L’Uganda, regione dei Grandi Laghi. Scopriamola insieme

Un Paese che ai più non dice molto, ma che fa parte a tutti gli effetti dell’Africa in via di sviluppo, mi ha dato lo spunto, per intervistare la presidente dell’associazione AFRON che si interessa di portare avanti, fra le altre cose, la prevenzione oncologica. Ho potuto avere un colloquio con Titti Andriani che ha toccato temi vari e di stretta attualità.

IMG_0561-Titti AndrianiCom’è nata AFRON Oncologia per l’Africa Onlus?

AFRON viene fondata a Roma il 10 maggio 2010 da medici specialisti dell’Istituto dei Tumori di Roma “Regina Elena” e nasce in seguito ad un allarme lanciato nel 2008 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “se non si interverrà tempestivamente con opportuni programmi di prevenzione e cura, l’Africa si troverà ad affrontare, entro il 2020, 13 milioni di nuovi casi di cancro e circa 1 milione di decessi l’anno”.

Di fronte a questa drammatica realtà era impossibile rimanere indifferenti; mi sono fatta quindi promotrice e portavoce della lotta al cancro nei paesi africani, coinvolgendo amici e colleghi oncologi con cui già lavoravo.

L’Associazione opera in Uganda e si occupa in particolare di tumori femminili: cancro della mammella e della cervice uterina.

Perché l’Uganda?

L’Uganda è un paese meraviglioso, non a caso viene definita la Perla d’Africa. Nel 2006 ho svolto la mia prima esperienza di volontariato in Uganda e mi sono innamorata del paese, delle sue bellezze naturali e del sorriso della sua gente, ripromettendomi di tornare ed aprire presto un progetto umanitario. Prima di fondare AFRON, ho cercato dei paesi idonei dove iniziare le nostre attività, ma l’Uganda poi si è rivelata perfetta, c’erano le basi sanitarie per introdurre le nostre attività. L’Uganda è stato il primo paese africano ad avere un Istituto Nazionale per la Cura e lo Studio del Cancro e ad introdurre le cure palliative. L’attenzione verso la lotta al cancro era molto alta e noi ci siamo inseriti nel paese nel momento più favorevole.

Che situazione avete trovato in Uganda?

L’Uganda può veramente definirsi un paese in via di sviluppo. La situazione politica ed economica è abbastanza stabile e ci consente di programmare delle attività anche a lungo termine. La lingua ufficiale è l’inglese, insieme allo Swahili, inserito nel 2005, ma in Uganda vengono parlate circa 40 lingue o dialetti. Le popolazioni confinanti non potrebbero comunicare se non parlassero l’inglese in comune, questo vale anche per noi che lavoriamo in tante regioni diverse. Anche i gruppi etnici sono numerosi, divisi principalmente fra popolazioni bantu e popolazioni sudanesi e nilotiche. Le religioni sono per la maggioranza cristiana (cattolica e anglicana). I musulmani sono il 12,1% e gli animisti l’1,9%.

Nel lavorare in Uganda, come superate le resistenze dei locali?

Effettivamente grandi resistenze non ve ne sono, anzi. L’Uganda è stato un Protettorato Britannico ed il processo di colonizzazione si è rivelato molto leggero, rispetto a quello che hanno subito altri paesi africani, soprattutto quelli francofoni. Il rapporto con i bianchi è sempre stato di cooperazione, mai di subordinazione. Noi abbiamo ereditato quanto di buono hanno lasciato gli inglesi: un buon sistema sanitario e scolastico.

Per quanto scherzosamente ci chiamano “muzungu” (bianco), i rapporti con i locali sono di reciproca stima e collaborazione. Abbiamo tanto da imparare anche noi da loro.

Titti Andriani

Quali sono i vostri settori di intervento?

Essenzialmente sono 4:

garantiamo la formazione oncologica del personale medico ed infermieristico locale;

sensibilizziamo le donne e le comunità di riferimento sul riconoscimento della malattia e l’abbattimento dello stigma del cancro;

promuoviamo la prevenzione e la diagnosi precoce, quale mezzo prioritario per sconfiggere il cancro;

favoriamo l’accesso ai trattamenti oncologici, non coperti dai sistemi sanitari africani.

Quanto è difficile far capire alle persone che devono recarsi in ospedale anziché lasciarsi morire o andare dallo stregone?

Purtroppo sul cancro ci sono ancora tanto stigma e miscredenze. Si pensa che sia una malattia infettiva, come lo è stato l’HIV, e quindi le persone malate vengono emarginate perché ritenute contagiose. Molti pensano che sia una punizione per un comportamento sbagliato e quindi si lasciano morire senza avere alcuna possibilità di cura. Molti ancora pensano che il cancro sia una maledizione divina e quindi lo stregone sembra essere l’unica soluzione per guarire. C’è anche la credenza che siano gli ospedali stessi a far morire le persone; questo purtroppo perché, quando i pazienti si presentano in ospedale, sono in uno stadio molto avanzato e le conseguenze quindi sono fatali. C’è anche chi, convinto che la diagnosi di cancro sia una sentenza di morte, preferisce tenere i soldi da parte per un buon funerale piuttosto che per la degenza in ospedale.

Quali sono le aspettative della Vostra Onlus?

Abbiamo tantissimo lavoro da portare avanti, combattere il cancro vuol anche dire insegnare la cultura della prevenzione nella popolazione africana, perché solo con la prevenzione e la diagnosi precoce ci si può salvare. Oggi come già accennato, purtroppo le persone si recano in ospedale troppo tardi sia per la distanza dagli ospedali, sia per le scarse risorse economiche. Le donne non lasciano volentieri il lavoro nei campi ed i numerosi bambini a casa. Anche la mancata conoscenza della malattia e dei suoi sintomi costituisce un grande ostacolo. Per questo motivo ci stiamo concentrando su due attività in particolare, che sono le uniche armi possibili per combattere il cancro in Uganda: INFORMAZIONE E SCREENING. Una donna che conosce la malattia e che riceve un pap test è una donna che può salvarsi dal cancro.

Come fate a far conoscere le vostre attività?

Usiamo gli strumenti di comunicazione più frequenti, dal sito a Facebook, alla newsletter agli eventi. A breve lanceremo una campagna di comunicazione e raccolta fondi che si chiamerà BREAK THE WALL: vogliamo rompere il muro del silenzio, dell’indifferenza e della disperazione che oggi avvolge la malattia oncologica e isola le donne ammalate. Il messaggio BREAK THE WALL si indirizza sia alle donne ugandesi, per spingerle verso la prevenzione, e sia ai nostri connazionali, per sensibilizzarli verso la nostra causa e verso un diritto alla salute che speriamo un giorno  diventi universale.

Intervista di Bruno Bertucci

 

 

Peluqueria Hernandez. L’intervista

Avete definito Mamboo il “disco della maturazione”. La musica dei Peluqueria aveva ancora qualcosa di acerbo?

Mauro Marchesi: Non direi “acerbo”, piuttosto “impermanente”. Il suono dei Peluqueria è il risultato di un melting pot generato dalle mie passioni musicali che, inevitabilmente, si accumulano negli anni cambiando di continuo la sua ricetta. Direi che in questo ultimo album la miscela è forse più a fuoco rispetto ai primi due.

Il vostro debutto era del 2007, del 2011 Amaresque: che differenze ci sono con Mamboo?

Mauro: Una maggiore cura negli arrangiamenti, una formazione più ricca di suoni: abbiamo una tromba e un sax in più. Anche le chitarre sono più variegate con suoni elettrici, acustici e una slide guitar nuova fiammante. Poi c’è la voce di Giuliana Bergamaschi a impreziosire due brani: insomma un lavoro più corale, frutto della mia passione per gli arrangiamenti ricercati e il lavoro in studio di registrazione.

Un passaggio importante per arrivare al nuovo disco è Peluqueria Hernandez – Il film. Cosa ha significato per voi cimentarvi in un’opera cinematografica?

Joyello Triolo: Fondamentalmente non è stata una nostra idea. Avevamo visto dei video e dei filmati realizzati da un nostro amico e gli abbiamo fatto i complimenti. Lui non s’è fatto scappare l’occasione e ha scritto una sceneggiatura per NOI. L’abbiamo letta ed era assurda! Ci è piaciuta subito e abbiamo accettato. Non aveva un vero e proprio significato PER la nostra musica, però ci è sembrato un veicolo per farla arrivare a una fetta di pubblico che forse non ci conosceva ancora.

Mauro: Incontrandomi con Federico ( il regista/sceneggiatore) ho scoperto che abbiamo lo stesso gusto per il grottesco. Siamo entrambi fan del fumetto Alan Ford con i suoi personaggi cialtroni surreali. Unire il nostro suono a una sceneggiatura tagliata e cucita appositamente sui nostri pezzi è sembrato molto naturale. Dopotutto la nostra musica è sempre stata definita “cinematografica”.

Come mescolare balera e mariachi, Morricone e il jazz: Mamboo si candida a ottimo esempio in materia. Qual è il segreto per far convivere musiche e culture diverse, risultando anche piacevoli e leggeri?

Joyello: Siamo una formazione di sette elementi. Solo questo basta per avere una varietà di gusti musicali di grande impegno. E poi non abbiamo più vent’anni né le ambizioni di diventare qualcosa di diverso. Principalmente ci divertiamo e non ci facciamo domande.

Mauro: Il fatto è che le mie passioni (il fumetto, il cinema e ovviamente la musica) non si sono mai nutrite di un unico elemento. Non sono mai stato un monomaniaco, anzi sono sempre stato attratto dai contrasti. Per anni mi sono chiesto come sarebbe un film di Tarantino realizzato dagli studi Hanna e Barbera. Sostanzialmente il segreto è non porsi limiti ma cercare di far coesistere in maniera armoniosa, quindi attraverso i nostri suoni, elementi musicali diversi e molto distanti come il prog rock, il liscio, il jazz. Se non ti poni limiti non ne hai.

Negli ultimi anni in Italia si è diffuso – e ha conosciuto crescenti apprezzamenti critici – quello che chiamate “sound desertico padano”. Pensiamo ai Sacri Cuori, al Santo Nada di Umberto Palazzo, ai recenti Rubacava Sessions. Un sound di cui siete stati in qualche modo precursori…

Joyello: Grazie per averlo notato. In realtà siamo stati tra i primi a scegliere questo tipo di linguaggio. Abbiamo solo avuto una serie di disavventure a causa delle quali i nostri primi due dischi sono rimasti in attesa molto a lungo prima di uscire. Nel frattempo succedevano cose, nascevano band che facevano lo stesso percorso lasciandoci al palo e facendo sembrare che fossimo noi a seguire la flotta. Con Mamboo abbiamo cercato di allontanarci un po’ dalle prime cose, abbracciando un gusto quasi lounge.

