio Boschi è il Matteo nazionale, il premier Renzi, analizzato nella sua carriera tra il 2004 e il 2014, cioè “Dalla Provincia di Firenze a Palazzo Chigi” che, per l’autore, sono stati addirittura “dieci anni di giochi di prestigio”. Il libro è assolutamente interessante e da leggere, soprattutto se non si è deboli di cuore, nel senso se si è disposti a sopportare di leggere di veri e propri giochi da “la mano è più veloce dell’occhio”. Travasato in politica, potremmo dire se la quotidianità è più veloce della memoria che noi italiani solitamente abbiamo corta. Il taglio del libro è simpatico, lo stesso Boschi afferma che assolutamente non ce l’ha con Renzi stesso, però lo ha studiato e analizzato per regalarcelo dopo la prefazione di Alessandro Sallusti. Secondo Sallusti, che lo ha conosciuto in dibattiti televisivi, il soggetto è simpatico, capace di rottamare prima di Grillo, di seguire la scuola di Berlusconi in tema di leadership, ma di lui non si fida perché, a differenza di Berlusconi, Renzi non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Certo, ha fatto il politico, ma il lavoro è altro che parlare, viaggiare, incontrare. E su questo punto bisogna ragionarci su.

Quindi, dopo l’analisi personale di Salllusti, passiamo alla vita di Matteo Renzi secondo Boschi, da com’era a scuola, a quando partecipava ai quiz di Mediaset, per arrivare all’affinamento della volontà di riuscire. Ragazzo un po’ goffo, sembra che abbia voluto a tutti i costi riuscire, al punto che ha messo a frutto in politica il suo equilibrismo, parlando tanto al punto che convince tutti di tutto, se soprattutto perdono il filo da dove è iniziato il discorso. Ad esempio, sostenendo di non volere affatto assecondare Angela Merkel, ma dando l’impressione di avere fatto proprio questo. Un’impressione che per Boschi fa pensare alla “velocissima parabola di Renzi” come ad una “grande illusione”. Continua l’autore: “Dopo i primi passi del governo Renzi, tutti si sono accorti che questo giovanotto di Rignano sull’Arno, altro non è che un fuoco fatuo, strabordante di belle parole, ma piuttosto vuoto nei contenuti”.

Renzi chi è per Federico Boschi quindi? “Uno nuovo, troppo nuovo, nuovista o, invece, un vecchio politicante, un giovane virgulto di perfetta scuola democristiana con la faccia da giovane, ma i metodi da vecchio?”. Viene proposto spesso il paragone con Machiavelli, un confronto che personalmente trovo ironico, dato che del potere di governo alla Niccolò c’è solo la facciata. Come se si trattasse dello specchio dei tempi, una sorta di brutta copia tipica dei giovani di oggi che, se non sono più che preparati, prendono la prima pagina di internet che risponde alla ricerca, oppure si accontentano di una App, per farsi una storia e una ragione senza, tuttavia, averne spessore e costrutto. Boschi propone una lettura diversa del renzismo, per fare ragionare e, soprattutto, capire dove sta l’Italia oggi, con quella sequela di provvedimenti, di leggi e leggine che si rincorrono dando la sensazione di non cambiare nulla. Ad esempio, cos’è cambiato nella politica? Hanno tolto i vitalizi, li hanno abbassati, hanno davvero cambiato, oppure soltanto si sono limitati ad imbonirci di parole? La solidarietà di cui tanto si parla in questi giorni la dobbiamo avere noi comuni mortali tra noi, come al solito. Perché la Corte Costituzionale non ha ridotto i propri privilegi, nemmeno Renzi ha messo le tasse a quello che i politici prendono e andiamo avanti così, preoccupandoci di tagliare le pensioni se una persona, dopo avere lavorato quarant’anni, vive con un’altrettanta persona che ha lavorato quarant’anni. Perché fanno i conti in tasca rispetto a cosa deve spendere una persona e come, ma di loro sì, si dice tanto, ma non cambiano abitudini.