Mauro: Si è vero. E’ un suono molto popolare ultimamente. Per me la cosa è partita con Paris Texas, il film di Wim Wenders. E’ dall’84 che gravito intorno a questo mondo desertico: nel tempo, ho seguito le tracce sulla sabbia del deserto e ho trovato che molti altri musicisti stavano percorrendo quel sentiero. Fino ad arrivare a John Zorn, che sembra essere il minimo comune denominatore tra tutti i membri della band. Poi con il mio lavoro (faccio l’autore di fumetti) ho in parte sublimato l’universo narrativo che mi covava dentro. Ma è stato inevitabile pensare a come poteva essere la colonna sonora di quelle storie. Peluqueria Hernandez è nata per questo motivo: dare un suono alle mie storie.

Se pensiamo a musicisti come Paolo Conte e ancor prima a romanzieri come Piero Chiara, o a cineasti come Pupi Avati, scopriamo che la provincia italiana è il luogo ideale per raccontare con gusto e originalità: è così anche per voi?

Mauro: Oh sì sì… per me la provincia è il terreno più fertile per storie interessanti. Arrivo a dire che è il set paradossalmente più esotico per raccontare personaggi e vicende. In particolare la zona della bassa veneta, il delta del Po, sono terre ricche di fascino, in cui il silenzio e la nebbia fanno intravedere brandelli di storie tutte da raccontare. E da musicare ovviamente.

Un gruppo come Peluqueria, composto da gente di musica e legato a una sonorità e a un’estetica profondamente viniliche, come vive la liquidità della musica contemporanea? Mamboo esce in digitale…

Joyello: Essendo sette persone, immaginerai che la scelta di uscire in digitale è stata accolta in sette modi diversi. Chi avrebbe voluto fare un vinile, chi preferiva la versione in CD, chi preferisce il digitale. Inutile nascondere che in un mondo perfetto avremmo fatto tutti e tre i formati e forse anche la cassetta ma i tempi son questi e i soldi… pure. Diciamo che dipenderà dall’accoglienza della prima edizione. Se i download saranno copiosi e il disco funzionerà per davvero, potremmo pensare a delle fighissime edizioni fisiche. Anzi, alla Kutmusic si sono fatti già venire delle idee…

La vostra musica è in Creative Commons: quali sono i motivi di questa scelta?

Joyello: Era una scelta dettata dall’esigenza di proteggere la nostra musica negli anni in cui non avevamo depositato nulla. Poi abbiamo depositato regolarmente tutto il repertorio ma nel nostro sito abbiamo lasciato il regime di CC che, in sostanza, autorizza chiunque a usare la nostra musica purché venga regolarmente accreditata.

Peluqueria presenterà Mamboo dal vivo: sul palco ascolteremo qualcosa di diverso rispetto al disco?

Joyello: Ovviamente sì! Nei dischi ci divertiamo ad aggiungere un sacco di roba: mellotron, archi, elettronica, sovraincisioni… Dal vivo siamo più “asciutti” ma generalmente molto fedeli agli arrangiamenti del disco. Nessuno di noi è un appassionato di Jam Session. Siamo una band che ha bisogno di regole e rigore. Già imponendocelo siamo molto indisciplinati, figurati cosa succederebbe se non lo facessimo!

Mauro: C’è da dire che comunque ci piace giocare con dilatazioni nei brani in cui possono accadere improvvisazioni di stampo jazzistico o psichedelico. Ma questo non viene mai pianificato, dipende dal mood della serata.

Tanti ascoltatori e lettori se lo chiedono ancora… Cosa significa Peluqueria Hernandez?

Mauro: Al momento della scelta del nome volevamo un nome spagnolo, una parola dal suono simpatico e dal significato non convenzionale e divertente. La scelta è caduta su Peluqueria a cui ho voluto aggiungere un omaggio ai miei autori di fumetti preferiti : i fratelli Hernandez. Voilà: il nome è servito.

D.Z.

Brividi per pianoforte. Intervista a Murray Perahia

L’incontro con il Maestro Murray Perahia risponde ad un’esigenza di approfondimento musicale. Quando un pianista o un musicista si preoccupa di inviare un messaggio del passato che arrivi al cuore del pubblico con i sentimenti di oggi può sicuramente darci una lezione non solo di musica, ma di vita. Così il Maestro interrompe le prove, si avvicina e racconta la sua maniera di interpretare col piano.

Perché ha deciso di interpretare questo programma?

Ero interessato alle Variazioni Goldberg di Bach, ed anche ai Corali, poiché le amavo già da molto tempo.

È vero che è molto diverso interpretarle per piano e per clavicembalo?

Sì, per non dire dell’organo. Credo che la cosa più importante, però, sia la costruzione del brano, non tanto lo strumento. Bach poteva comporre concerti sia per violino, per oboe e le stesse armonie le ha elaborate per piano; ma non penso che le sonorità dello strumento siano la cosa più importante. La struttura, l’armonia, il contrappunto: in Bach queste sono le cose importanti.

Cosa pensa della musica contemporanea?

Non la capisco: quando manca l’armonia e non ci sono tonalità è molto difficile stabilire che si tratti di musica.

Dal momento che il pianoforte ha una letteratura molto vasta, quali musicisti ne sono stati a suo avviso i capisaldi?

Tutti, a loro modo, hanno contribuito a questo sviluppo. Già Bach era un pilastro dal punto di vista tecnico, anche se non propriamente pianistico, quantomeno per il clavicembalo. Le Variazioni Goldberg sono molto difficili. Ma non dimenticherei Mozart, Chopin…

Cosa vuol dire per lei comunicare quando suona?

Produrre emozioni nel pubblico che ascolta, fattore per me determinante: vorrei trasmettere proprio le musiche di ieri con la mia interpretazione e le mie emozioni, ma non pretendo di imporle, voglio comunicare ciò che gli autori hanno scritto. Perché la tonalità di si bemolle e non quella di si naturale? È una ricerca emozionante!

 

Bruno Bertucci

 

 

La ricerca musicale. Renato Donà

Il M° Renato Donà, incontrato recentemente, mi ha raccontato la sua storia artistica dagli inizi fino ad oggi; da quando, bambino indeciso, non sapeva quale strumento avrebbe scelto, fino alla folgorazione dell’incontro con un grande pianista: il M° Aldo Ciccolini, assieme al quale ha costituito un duo stabile con un vasto repertorio da proporre.

Come ha iniziato a suonare e per quale motivo?

A circa sette anni ho iniziato a prendere lezioni di pianoforte a casa perché mio fratello più grande già lo suonava; così, per scherzo, ho iniziato anch’io. Ma come mi sia venuta in seguito la passione per il violino è ancora un mistero. Ho sostenuto l’esame attitudinale presso il Conservatorio di Padova ed ho iniziato i miei studi con il M° Marco Fornaciari diplomandomi a diciotto anni. Nei primi anni volevo proseguire entrambi gli strumenti, ma, dopo la licenza di Pianoforte Complementare, ho proseguito ancora per un anno lo studio di questo strumento, ed alla fine ho scelto il violino.

Preferisce suonare in orchestra, in duo o da solista?

Gli impegni sono naturalmente diversi. Ho partecipato molto in orchestre da camera, mentre ho suonato saltuariamente in orchestre sinfoniche. Per quanto riguarda la musica da camera mi piace lavorare con gli archi e il duo con il pianoforte mi ha sempre affascinato molto; per qualche anno ho fatto parte di un trio d’archi.

C’è una musica che preferisce ascoltare?

Vado a periodi, ma i miei autori preferiti sono Bach, Mozart, Beethoven e Brahms. Mi piace molto anche la lirica, in particolare Puccini.

Cosa pensa attualmente delle scuole violinistiche italiane?

E’ un discorso interessante. Oggi i giovani hanno molte possibilità di viaggiare e quindi di perfezionarsi; pertanto, c’è una fusione delle scuole anche dal punto di vista tecnico. E moltissimi giovani suonano ad un livello meraviglioso dal punto di vista strumentale! Ma quando acquisto un compact sono attratto dai vecchi grandi nomi: Schering, il mio idolo… fra l’altro era un violinista che suonava in duo con Ciccolini! Poi Grumiaux, Stern, Oistrakh, Heifetz, e non dimenticherei Fritz Kreisler.

Cosa consiglierebbe ai giovani che vorrebbero diventare l’Oistrakh di oggi? E che qualità dovrebbero possedere?

Credo che questi grandi violinisti erano figli di una società diversa; la mia generazione è purtroppo schiava di altri parametri, altri sistemi. Oggi si cerca veramente di eseguire molti concerti con poco tempo per le prove; si deve presentare sul palcoscenico un prodotto ben confezionato, mentre, ascoltando le esecuzioni dei grandi citati in precedenza, ci si accorge che queste erano fatte con una maggior ricerca del dettaglio e dell’approfondimento musicale. Bisognerebbe curare maggiormente il proprio suono, il fraseggio, in modo da riuscire a raggiungere un approccio diverso alla musica.

Ultimamente mi sembra che la sua attività si stia sviluppando in senso positivo con un grande pianista. Può parlarcene?

La collaborazione con il M° Aldo Ciccolini è nata per caso, perché dopo i miei studi di Conservatorio a Ginevra con Corrado Romano, cui devo moltissimo per la mia impostazione violinistica, ho proseguito gli studi di virtuosité. Successivamente ho studiato a Cremona con il M° Accardo presso l’Accademia Stauffer, e per pura coincidenza con Andrea Dindo, conosciuto al Conservatorio di Vibo Valentia, avevo iniziato una collaborazione in duo. Avevamo studiato, fra l’altro, la prima sonata di Franck, che mi ha portato fortuna perché venne ascoltata per caso proprio dal Maestro.

Cosa vuol dire per Lei eseguire assieme ad Aldo Ciccolini i brani che fanno parte del cd uscito ultimamente? E qual è il più difficile dal punto di vista interpretativo?

Questo cd contiene le sonate di Franck, Debussy e Ravel, opere tra le più importanti del repertorio francese; quattro colossi. Siccome la sonata di Franck è stata l’impatto con questo grande pianista, forse ne ho un ricordo di maggior impegno, in quanto è l’opera che si deve musicalmente scavare di più per comprenderla meglio, che richiede, fra l’altro, molta attenzione nella lettura del testo e nel fraseggio, aspetti cui il M° Ciccolini tiene particolarmente.

Sempre da questo punto di vista, c’è un componimento che Le ha dato maggiori soddisfazioni?

Penso siano quattro atmosfere completamente differenti. Complessivamente, la sonata che apprezzo maggiormente è quella di Debussy, dove forse mi sono sentito più a mio agio; inoltre perché Debussy con la firma di Aldo Ciccolini credo sia una garanzia in ogni caso. E vorrei sottolineare come tutta la ricerca sia stata interessantissima; ho dovuto fare proprio un lavoro di cesellatura.

E quali saranno gli sviluppi di questa importante collaborazione?

Parliamo proprio di collaborazione, perché questo disco ha avuto un notevole successo da parte della critica: sono rimasto molto soddisfatto perché hanno trovato in me qualità interessanti nel vibrato, nel lirismo, che ricordano grandi violinisti del passato. Ho letto con grande piacere queste recensioni. Vorrei sottolineare come sia stato proprio il Maestro a chiedermi di incidere questo disco a dimostrazione della sua stima verso di me; ormai sono circa tre anni che suoniamo assieme. Il disco è nato molto lentamente dopo vari incontri di studio e proseguiremo anche in futuro questa collaborazione.

Come pensate di allargare il vostro repertorio?

Stiamo lavorando su un repertorio di aria tedesca; abbiamo preso in considerazione la “Sonata” di Grieg, la “Primavera” di Beethoven, e la “prima sonata” di Brahms, che sicuramente porteremo in concerto.

Bruno Bertucci

Intervista a Tamás Vásáry

Tamás Vásáry, artista completo e grande direttore incontrato a Budapest, racconta con semplicità, in un italiano quasi perfetto, le esperienze che l’hanno condotto dal pianoforte ad un successo significativo in molti paesi fra cui l’Italia, dove è stimato sia come pianista che come direttore.

Lei si sente più solista o direttore? E la musica ha sempre fatto parte della sua vita?

A cinque anni ho ascoltato alla radio il famoso minuetto di Boccherini. Avevamo un pianoforte, ho provato a suonarlo, dopo averlo ascoltato due o tre volte alla radio, davanti alla professoressa di mia sorella. La professoressa mi domandò: “Sai leggere la musica?”. Ho risposto di no. Così lei iniziò a darmi lezioni.

A otto anni ho tenuto il mio primo concerto in conservatorio in cui, fra l’altro, veniva eseguita anche la serenata KV 525 Eine Kleine Nachtmusik. Così ho incontrato l’orchestra ed ho deciso di diventare anche un direttore. Ma in Ungheria fare il direttore d’orchestra era molto difficile perché esistevano soltanto due orchestre.

Ma cosa è accaduto nella sua vita poco prima della rivolta ungherese che le ha consentito di proseguire nella sua attività?

Studiavo pianoforte e quando ci fu la rivoluzione in Ungheria mio padre era un politico avverso ai comunisti. Venne messo in prigione dopo la rivoluzione. In quel periodo vinsi il concorso internazionale Regina Elisabetta e in seguito fui invitato per un concerto con la Wiener Symphoniker Orchestra e così lasciai il mio Paese grazie a un passaporto ufficiale perché invitato in Belgio. Proprio la Regina fece in modo che mio padre e mia madre venissero liberati, così i miei cari lasciarono l’Ungheria in due giorni.

Quindi l’arte musicale in quel momento ha acquistato anche un potere politico?

Assolutamente sì! Quel periodo fu molto duro e difficile, dal momento che, al di fuori del mio Paese, ero conosciuto solo in Belgio. Io e la mia famiglia vivevamo in esilio. Un giorno la Deutsche Gramomphon mi offrì un’incisione che ebbe un grandissimo successo specialmente in Inghilterra. In seguito ho continuato a incidere per la stessa casa e nel 1960-61 ho debuttato a Londra al Royal Festival Hall con la Royal Philarmonic Orchestra interpretando il primo concerto di Chaicovski e quello di Listz.

Che differenza ha notato fra le orchestre ungheresi e quelle del resto d’Europa?

La differenza riguardava soprattutto la qualità degli strumenti. Mentre gli archi erano migliori in Ungheria, i fiati lo erano in Inghilterra e in America.

Quali sono stati i più grandi direttori con cui ha svolto il suo percorso pianistico?

Ferenc Fricsay, Ernest Ansermet, Georg Solti, Antal Dorati, Claudio Abado, André Cluytens, Rudolf Kempff, grandissimo direttore. Dal 1961 in poi ho iniziato a dare circa 100-120 concerti l’anno. Ma volevo dirigere. E nel 1969 ho diretto per la prima volta la Lizt Ferenc Orchestra di Budapest al Festival di Mantova. Successivamente ho iniziato a dirigere tutte le più grandi orchestre del mondo. Ne ho dirette circa 120.

A proposito, qual è stata l’orchestra che maggiormente l’ha impressionata?

Difficile dirlo, ma ho trovato una bella orchestra a Torino. Un giorno sono arrivato per provare con il quintetto d’archi per una prova d’assieme. Il primo violoncello e il primo contrabbasso hanno suonato con me le parti orchestrali e guardando le partiture conoscevamo bene la musica prima della prima prova. Tutte le prove sono andate bene, per me è stata un’idea fantastica!

Quando riesce a comprendere fino in fondo la partitura?

Quando preparo una partitura preferisco fare passeggiate in un bosco e camminando riesco a capire l’analisi formale e armonica. Cosa che raccomanderei a tutti i direttori. Se ho interiorizzato la partitura posso controllare meglio tutti i musicisti. Ci sono due tipi di direttori: uno che ha la testa nella partitura e l’altro che ha la partitura nella testa.

Ha un aneddoto simpatico accaduto con gli orchestrali?

Una volta dovevo dirigere la Filarmonica di Berlino, quando Karajan per un incidente non aveva potuto continuare la sua incisione con questa orchestra, perché ammalato e mi ha chiesto di preparare l’incisione di due concerti mozartiani da un giorno all’altro. Ero sicuro della parte orchestrale. La casa discografica Deutsche Grammophon mi ha chiesto di preparare l’Incoronazione di Mozart che avevo eseguito solo una volta e quindi non ero tanto sicuro della parte del pianoforte. Così abbiamo inciso questo concerto a Berlino, l’orchestra era molto simpatica, gentile, entusiasta.

Il giorno successivo abbiamo iniziato ad incidere la stessa opera e intanto mi chiedevo: “Come suonerò il pianoforte?”. Nel corso dell’incisione l’orchestra si comportava in modo, mi prendevano in giro per come parlavo, facevano della satira ed ho capito che non c’era l’intesa come il giorno precedente. Ho così domandato a mia moglie: “Forse c’è un intrigo contro di me”. E mia moglie mi ha detto: “Chi è differente sei tu”. Io ho risposto che l’unica cosa differente era che avevo paura del pianoforte. E mia moglie mi ha detto: “Non pensare più a questo: è più importante avere un buon contatto con l’orchestra, dimenticati dei problemi con il pianoforte, prova a suonare tranquillamente”. Così ho continuato senza concentrarmi e senza avere paura del pianoforte; era importante che l’orchestra fosse contenta della mia direzione. Entrati in scena ho potuto verificare la sensibilità di un’orchestra come i Berliner. Difatti l’orchestra percepisce anche il solo pensiero del direttore ed agisce di conseguenza. Questo è stato un grande insegnamento per me nella mia vita.

Com’è la vita musicale in Ungheria oggi?

Come sempre molto intensa. A Budapest, che è una piccola capitale, non paragonabile ad altre grandi come Londra, Roma o New York, ci sono cinque grandi orchestre sinfoniche, quella della Radio, da me diretta, dello Stato (oggi Filarmonica Nazionale), del Festival, dell’Opera e infine quella di Matav, sponsorizzata dalla compagnia telefonica.

Purtroppo lo Stato aiuta molto meno la nostra orchestra rispetto all’orchestra nazionale, perché il Ministero della Cultura ha un budget per sostenere tutte le istituzioni che portano il nome “nazionale”. Questi musicisti vengono retribuiti con un salario quattro volte superiore al nostro ed ho deciso che l’anno prossimo offrirò una donazione per il mio ensemble.

So che spesso viene in Italia: come sono state le sue esperienze?

Ho avuto molti contatti con l’orchestra da camera di Santa Cecilia ed anche con quella della Radio di Torino. Per la RAI ho inciso in video con Uto Ughi tutte le sonate di Beethoven per violino e pianoforte ed è stata una cosa molto bella.

 

Bruno Bertucci

 

 

Hypnophonia. Il nuovo album dei Marchesi Scamorza

Nel 2012 La sposa del tempo, oggi arriva il secondo album Hypnophonia. Tra i due album, la partecipazione al disco collettivo Decameron, che vi vede in compagnia di Karda Estra, Latte e Miele, Unitopia e molti altri. Quanto è stato importante questo appuntamento di passaggio per il nuovo disco?

Partecipare al disco Decameron con il singolo Teodoro l’armeno, è stata un’esperienza utile sia per spezzare il ritmo tra l’uscita del primo album e la composizione del secondo, sia per misurarsi per la prima volta con la scrittura di un brano a tema. Per creare una canzone da una novella di un autore importante come Boccaccio abbiamo usato un approccio diverso rispetto a quello che utilizziamo solitamente per comporre, e il risultato ci ha lasciati soddisfatti; inoltre comparire su un disco insieme a grandi nomi del prog come quelli che hai citato è motivo di grande orgoglio. Recentemente abbiamo registrato un brano per la terza parte della medesima raccolta, che uscirà prossimamente.

Che differenze ci sono tra Hypnophonia e La sposa del tempo?

La sposa del tempo è stato il disco d’esordio, e come tale contiene pregi e difetti. In Hypnophonia è più evidente il cammino stilistico che abbiamo intrapreso, e abbiamo pensato attentamente ad ogni suo aspetto, dalla composizione all’arrangiamento, dalla scaletta al booklet. Hypnophonia è un disco nettamente più maturo, (formato da cinque brani, due suite e altri tre pezzi più brevi) e secondo noi è molto equilibrato e coinvolgente. Hypnophonia significa un’unione tra la psiche e il suono, è un titolo molto d’impatto e secondo noi perfetto per la musica contenuta nel disco.

Con La sposa del tempo, il video di Autunno, la scoperta di un nuovo pubblico e le reazioni della stampa, avete avuto modo di testare gli umori del panorama prog-rock. Con quale stato d’animo vi siete avvicinati al lavoro di composizione del nuovo album?

Le reazioni del pubblico e della stampa che abbiamo avuto riguardo a La sposa del tempo, sono state incoraggianti e stimolanti per migliorarci e fare un secondo album più bello ed interessante. Abbiamo composto il nuovo materiale con entusiasmo e il risultato finale ne è la dimostrazione. Il prog italiano è particolarmente evocativo, colto, popolare, romantico e raffinato. Questi elementi insieme contribuiscono al fascino che genera negli ascoltatori.

Una caratteristica importante di questo nuovo disco è la registrazione in contesto analogico, ai Prosdocimi Studio. Voi siete giovanissimi e avete potuto sperimentare il fascino (ma anche le insidie…) dell’incisione “vecchio stile”: quali sono i pregi e i difetti del lavoro su nastro magnetico?

Registrare al Prosdocimi Studio con Mike 3rd è stato bellissimo e davvero interessante. Per incidere su nastro ci vuole molta concentrazione ma ci abbiamo messo poco ad ambientarci. Registrare in analogico è estremamente affascinante, e il disco ne ha giovato con una definizione sonora di alto livello. La produzione di Mike 3rd è stata perfetta per trasportare su nastro la nostra musica, e siamo tornati da lui per registrare il brano per la terza parte della raccolta sul Decameron.