Renzi: chierichetto, figlio di una famiglia cristiana praticante, scout, negato per il calcio, cominciò ad arbitrare, per poi abbandonarlo. Perse le elezioni per diventare rappresentante d’istituto, ma venne ripescato come primo dei non eletti. Lo chiamavano “i’ Bomba” perché amava spararle grosse e, aggiunge Boschi, “Quel vizio di essere, o sembrare, sempre il primo in tutto non se l’è mai tolto di dosso. Era un tantinello prepotente e si divertiva a rubare la scena agli altri, di mettere in ombra i ragazzini che frequentava”. Uno dei suoi miti divenne Fonzarelli della serie televisiva “Happy Days”, più volte citato, ma anche imitato quando si presentò agghindato da Fonzie alla trasmissione di Maria De Filippi nel 2013. Al punto che sui social network venne soprannominato Arthur Renzarelli. Boschi fa sorridere definendo Renzi un folgorato sulla via del Valdarno dalla politica quando aveva soltanto dieci anni e quella divenne la sua strada. La sua tesi di laurea si intitolava “Firenze 1951-1956: la prima esperienza di Giorgio La Pira sindaco di Firenze” e si laureò, nel 1999, in Giurisprudenza. Intanto, la sua carriera politica proseguiva spostandosi nel 2001 dalla zona di centro un po’ più a sinistra quando venne nominato coordinatore fiorentino della Margherita. Segretario del Partito Popolare, riuscì a fare tenere il primo congresso nazionale della Margherita proprio a Firenze, dove il Partito Popolare subì la trasformazione. Si scagliò subito così contro la vecchia politica, iniziando quella rottamazione che caratterizzerà il suo diventare primo ministro. Divenne presidente della Provincia di Firenze a 29 anni, il più giovane d’Italia. Eppure poi considererà questo ente inutile. Durante il mandato scrisse il secondo libro, questa volta da solo, e lo fece diventare un manuale della rottamazione scrivendo nell’introduzione “Anche i dinosauri prima o poi si estinguono”. In quel periodo il suo protagonismo cominciò a infastidire, afferma l’autore. Invece di ricandidarsi alla Provincia, si candidò alle amministrative e divenne il sindaco più amato d’Italia, secondo i sondaggi del 2010. Anno che diede il via alla mitica “Leopolda”, dal nome della ex stazione ferroviaria, la prima di Firenze, dedicata al granduca Leopoldo, luogo di aggregazione non nuovo per Renzi e che diverrà famoso anche in seguito.

Renzi continua ad imparare: come parlare, come vestirsi, come rispondere, ancora come parlare, soprattutto come continuare a parlare. Diventa quello che Vittorio Feltri sintetizza così: “Quando uno scopre l’acqua calda spacciandola per un’idea geniale bisogna diffidarne”. Il tono del lavoro di Boschi è questo, preparato, e divertente in fondo, molto ben scritto, ma un’idea vi è imperante, e che mette in soggezione e in ansia: che tipo di persone siamo per avere dei rappresentanti che ci “imboniscono”, se la teoria proposta è vera? Ci facciamo piacere l’apparenza? Renzi che si opponeva al vecchio dei giochi di potere, ne è di fatto un artefice?

Questo è il merito del lavoro di Federico Boschi, praticamente coetaneo di Renzi, giornalista e scrittore. Un’analisi che, a parte i dati precisi, ci permette di ragionare, processo che in Italia è stato appiattito al punto che quando qualcuno tra i comuni mortali ha un vago sentore di domanda tra sé e sé su cosa non va, in realtà si chiede se è l’unico fuori luogo tra tutti.

Da leggere.

Federico Boschi: “La grande illusione. Matteo Renzi 2004-2014”, Amon, 2014.

 

Alessia Biasiolo