La nascita dei Marchesi risale a sei anni fa, quando decideste di creare il gruppo: le differenti estrazioni musicali di ognuno di voi sono ancora presenti o la vita di gruppo ha reso omogenei gusti e orientamenti?

Ognuno di noi ha sempre le proprie preferenze musicali, che arricchiscono e contaminano positivamente la nostra musica. Suonare insieme da anni ci ha messo in grande sintonia e l’orientamento che abbiamo mentre creiamo la nostra musica è davvero molto spontaneo e naturale. 

Ed ecco la biografia dei Marchesi Scamorza.

Nel maggio 2009, nella campagna ferrarese, Lorenzo Romani (chitarra elettrica), Alessandro Padovani (batteria), Paolo Brini (basso), Chiara Scaglianti (tastiere), Enrico Bernardini (voce e chitarra acustica), tutti provenienti da esperienze musicali completamente diverse, decidono di intraprendere un progetto unico nell’ambiente musicale locale. Nascono i Marchesi Scamorza.

Dopo un’estate passata tra cover e grandi classici, decidono di ricercare una propria identità musicale con la stesura del loro primo brano originale L’Uomo Dall’Ombra Lunga. All’inizio dell’estate 2010 la tastierista Chiara lascia la band, facendo subentrare, a stagione concertistica iniziata, Enrico Cazzola, che fa immediatamente ingranare la quarta alla band; a settembre si contano tre brani originali, di un livello decisamente alto.

Nel febbraio 2012 iniziano le registrazioni di quello che sarà un altro inizio: l’album La Sposa Del Tempo. Il lavoro è lungo, la musica evolve in modo repentino, come è tipico del genere, facendo impazzire tutti quelli che aiutano i Marchesi in questo pazzo quanto soddisfacente progetto. I brani sono 8, più un Intro ideato per contestualizzare l’album. L’estate continua a essere amica dei Marchesi, che trionfano nel concorso San Patrizio Rock, portando a casa il primo premio e il trofeo per l’originalità dei brani. Nel contesto ferrarese emergono discretamente, affermandosi a pieni voti tra le preferenze locali. Dopo la pubblicazione del disco arrivano recensioni e commenti positivi dall’Italia e dall’estero. Nell’ottobre 2012 in seguito alla pubblicazione fisica e web dell’album, iniziano le riprese del primo videoclip della band pensato per il brano finale Autunno. I Marchesi iniziano un’avventura europea nel 2013 grazie a Colossus Project e Marco Bernard, che contattano i ragazzi per la realizzazione di un brano per il progetto collettivo Decameron di Boccaccio. Il vero salto di qualità arriva a novembre 2014 con le registrazioni del secondo disco presso il Prosdocimi Studio di Mike3rd. Le sonorità sono più mature e il livello compositivo è decisamente più alto. Dopo l’uscita della raccolta Colossus Project, vengono ricontattati nel 2015 per la chiusura del ciclo del Decameron e realizzano un ultimo singolo per il progetto, che segna un perfetto connubio tra musica e letteratura. Per questo ritornano all’immancabile Prosdocimi Studio.

Enrico Bernardini (voice)

Lorenzo Romani (guitar, choirs, mandolin, keyboards)

Enrico Cazzola (keyboards)

Paolo Brini (bass)

Alessandro Padovani (drums)

D. Z.

Pura per Dio e il prossimo

Ci sono delle storie che meritano di essere raccontate perché assomigliano a delle fiabe, racchiudendo in sé tutti quegli ingredienti che piacciono alla nostra parte più profonda: quella che è inconscio puro che si nutre di piccole semplici cose, senza appesantire la vita di altro che delle lievità dei nostri corpi sottili più elevati. Così capita di scrivere di un aspetto che molti chiamano fede, miracolo, eccezionalità, mentre dovrebbe essere la normalità di tutti gli essere umani. Questa storia è la normalità del tutto che siamo. Abbiamo imparato di avere bisogno di esempi per spiegarci e anche per capire meglio la complessità della vita, come per esempi si sono espressi i grandi e si è espresso Dio quando voleva svelare ad ogni essere umano un pezzetto della sua immensità. Allora non dobbiamo stupirci se poi, sullo scenario universale dell’esistenza, compare un esempio che indichi non tanto la strada, quanto che ciascuno di noi ha quella complessità che si perde o che ci si dimentica negli anfratti oscuri dei giorni. Intorno ai 1200 metri di altezza sul livello del mare, un paesino del Veneto povero come solo i territori italiani di un tempo potevano essere, forgiava tempre e saggiava la fede. Perché è molto facile pensare di raggiungere la complessità del nostro animo, quella vicina al Cristo che in piccola parte è in noi, viaggiando in pullman gran turismo verso santuari prossimi ad hotel e ristoranti; meno semplice è esserci già, in un luogo di fede anonimo come tanti, avere la chiesa a pochi metri innevati da casa e fredda, come solo può essere il freddo quando mangi poco e ti scaldi meno. Un paesino che ha forgiato una storia come tante, di tanti figli e molto lavoro, appena il necessario per mangiare, raccolto intorno alla chiesetta che si affaccia su un panorama bellissimo. Una sola navata, la chiesina si rivolge ai gruppetti di case che sono sparse qua e là, a punteggiare la vallata come i bei fiori che aprono le loro corolle in primavera, tempo di fieno e foraggio. Poco distante il cimitero, in modo che i propri defunti che sono già arrivati in quel cielo così vicino, siano sempre a casa, vicini e protettivi per i propri cari ancora sulla terra. I sacramenti dispensati dal parroco erano fondamentali per suffragare il tempo ricco di stenti e così la fede si forgiava nel modo più puro: guardare alle cose con la semplicità di chi non vuole altro che giungere ad essere ciò che Dio vuole che sia. E così anche in casa di una piccola Carmela Cesira accadeva. La recita del rosario, i buoni insegnamenti quotidiani, avevano portato una semplice bambina ad attardarsi sempre un po’, e un po’ troppo per il gusto dei familiari, in camera sua. Forse per le preghiere, forse per qualche gioco troppo difficile da lasciare anche per raggiungere la famiglia a tavola. Carmela era magra e sempre con la testa tra le nuvole. A soli dieci anni, infatti, aveva un amico che i fratelli credevano immaginario. Lei affermava convinta che stava con lui a giocare in camera sua, ma soltanto messa alle strette disse che quel bambino era Gesù. Certo, un innocente gioco di bimba, ma che poi si rivelò affatto un gioco e una verità che verrà condivisa con le persone che Carmela incontrava. Come? Non tardò a sentire la chiamata e a decidere di diventare suora. Suo padre, Benedetto, era contadino ed era riuscito a garantire alla famiglia una vita decorosa, senza troppe privazioni, malgrado i tempi difficili e le tante bocche da sfamare. Pensava già per la figlia, la quinta di nove, la possibilità di studiare e di conseguire un diploma, quindi la sua mentalità di montanaro era aperta per i tempi. I figli erano nati tra il 1905 e il 1925 e la piccola Carmela era del 1914, l’anno di inizio della guerra mondiale. Pertanto non fu affatto felice, malgrado la sua profonda fede, quando la figlia gli disse che voleva diventare santa e che per farlo sarebbe entrata in convento. Già una zia, sorella di mamma Oliva, era suora presso il convento fondato da monsignor Giuseppe Nascimbeni, le Piccole Suore della Sacra Famiglia, e uno zio della mamma era frate minore. Benedetto aveva conosciuto il fondatore delle Piccole Suore che gli aveva detto, a proposito della cognata, che non sarebbe stata l’unica della famiglia Pagani ad entrare a far parte della sua congregazione. Carmela volle seguire l’esempio della zia, infatti, soprattutto dopo avere conosciuto la cofondatrice delle Piccole Suore, suor Maria Mantovani, che la salutò dicendo “Questa sarà la tua casa”. Carmela Cesira un anno dopo, il 28 giugno 1932, entrò in convento. Pronuncerà i voti il 19 marzo 1935 e poi il 12 gennaio 1941. Il suo nuovo nome fu significativo: Suor Pura.

Parlare di suor Pura non è difficile, perché in molte zone nessuno la conosce o non ne ha mai sentito parlare. Se si sale al paesino verso i 1.200 metri, Campofontana di Selva di Progno, oppure se si viaggia in alcuni paesi della provincia di Verona, si scopre di avere a che fare con un esempio altissimo di semplicità religiosa. In un periodo che sembra non dare troppo peso alle terribili notizie di negazione della religiosità cristiana in molte parti del mondo, l’esempio di una semplice donna, portatrice di un velo scelto come simbolo della dedizione della propria vita, ma soprattutto capace di tramutare i simboli in significati profondi, è fondamentale. Suor Pura diventò come il suo nome, mantenendo inalterato un sorriso aperto, che dalla sua anima giungeva direttamente a chi le stava dinanzi al punto che, molto meno nota del più noto padre pugliese, presso di lei come a San Giovanni Rotondo giungevano centinaia di persone per vederla, parlarle, averne un consiglio, un insegnamento, una parola buona. Suor Pura non voleva se ne parlasse troppo, almeno finché fosse stata in vita, ma la sua casa era come la cella di San Pio. Le testimonianze sono tantissime a raccontare di come la donna fosse davvero un’immagine di Cristo tra la gente. Tanto che sono in corso le pratiche per innalzarla all’onore degli altari e di lei e del suo prezioso dono possano averne parte quante più persone possibile.

Grazie, richieste di preghiere, miracoli sembra fossero già successi mentre suor Pura Pagani era ancora in vita. Oggi pregarla di intercedere per le proprie intenzioni porta a sicuro soddisfacimento della preghiera sincera. Ne è testimonianza quanto accade al suo stesso istituto adesso, 2014. Il semplice bisogno di avere un numero adeguato di persone a cui rivolgere le proprie attenzioni, porta a chiedere a suor Pura, a “chiamarla” come lei diceva di fare, e lei subito pronta accorre, esaudendo la preghiera. E la casa accoglienza si riempie di persone. L’incontro più illuminante lo ebbi alcuni anni fa con la sorella più giovane della suora, Chiarina, classe 1925. Chiarina era una donna alta, buona, semplice. Non smetteva mai di parlare di sua sorella, che aveva conosciuto per poco in casa, ma che aveva imparato a conoscere attraverso la gente che le parlava di lei, dei suoi doni che elargiva abbondantemente. La donna raccontava di sua sorella “santa” in modo diretto e semplice, senza volersene fare un vanto, ma semplicemente per dedizione non alla parte della famiglia che suor Pura rappresentava, quanto alla parte di lei che era diventata appannaggio degli altri.

“Arrivano la mattina presto tante persone, su a Campofontana. Vogliono andare in cimitero, dove mia sorella è stata portata [infatti, le suore hanno il proprio cimitero a Castelletto di Brenzone, ma possono essere seppellite presso la famiglia su richiesta di quest’ultima]. Ci vanno a volte all’alba, prima di andare in chiesa o appena dopo. A volte le trovo lì, quando vado alla tomba, e se ne vanno senza dire niente. Mi guardano da lontano. Qualcuno mi chiede di dire qualcosa di mia sorella, ma io di per me so poco, racconto quanto mi raccontano tante persone. A volte mi dicono di essere arrivate fin qui perché hanno ricevuto una grazia. Ma quello che mi dispiace di più è quando piove o fa freddo: vengono lo stesso, anche in mezzo alla neve. E poi trovo le cose. Io non sono tutto il giorno in cimitero, così quando ci vado trovo messi lì vicino alla tomba, un sacco di oggetti. Fiori, corone del rosario, orsacchiotti, di tutto! A me dispiace, perché è tanta roba che portano a mia sorella e rimane lì che si bagna ed è un peccato. Mi faccio riguardo per la gente che viene fin qui”, negli occhi sempre un filo di malinconia, quasi di pianto. Era come se la donna si immedesimasse nei problemi delle persone comuni, quelle che magari di sua sorella avevano visto soltanto un santino, o forse ne avevano solo sentito parlare.

“Così ho fatto preparare una specie di teca dove mettere dentro tutto. Perché io la roba la porto anche a casa, e la tengo lì, apposta, per chi ha voluto rendere omaggio e ringraziare mia sorella, ma non è bello che poi non si trovino più le loro cose, oppure che non stiano vicino a suor Pura. Allora ho pensato di far fare qualcosa dove mettere tutto dentro, perché non si bagni. È bello che tutto resti lì in cimitero…”, ma lo diceva e ripeteva come se fosse contenta che sua sorella, lì in cimitero, non fosse da sola.

“Forse vengono anche per ché è un bel posto, ma d’inverno… penso che vengono apposta per lei”. E la semplicità era quella di chi non capiva fino in fondo come fosse davvero successo di essere la sorella di una santa. Carmela ci era riuscita davvero, come aveva sempre desiderato!

Infatti la sua vita è quella di coloro che sono eletti per eccellenza. Ma come può essere successo? Certo, non tutti i bambini giocano con Gesù, ma suor Pura continuò a giocare con i bambini per tutta la vita. Insegnava alla scuola materna e l’incarico la portò a Folgaria, Cavazzale, Verona Porta Nuova, Ferrara, Stienta e Porto Sant’Elpidio, Monte Romano. Era una maestra premurosa e gentile, che si dedicava con impegno e solerzia anche all’insegnamento del catechismo in parrocchia. Tuttavia, è risaputo che la vita delle persone sante non può essere senza spine, senza difficoltà, e infatti a suor Pura capitò addirittura che la volessero cacciare dal convento, esortandola a rinunciare ai voti. Il caso coinvolgeva un sacerdote, parroco del paese dove suor Pura prestava servizio da anni già in qualità di superiora, che venne trasferito in altra sede; l’uomo fece intendere attraverso terzi che il suo trasferimento era dovuto alla presenza della suora e che anch’ella sarebbe dovuta, finalmente, partire. In realtà erano scaduti i tre mandati previsti come massimo di permanenza in una casa, e la suora sarebbe stata trasferita comunque, ma le maldicenze erano circolate in fretta, costringendo il vescovo a chiedere il prolungamento dell’incarico della suora, non soltanto perché preziosa per le sue qualità, ma per evitare che si alimentassero le malelingue. Fu autorizzato un quarto mandato, ma la casa madre chiedeva alla religiosa che si attenesse a partire quando fosse giunto il momento. Suor Pura si rifiutò, essendo ancora in circolazione le calunnie sul suo conto e non volendo dare adito di cattivo comportamento quando non ce n’era ragione. La mancata obbedienza comportò una sospensione e la sorella si sentì tradita. Venne ricoverata presso le Terziarie Francescane di Verona perché non mangiava più, non dormiva più. Il suo senso di giustizia era stato violato, e assomiglia molto alla scelta di questi giorni da parte di una donna condannata a morte, di non cedere alle adulazioni di professarsi colpevole di qualcosa che non aveva commesso in cambio di aver salva la vita, per non essere disonorata agli occhi della sua stessa anima per tutta la vita. Presso la casa di preghiera veronese, la giovane suora si trovò a sbagliare il piano della stanza e, credendo di entrare nella propria, era entrata nella camera di un frate. All’uomo la suora raccontò la sua triste vicenda e il buon frate le consigliò di recarsi subito in Vaticano per spiegare la sua posizione. Lui stesso si sarebbe occupato di spiegare al vescovo il motivo di quella partenza improvvisa, tramite un biglietto scritto di pugno da suor Pura. Ella, in Vaticano, incontrò papa Pio XII che, sentita la storia, chiese alla suora di restare in Vaticano per occuparsi di un vecchio sacerdote malato. Era il monsignore Fortunato Raspanti, che in breve chiamava suor Pura “La mia nuova mamma”, tanto era l’amore e la dedizione con cui veniva curato. Suor Pura, grazie al voto di povertà espresso, non aveva nemmeno un secondo abito per potersi cambiare, così il monsignore le regalò una sua veste dalla quale la religiosa ricavò un abito adatto a lei. Suor Pura era solita leggere libri di morale, che poi discuteva con i preti che incontrava sulla sua strada. Iniziò anche l’abitudine di attardarsi sotto il colonnato di Piazza San Pietro dove trascorreva molto tempo ascoltando poveri e pellegrini, dando loro sempre la giusta parola di conforto. Da Roma ebbe l’occasione, poi, di recarsi in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo e poté seguire la santa messa celebrata da padre Pio, del quale divenne figlia spirituale. Ebbe modo di recarsi altre numerose volte dal padre con il quale restava in preghiera. Così la sua anima venne perfezionata dall’incontro con colui che Giovanni Paolo II volle santo. Il legame tra padre Pio e suor Pura divenne molto forte e si consolidò nel tempo, anche se lui stesso le consigliò di scegliere come padre spirituale padre Cappello, a Roma. Noto per il dono dell’ubiquità, padre Pio divenne protagonista di un episodio particolare della vita della suorina. Infatti, suor Pura doveva recarsi in Svizzera in treno, viaggiando di notte da sola. Lo scompartimento del treno era vuoto oltre a lei, fino al momento in cui non arrivò a sederlesi accanto un uomo dall’aspetto minaccioso. La suora, impaurita, pregò padre Pio di aiutarla. Il padre era ancora vivo. Poco dopo arrivò nello scompartimento un controllore, chiese il biglietto al tizio e lo invitò a scendere dal treno perché non in regola. Il viaggio fu poi regolare e la suora arrivò a destinazione tranquillamente. Ovviamente si dimenticò dell’accaduto fino al giorno in cui, tornata a Prietrelcina, padre Pio sorridendo la ammonì di non fargli fare più il controllore del treno! Negli anni suor Pura affermò di essere sempre in contatto spirituale con padre Pio, tanto che, ad esempio, teneva un suo ritratto nella stanza dei colloqui dove incontrava le persone in provincia di Verona. Un giorno, una donna a lei devota era nella stanza per parlare con suor Pura che la esortava a prendere una coroncina del rosario e, mentre suor Pura le parlava, la donna vide il ritratto di padre Pio muoversi. Voltata la testa verso di lei, il padre del ritratto, sorridendo, la esortava a fare come la suora le stava suggerendo.

Piccoli atti, piccoli gesti che sembrano inverosimili o addirittura dettati da paranoie pericolose. Eppure pensiamo a quante volte vorremmo che qualcuno ci dicesse se ciò che stiamo facendo, la decisione che stiamo prendendo è quella giusta o quella sbagliata. Pura e Pio sono stati dei tramiti di infinita importanza nella vita di molte persone, a immagine di quel Gesù di Nazareth che trascorreva il tempo a guarire chi aveva fede dalle piccole cose di tutti i giorni, senza occuparsi di costruire imperi nel deserto.

Suor Pura, sempre a Roma ad accudire l’anziano monsignore, patì lo sconforto di vederlo morire. Sola, lontana dal suo convento, timorosa di doversi trovare ancora in mezzo alle incomprensioni che l’avevano fatta andare a Roma evidentemente per il segreto disegno di farla arrivare in Puglia da padre Pio, si trovava per strada assorta nei suoi tristi pensieri, quando vide camminare davanti a sé una suora. Non sapeva chi fosse, non l’aveva vista in volto, ma prese a seguirla mentre quella camminava sicura per le strade della capitale. Entrò infine nella chiesa di Sant’Ignazio e indicò a suor Pura un confessionale. Nel farlo si voltò a guardarla sorridendo. Era madre Maria Mantovani, la cofondatrice delle Piccole Suore, ora beata. In quel momento sparì. Suor Pura iniziò la confessione senza sapere che aveva trovato padre Felice Cappello, già indicatole tempo prima da padre Pio. Il padre la seguì spiritualmente fino al suo ritorno alla casa madre, consigliandole di mantenersi ferma nella fede e rafforzarla. Prima della partenza le consigliò di chiedere una grazia al Signore e suor Pura chiese di non provare rancore nei confronti di coloro che l’avevano indotta ad allontanarsi dal suo convento per dissipare il momento di calunnie nei suoi confronti. Venne esaudita. Tornata alla casa madre di Castelletto di Brenzone nel 1960 con una festa pacificatrice, riprese ad essere una suora serena capace di superare le difficoltà della vita. Fino al 1970 quando venne inviata a San Zeno di Mozzecane, sempre in provincia di Verona, dove avrebbe dovuto occuparsi di chiudere una scuola materna. Invece di pensare alla chiusura della scuola, suor Pura organizzò un migliore servizio per le famiglie, iniziando ad aprire la scuola dalla mattina presto per andare incontro alle esigenze dei genitori lavoratori, migliorò la mensa e le attività al punto che la scuola non chiuse. Riprese anche a San Zeno l’ascolto delle persone come aveva fatto a Roma, convinta sempre più che quella fosse la sua vocazione. Fu proprio a San Zeno che divenne la suora dell’accoglienza e del sorriso, come viene ricordata. Le ore dedicate agli altri, a cercare di capire e non soltanto ascoltare le sofferenze furono importantissime per lei e per coloro che ebbero la fortuna di incontrarla. Per quello il motto è “Chiamatemi e verrò”, anche ora che non manca di ascoltare e capire chi le parla con cuore sincero. La sua empatia era tale che le persone si sentivano a loro agio e venivano rassicurate da un fatto semplicissimo: suor Pura avrebbe pregato per loro. Questa era la sua formula. Nessuna promessa, nessuna esortazione se non la preghiera. Se proprio non riusciva a trovare una soluzione da sola, allora risolveva il problema con una semplicità estrema: avrebbe pregato con i bambini.

E non solo con loro. La sua preghiera era costante, spesso notturna per avere il giusto momento di comunione con Dio. E la sua preghiera procurava miracoli, sia spirituali che materiali, come un naso che non era più rotto grazie ad una notte di intense orazioni. I miracoli di suor Pura accadevano anche durante la sua esistenza terrena, ancorati alla certezza che nulla avviene per caso. Concetto che ripeteva spesso. E non era stato un caso se da piccola lei giocava con Gesù: lo racconterà adulta, proprio a San Zeno, svelando che non solo aveva conosciuto il piccolo Gesù, ma tutta la Sacra Famiglia che le faceva visita anche nel suo studio di San Zeno dove effettivamente la gente la sentiva parlare con qualcuno anche quando nella stanza con lei non c’era alcun mortale.

Tra le testimonianze sulla sua vita, leggiamo l’opinione comune di come fosse umile: pur essendo stata nominata superiora, spesso le decisioni le prendevano le consorelle e lei non si imponeva. Inoltre, chiedeva sempre la preghiera, per sé e per le intenzioni per cui pregava, non riteneva una via privilegiata quella che aveva con la Sacra Famiglia, ma un modo per comunicare e per esortare gli altri a farlo, con la fede nel cuore. Anche l’esortazione a pregare, infatti, era convinzione, non modo per occuparsi delle anime altrui, come spesso accade a chi si sente investito o investita da una missione così importante. La richiesta di pregare di suor Pura era la certezza che quella fosse l’unica via per risolvere i problemi. L’unica via efficace per rivolgersi al Padre. Non teneva nulla per sé: quello che riceveva donava, serenamente, allegramente. Se riceveva doni di valore li inviava alla Casa Madre. Rispettava l’imperativo del Decalogo di amare il prossimo e questo atto d’amore si concretizzava nel farsi carico di insegnare a prepararsi ai tempi nuovi. Dio le comunicava come i tempi futuri sarebbero stati difficili e suor Pura esortava non tanto a spaventarsi, pentirsi, ma a cambiare preparandosi al cambiamento. Le persone sagge sanno, infatti, che non porta buoni frutti cambiare tutto d’un tratto, tuttavia l’esortazione evangelica di vegliare veniva ricordata dalla suora affinché si fosse pronti a cogliere le opportunità offerte dalla modifica delle situazioni esterne. Pregare con suor Pura o suor Pura, significa ottenere grazie potenti, perché lei ha ottemperato alla volontà divina di seguire la strada che era stata segnata per lei. Come accade alle persone tramite del Bene, il Male la attanagliava e la minacciava: le diceva che l’avrebbe fatta impazzire, oppure andavano da lei persone alle quali era stata praticata qualche forma di maledizione. E suor Pura consigliava di pregare e pregava per loro, oppure metteva in guardia contro certi tipi. Poteva accadere che alcune persone, cercando di raggiungerla per un colloquio, avessero incidenti o rotture all’automobile. Da posizioni di assoluta ragione finivano per passare dalla parte del torto, insomma, una serie di situazioni negative e spiacevoli si abbattevano su di loro. Alla fine tutto si risolveva in modo semplice e misterioso allo stesso tempo, come se ci fosse stato un intervento divino, chiesto dalla buona suora. Accadevano pertanto anche episodi reali di problemi anche seri, che venivano risolti dalla fede e dall’intervento divino. Come il giorno in cui la stanza della suora era avvolta nel fumo, un mobile era mezzo bruciato, ma la statua della Madonna che vi era appoggiata sopra era rimasta intatta. Il demonio l’aveva più volte minacciata di bruciarle l’immagine sacra, ma suor Pura non gli aveva creduto, non si era impaurita. Infatti, non l’ebbe vinta e ancora una volta la fede nel Bene trionfò. Che aggiungere? Le testimonianze raccolte dalle persone sulla vita di suor Pura, le sue parole, la sua testimonianza terrena, non narrano nulla di straordinario. Raccontano di una semplice donna dall’immensa fede. Certo, avere il quadro di padre Pio che si muove, ospitare la Sacra Famiglia in camera, essere esaudita ad ogni preghiera non sono certo fatti ricorrenti nella vita delle persone, anche se suore. Ma il punto fondante della storia di questa religiosa che è destinata a diventare beata, è proprio nella quotidianità che l’avvicina al Maestro al quale ha dedicato l’esistenza terrena. Ogni suo gesto era animato da fede profonda, non importa se si trattava di comprendere i problemi di qualcuno osservandolo in fotografia portatale dai fedeli, oppure raccogliere i soldi per le mamme che non potevano pagare la retta scolastica per i figli, oppure vivere con il sorriso sempre sul viso. L’importanza data ai singoli giorni e al senso che ciascuno di noi deve dare ad ognuno di essi è l’esempio più grande. I cristiani si riconoscono proprio da questo operare in silenzio, ma assiduamente per le cose più alte, senza creare clamori, ma infondendo pace, amore, consolazione, certezza nel prossimo. Essere punti di riferimento certi, senza tentennamenti e senza cedimenti. Quando la situazione diventa difficile, deve diventare più sicura la preghiera e la richiesta di aiuto. Non dobbiamo, infatti, sentirci così importanti oppure così soli da non essere in grado di chiedere di essere aiutati. E l’incontro con suor Pura, anche attraverso uno scritto, rassicura proprio che lei c’è. C’è sempre. Per sempre. Per tutti.

Alessia Biasiolo

 

La viola, strumento poco conosciuto. Intervista a Danilo Rossi

La viola è uno strumento poco conosciuto al grande pubblico, ma per il quale sono stati scritti brani famosi, nonché colonne sonore.

In questa intervista, ci viene presentata da Danilo Rossi, prima viola del Teatro alla Scala che affronta argomenti di ampio respiro, dando adito ad alcune interessanti riflessioni e di sicuro interesse per il neofita.

Maestro Rossi, com’è nata la passione per il suo strumento?

La passione per la viola è nata ascoltando la stupenda colonna sonora del film “Marco Polo”, composta dal Maestro Ennio Morricone, interpretata da un grande violista che poi è stato anche uno dei miei Maestri, Dino Asciolla.

Può descriverci l’evolversi dei suoi studi?

A sei anni ho iniziato a studiare il violino con un bravo Maestro, nella mia città, Forlì. Questi, non faceva molta attività, ma era stato allievo di Materassi a Bologna, grande didatta e violinista. Quindi l’impronta era già ottima. Successivamente sono stato indirizzato allo studio della viola. In un primo tempo non la presi bene e per tre anni ho studiato entrambi gli strumenti. A quattordici anni ho frequentato la scuola di Fiesole per studiare con Piero Farulli. Il Maestro, però, mi consigliò di studiare la tecnica e mi indirizzò ad un suo allievo, Fabrizio Merlini. Ho ottenuto il diploma a diciannove anni, seguito da ambedue. Fin dai diciassette anni frequentavo anche le lezioni del Maestro Asciolla. Ho seguito anche Bashmet che ha affinato ulteriormente la mia musicalità.

Con i suddetti insegnanti, sono riuscito a completare i miei studi strumentali.

Preferisce suonare in orchestra, in duo o da solista?

A me piace suonare, dove, come, con chi non importa.

C’è un brano che lei interpreta con particolare trasporto?

Ogni brano che affronto ha il mio massimo trasporto. Tra tutti sento particolarmente vicina la Sonata per viola e pianoforte di Šostakovič e il Trio di Brahms con violoncello e pianoforte.

Può parlarci di un autore che sta studiando in modo particolare in questo momento?

Sto lavorando ai due concerti classici per viola e orchestra di Hoffmeister e Stamitz, studiati per una vita. Ora che ho realizzato il cd e dvd di questi brani, e li sto portando in tour con l’Orchestra del Conservatorio di Lugano, li ho approfonditi come mai prima avevo fatto. Sono tutti e due molto importanti per la tecnica e la pulizia che li caratterizzano.

Cosa pensa dei duetti per violino e viola di Mozart?

Sono due capolavori di stile, tecnica e fantasia.

Quali sono i teatri che la soddisfano maggiormente dal punto di vista acustico?

I nostri teatri sono stupendi. Non aiutano, ma hanno un sapore unico. Anche quelli più piccoli. Sottolineerei, tra gli altri, il Teatro Massimo di Palermo, il San Carlo di Napoli e naturalmente il Teatro alla Scala; non dimenticherei anche il Regio di Torino

Crede che Beethoven possa essere un buon tramite per coloro che ancora non sono educati alla musica?

Certamente, ma non è il solo. Verdi, Rossini, Mozart, Mahler, i grandi compositori possono essere tutti importanti per la divulgazione della musica. Basta saperli presentare bene e proporli in modo corretto.

Interpretando quale compositore lei ha ottenuto le maggiori soddisfazioni?

Con tutti. Ovviamente alcuni compositori mi sono più consoni. Forse quelli che citavo prima.

Ricorda un’occasione in cui ha avuto particolare successo?

Ne ricordo diverse, fra le altre ricordo la mia prima esecuzione del Concerto di Bartok alla Scala con la Filarmonica e Riccardo Muti, la sinfonia concertante di Mozart alla Sala Grande del Conservatorio con la Filarmonica di Mosca, Schwanendreher alla Fenice di Venezia, Aroldo in Italia di Berlioz, interpretata al Regio di Torino, diretta da Noseda.

A suo avviso come percepisce il pubblico la musica contemporanea?

Dipende da che musica è. Se bella o brutta, la differenza sta tutta lì.

Dove va, secondo lei, la musica in questo nuovo Millennio?

Va dove la vogliamo mandare. Se vogliamo renderla di tutti, dobbiamo andare verso tutti, parlo degli esecutori, dei compositori, dei direttori artistici, eccetera. Se la vogliamo far morire, invece, la gestiamo come fanno tanti, che propongono scelte assurde in modo da far divenire il proprio essere musicista come una attività di élite.

Può parlarci delle sue prossime produzioni discografiche?

Sto lavorando all’incisione dei duetti per violino e viola di Mozart, alla Passacaglia di Haendel e ai Madrigali di Nartinu: tutto violino e viola con Marco Rizzi. Poter suonare violino e viola è bellissimo, due solisti che si incontrano senza intermediari. Fantastico!

Intervista di Bruno Bertucci

 

 

 

 

 

Istituti Vicenza. Come realizzare i sogni

Sono a colloquio con Idra Panetto, responsabile marketing e comunicazione degli Istituti Vicenza, una scuola privata professionale che prepara persone adulte a diventare professionisti nel mondo del design orafo, di moda, nella grafica. L’ho conosciuta per ragioni professionali, ma questa intervista nasce perché ho individuato in lei un raro entusiasmo nel rendere la propria professionalità gioia di vivere sogni e di imparare a realizzarli. Imparare a volerli realizzare. Per questo vi propongo di leggere uno spaccato, silenzioso e modesto, di quel mondo dell’istruzione (pur se privata) che tanto si pontifica debba premiare il merito e la capacità.

Ciao Idra e grazie per aver voluto rilasciare questa intervista. Come giudichi l’approccio dell’Italia alla moda, oggi che molto è stato delocalizzato all’estero?

Sulla delocalizzazione penso sia doverosa una precisazione: è stata portata all’estero l’esecuzione “materiale” del lavoro, in paesi dove il lavoro costa meno. Ma la creatività, la progettazione dei capi, quindi lo stilismo e il modellismo e alcuni lavori di alto artigianato, sono sempre rimasti qui da noi. In questo l’Italia, anzi, gli Italiani, sono stati come al solito all’altezza della situazione.

Grazie al mio lavoro conosco moltissime persone che, benché avessero perso il lavoro, hanno scelto di non “buttare via” la loro esperienza come cucitrici e confezionatrici, e si sono riqualificate diventando modelliste e stiliste. Hanno scelto di rimboccarsi le maniche e investire in loro stesse. Sono tornate sui banchi di scuola per imparare quel “pezzetto” di professione che mancava loro a trovare di nuovo lavoro e in 1-2 anni di formazione sono passate ai piani alti, dirigendo da qui, dall’Italia, intere linee di produzione all’estero. Hanno tutta la mia ammirazione: molte di loro hanno figli, famiglia, impegni e un’età non proprio scolastica, eppure non hanno mollato. Mi piace pensare che l’Italia sia fatta di persone così!

Reputi che il nostro Paese sia ancora maestro di moda nel mondo, o vedi altri Paesi in questa dirittura?

Che bella domanda! Tendo a vedere il mondo in modo orizzontale, non verticale, quindi penso che ci sia spazio per tutti. I mass media hanno reso il mondo più piccolo e accessibile. La bellezza e la creatività degli altri paesi sono a portata di mano. E poi un conto è la percezione e un conto è la realtà: il mercato della moda è tutto mescolato. Molte case di moda italiane hanno stilisti stranieri, e molti stilisti italiani lavorano per brand esteri. Cosa è italiano e cosa non lo è?

L’Italia gode di una grossa reputazione nella moda (come in molti altri settori), perciò all’estero qualsiasi cosa suoni vagamente italiana vende di più. Fuori dall’Italia e dall’Europa spesso certe sensibilità estetiche non sono molto sviluppate e la gente compra davvero di tutto. Mentre in Italia è più difficile fregarci: se un capo è brutto, è brutto e non lo compriamo. In questo senso sì, grazie al nostro senso estetico noi italiani siamo ancora maestri di moda.

Istituti Vicenza propongono corsi di Fashion Design, Sartoria nelle varie suddivisioni, Modellista. Chi frequenta i vostri corsi? Sono prevalentemente adulti, ragazzi, uomini, donne, italiani o stranieri?

Tutti i nostri corsi sia nel settore moda, che negli altri, sono strutturati come laboratori pratici. Sono pensati per persone adulte, impegnate, che non hanno tempo da perdere. La provenienza è eterogenea: ci sono allievi che lavorano già nel settore moda ma vogliono poter chiedere uno stipendio migliore e avere più responsabilità. Ci sono giovani che hanno appena terminato il diploma o la laurea e hanno le idee ben chiare di cosa vogliono diventare e dove vogliono arrivare. Ci sono allievi che provengono da settori completamente diversi e si sono stancati di fare tutto il giorno un lavoro che non amano e vengono a imparare il mestiere dei loro sogni. Sono quelli che preferisco, perché hanno una scintilla particolare negli occhi.

Nell’insieme sono prevalentemente italiani, anche se gli stranieri negli ultimi 5-6 anni sono aumentati sempre di più. L’età media è di 29 – 30 anni, con punte minime di 20 – 21 anni e massime attorno ai 45 – 50. Ma le nostre allieve più anziane, del corso di sartoria, hanno rispettivamente 65 e 68 anni. Sono due sorelle e nella vita hanno fatto tutt’altro. Quando sono venute ad iscriversi mi hanno detto: “Nostro papà ci ha fatto studiare quello che voleva lui anche se noi amavamo i vestiti. Erano altri tempi, non potevamo opporci. Adesso però che i nostri figli sono grandi e non dobbiamo più niente a nessuno, abbiamo tirato fuori il sogno dal cassetto!”

Non è mai troppo tardi per inseguire le proprie passioni.

Come ci si deve approcciare ad un corso di “inventore” di moda nell’era della globalizzazione?

Con umiltà (non modestia ma umiltà). Con determinazione. Con la mente più aperta possibile, per catturare tutti gli spunti che la globalizzazione offre. E con sicurezza nelle proprie capacità e nel proprio background culturale. Proprio grazie alla globalizzazione e a internet, che hanno reso il mondo più accessibile, è possibile che una giovane allieva stilista apra un blog bilingue sulla moda, sulle tendenze, dando consigli di stile per tutte le taglie e le età, e in questo modo possa non solo diventare “influencer”,ovvero muovere l’opinione di una grossa fetta di utenti del web, ma far conoscere il proprio lavoro nel mondo e vendere le proprie creazioni in Italia e all’estero. Trent’anni fa sarebbe stato impensabile.

Il Veneto nel quale operate ha risentito molto della crisi: pensi che sia in grado di ripartire dai settori di vostra competenza?

Tocchi un tasto dolente: soffro molto quando penso agli imprenditori e ai professionisti che vedono svanire il lavoro di una vita. Ma abbiamo una bella tempra. Penso di sì, che possiamo riprenderci. E non solo perché sono un’inguaribile ottimista. Perché sono un’ottimista attenta: mi guardo attorno e vedo che le aziende che non si sono mai fermate sono quelle che lavorano con l’estero. E che lavorano bene, con qualità e cuore. Dei nostri quattro principali settori di competenza: grafica, arredamento, oreficeria e moda, i corsi che negli ultimi anni hanno avuto un maggiore incremento di iscrizioni sono sartoria nel settore moda e i corsi orafi, quali incisione, modellazione di prototipi in cera, lavorazione del metallo, incastonatura ecc. Questi corsi-laboratorio sono tenuti da artigiani e “sfornano” artigiani. Sono pratici, basati sull’imparare a fare. Sostituiscono il periodo di gavetta a bottega. Verrebbe da chiedersi: ma come? In un mondo supertecnologico c’è chi investe per diventare artigiano? Sembrerebbe un controsenso, ma non lo è.

Negli anni ’60 e ’70 l’artigianato è stato schiacciato dall’industria, perché il mercato era locale. Oggi, invece, il mercato è globale. Molti nostri allievi lavorano nel laboratorio sotto casa, ma realizzano gioielli o capi così particolari e unici che li possono vendere in tutto il mondo, grazie ad internet. E’ la teoria della “coda lunga”, già espressa nel 2004 da Chris Anderson.

Cosa dire del comparto orafo? Cosa proponete per il settore?

Grazie per queste domande che mi permette di fare un po’ di promozione. Porta pazienza ma qui uscirà fuori la mia “anima marketing”. Comincio col dire che chi fosse interessato può fare una prova gratuita e senza impegno di tutti i corsi. Come già in parte ti ho accennato, proponiamo corsi che formano da zero un artigiano orafo in ogni aspetto della produzione di oreficeria e gioielleria. Ovviamente le competenze si possono spendere anche nell’ambito dell’industria e della grande produzione, ma la via più veloce per far fruttare l’investimento nel corso è quella dell’artigianato. Partendo dallo studio dell’idea abbracciano le varie fasi della produzione fino ad arrivare alla finitura.

Per imparare a progettare il pezzo o la collezione, per le persone molto creative ci sono i corsi di Design Orafo e Cad Rhinoceros (disegno tridimensionale al computer) dove si affrontano gli aspetti estetici e tecnici del progetto quali: cosa va di moda? Come trovare nuove idee per forme nuove? Queste forme sono realizzabili? Con quali materiali? Con quali metalli? Quanto peserà il pezzo finito? Quanto costerà? Sarà “portabile”? A che tipo di clientela si rivolge?

Per le persone creative ma più manuali, e per quelle che vogliono subito vedere la propria idea trasformata in realtà, c’è il corso di modellazione di prototipi in cera, ovvero la scultura a mano dell’oggetto su un pezzo di cera che verrà fuso per ottenere lo stesso oggetto in metallo. Questo corso permette a molti allievi, con un investimento sui materiali davvero irrisorio (nell’ordine di poche decine di euro) di eseguire lavori anche importanti su ordinazione senza impegnare grammi di prezioso oro. Si scolpisce un prototipo del gioiello in cera da mostrare al cliente e solo se piace viene fuso e trasformato in metallo. Con un semplice calcolo è possibile sapere con precisione quanti grammi peserà e quindi quanto costa realizzarlo.

Per chi invece desidera da subito cimentarsi con la lavorazione del metallo tipo taglio di lamine, saldatura, tiratura, piegatura e assemblaggio, c’è il corso di Oreficeria. E infine ci sono i corsi di incastonatura e incisione, che riguardano la finitura del gioiello. Le pietre e le decorazioni a bulino, infatti, vengono eseguite alla fine del procedimento di creazione del gioiello.

Tutti i corsi vengono tenuti da artigiani orafi che di lavoro fanno quel che insegnano e si frequentano un weekend al mese, così da permettere agli allievi di non lasciare il loro lavoro e i loro impegni troppo di frequente e troppo a lungo

Chi si approccia ai corsi orafi o per la gioielleria pensa alla professionalità o al classico “fare soldi”?

Bisognerebbe chiederlo a loro! Scherzo… In realtà sono importanti tutti e due. Nessuno fa niente per niente. Penso che chi non conosce il settore orafo abbia l’illusione che maneggiando un materiale così prezioso si possano “fare soldi”. Poi fissiamo il colloquio di orientamento e a me tocca l’ingrato onere di smontare le loro aspettative. Perché alla fine il guadagno, per chi lavora l’oro, è lo stesso di molti altri settori: viene pagata la professionalità. Con la differenza che l’oro costa “come l’oro” e quindi o possiedi molti soldi da tenere lì bloccati in lamine, pezzetti di scarto e limatura (che poi ovviamente vengono fusi, ma anche far rifondere costa) o aggiri il problema e lavori la cera, in modo da fondere solo quando sei sicuro di venire pagato. Noi come scuola siamo molto attenti al guadagno che i nostri allievi devono avere in cambio del loro lavoro. Siamo consapevoli che l’investimento che fanno per venire a scuola da noi deve essere ripagato con risultati economici.

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A chi consiglieresti un corso professionalizzante in questi ambiti nel periodo di crisi attuale?

Agli appassionati. I corsi di moda agli appassionati di moda. Quelli di grafica agli amanti della grafica e così via. Il nostro motto è “Trasformiamo la Passione in Professione”. Il vero motore del successo, crisi o no, è la passione. Se una cosa ti piace la fai, e la vuoi fare bene, perché ci tieni e ti piace. Non senti il peso della fatica, anzi, mentre la stai facendo entri in una sorta di trance e le ore volano. Non ne hai mai abbastanza. E sei felice.

Se invece una cosa non ti piace, non importa quanto ti pagano per farla. Non importa se è un lavoro richiestissimo e pagatissimo. Non importa se la crisi è finalmente finita. Non ti piace, punto e basta. E se fai una cosa che non ami hai due possibili scelte: o cambi e ti metti a fare una cosa che ti piace, oppure sei destinato all’infelicità a vita. Quanto costa essere infelici? Secondo me molto più che cambiare strada. Ma sai, ognuno ha la propria scala di valori.

Non ci sono scorciatoie. Mi dispiace. I nostri allievi trovano lavoro? Sì. Più facilmente degli altri? No e sì. No perché devono darsi da fare tanto quanti gli altri. Sì perché se ti dai da fare per una cosa che desideri davvero, ti pesa molto meno.

Certo, se la crisi non ci fosse, se l’economia tirasse di più… se ci fosse meno burocrazia… se il governo facesse leggi migliori… se le banche finanziassero… se… se… se…

Secondo te, la crisi è materiale o c’è altro?

Francamente non lo so. In questi ultimi anni si sono persi molti posti di lavoro, i soldi hanno girato meno e le difficoltà pesano sulle spalle delle famiglie: è sotto gli occhi di tutti. Ma penso anche che a volte i mass media ci hanno marciato. In fondo tutta la vita è fatta di rompicapo da risolvere. Perciò imparare a filtrare i continui bombardamenti mediatici è indispensabile per sopravvivere. Buon senso insomma.

Personalmente mi sforzo di imparare dall’esempio dei nostri nonni, che sono vissuti in tempi più duri dei nostri. Con meno soldi. Con problemi più reali. Eppure senza perdere il sorriso. Mia nonna è rimasta vedova a 44 anni e ha allevato 7 figli piccoli da sola. A polenta e cipolle. Ed era una persona normalissima in mezzo a tante altre normalissime, che hanno fatto cose eccezionali.

Basterebbe anche solo farsi un giro fuori dall’Europa, verso est, o verso sud per riconsiderare la nostra posizione. Cerco di non dimenticarmi che sono una delle 10 persone, ogni 100 nel pianeta, che in casa ha un rubinetto da cui esce acqua potabile e, a seconda di come lo muovo, l’acqua esce calda o fredda. O tiepida.

La parola “Crisi” deriva da una parola greca che anticamente indicava la fase finale della trebbiatura, quando si faceva saltare, su grandi teli, il raccolto al vento. In questo modo i chicchi pesanti ricadevano giù e la pula, lo scarto, volava via.

Perciò non so “quanta” crisi ci sia ancora da vivere. Non so se sia materiale o di valori o morale. Quello che so è che ottiene qualcosa chi si dà da fare. Chi è disposto a pagare il prezzo per intero. In anticipo e senza sconti. Quella gente lì è il grano. Gli altri purtroppo sono pula.

Raccontaci qualcosa di te: chi è Idra in un Istituto per creazione delle grandi passioni soprattutto femminili e perché ha scelto questa carriera?

Io sono una persona innamorata delle persone: mi piacciono le loro storie, la loro energia. Ogni giorno scopro persone eccezionali intorno a me, fenomeni che affrontano a testa alta e con dignità situazioni complicate. Basta saperle vedere. E sono affascinata dalla comunicazione. Qui a scuola mi occupo principalmente di marketing e comunicazione. Faccio del mio meglio perché lo spirito e i valori della scuola vengano capiti dai nostri utenti. Poi mi occupo di orientamento e da un po’ di tempo anche di personal branding, ovvero aiuto gli allievi ad applicare concetti di marketing aziendale su loro stessi per avviare più facilmente la loro carriera. Devo ringraziare con tutto il cuore il dottor Paolo Bortolotti, proprietario e Direttore della scuola, che ogni giorno mi onora della sua fiducia. La scuola è il riflesso dei suoi valori personali di condivisione della conoscenza, di rispetto per i sacrifici, di responsabilità e valorizzazione del potenziale umano. Valori che condivido pienamente. Lavoro in collaborazione con grandi professionisti, i docenti, che hanno una caratteristica che li contraddistingue tutti e li accomuna: sono generosi. Sanno fare bene qualcosa e non hanno paura di insegnare ad altri come si fa. Sono felici di condividere il loro sapere con gli allievi, convinti che le idee non si trasferiscono ma si moltiplicano.

Poi ci sono gli allievi. Siamo una scuola privata e per adulti. Chi ci sceglie lo fa perché lo vuole davvero. Sono circondata da campioni. Da gente che suda per avere risultati. Vengono a scuola la sera, al sabato, nei weekend. Rinunciano ai divertimenti, al tempo libero e al relax in cambio della formazione sulla loro passione. Con la promessa di farne un mestiere. Riesci a immaginare quanta energia respiro ogni giorno? Quanta motivazione?

Nel mio lavoro ho il privilegio di incontrare le persone in momenti molto “potenti” della loro vita: quando intuiscono che vogliono di più. Spesso vengono da me sottovoce, vergognandosi di ammettere che vorrebbero essere stilisti, o arredatori, o designer. Si sentono in colpa ad avere un sogno. L’ambizione nella nostra società viene spesso derisa. Io ho in privilegio di essere lì, in quel magico momento, e dire loro che sì, possono: se vogliono, possono. Che certo, c’è un prezzo da pagare e non solo economico, ma anche in termini di costanza, energia, sacrifici e tempo lontano dallo svago, dalla famiglia, dagli hobby. Ma che se sono disposti a pagarlo, hanno davvero concrete possibilità. Alcuni di loro non vedono l’ora di iniziare. Altri hanno bisogno di rifletterci. Altri ancora scoprono che non era la loro strada. Va bene comunque. Mi piace pensare che ormai la scintilla sia accesa. Si può immaginare un lavoro migliore di questo? Non per me.

 

Intervista di Alessia Biasiolo

The Dark Side of the Wall. Intervista a R-Evolution Band

The Wall è una delle opere rock per eccellenza, probabilmente l’ultimo grande lascito a un certo modo di concepire e interpretare il rock, tipico dell’era classica. Per quale motivo “profanarlo”?

Tutto iniziò negli anni ’80 quando mio zio mi regalò il vinile di The Wall qualche anno dopo la sua uscita. Me ne innamorai subito in maniera maniacale, ma mai avrei immaginato che la mia esperienza personale e musicale mi avrebbe portato ad affrontarlo in maniera così intima e allo stesso tempo violenta. Comunque più che di profanazione parlerei di rivoluzione ed evoluzione, cosa che ci riconduce al nome della band. So che per i fan dei Pink Floyd, da sempre abituati alla perfezione chirurgica e a ’quelle’ sonorità senza dubbio impareggiabili, può risultare difficile se non impossibile digerire un progetto che si pone come obiettivo primario la distruzione e ricostruzione integrale di The Wall. Ma siamo in un’epoca di sperimentazione, e personalmente ero attratto da questa impresa da molto tempo.

Dopo due dischi originali (One Way…No Way del 2010 e Versus del 2011) ho deciso che era giunto il momento giusto per lavorare a ‘qualcosa’ d’importante da immortalare sotto nuove vesti; e la scelta è ricaduta inevitabilmente su The Wall. Mettersi a cospetto del ‘Muro’ originale non è stata cosa semplice, affrontarlo, lasciarsi avvolgere totalmente per poi destrutturarlo e infine ricostruirlo a modo mio e in qualche modo oltrepassarlo. Insomma, alla fine possiamo dire che questo progetto è stato il risultato di un’evoluzione naturale del mio percorso artistico che mi ha condotto all’inevitabile confronto/conflitto.

Nelle note di copertina parlate di un “nuovo concept” che accomuna i brani rivisitati: di che si tratta?

L’idea di un nuovo concept era necessaria, un’opera come The Wall che nasce da una grande idea portante, una sorta di leitmotiv, non poteva che essere ricostruita seguendo lo stesso principio; non avrebbe avuto alcun senso rimodellare ogni brano singolarmente. La certezza che ci ha guidato fin dall’inizio è stata quella di volerci distinguere nettamente dalle cover/tribute band, operando un lavoro profondo di revisione, manomissione e ri-arrangiamento dei singoli brani a seconda del loro ruolo all’interno della setlist. Ogni brano doveva essere in sintonia con quello precedente e allo stesso tempo visto in funzione di quello successivo, oltre ad avere un ruolo ben preciso all’interno di macro aree tematiche. Considerata la durata del disco originale ho evitato che i ventisei brani risultassero stilisticamente simili tra loro, ma allo stesso tempo non volevo che sembrassero ‘separati in casa’. Da qui l’idea di un sottilissimo filo conduttore da ricercare con un ascolto attento, che rappresenta un’intrigante sfida per i fan dei Pink Floyd e non solo.

 

The Dark Side Of The Wall spicca immediatamente per la profonda alterità rispetto alla versione originale: che tipo di orientamento avete seguito nel confrontarvi con i singoli pezzi?

Questo lavoro è frutto di un profondo studio dell’originale durato oltre sei mesi durante i quali ho cercato di assimilare il maggior numero possibile di elementi, non solo musicali. Molti li ho estrapolati dalle opere di Gerald Scarfe e dai primi demo di Roger Waters, oltre che dai vari live, altri da materiale che sembrerebbe avere poco a che fare con The Wall. Tutto questo per entrare fino in fondo nel mondo che stavo per distruggere brutalmente! So che può sembrare un paradosso ma non avrebbe avuto senso copiare o cercare affinità evidenti con i brani originali. Dopo questo lavoro destrutturante far rinascere i brani con caratteristiche completamente differenti pur preservandone alcuni elementi caratteristici è stata la vera e propria sfida! Revisioni stilistiche, tematiche, armoniche, ritmiche e formali sono state operate per ciascun brano, cercando di far emergere quegli elementi che nel disco originale risultano meno evidenti. Chi si aspetta di ‘comprendere’ tutti questi aspetti nella loro complessità fin dal primo ascolto rimarrà probabilmente deluso, ma chi vorrà dedicargli il giusto tempo arriverà a scoprire il ‘lato oscuro’ di The Wall.

È quanto meno bizzarro che la “mente” dei R-Evolution Vittorio Sabelli sia un fiatista di estrazione jazz amante del metal estremo… Queste due aree musicali quanto sono state influenti sulla rilettura floydiana?

Sono state senz’altro fondamentali. Ho cercato di far confluire tutte le mie esperienze in questo disco, e data la sua lunghezza sarebbe stato impensabile e anche un peccato agire diversamente. Ho lavorato per oltre dieci anni in Orchestra Sinfonica e da oltre dieci anni m’interesso di jazz e musica contemporanea, ma le componenti rock e metal estremo mi hanno portato a scoprire la chitarra e la batteria. Sarebbe stato impensabile comporre musica con il solo ausilio di clarinetto o sax, anche se la storia ci insegna che le grandi rivoluzioni musicali del ‘900 sono avvenute proprio per merito di ‘fiatisti’. Basti pensare a Charlie Parker, Miles Davis, John Coltrane, Ornette Coleman e non ultimo John Zorn.

Oltre al jazz e al metal altri riferimenti popolano il vostro album, dall’elettronica alla musica contemporanea: c’è un segreto per far convivere queste anime?

Mi diverto a far convivere i diversi generi con i quali mi sento a mio agio, sperimentando dei blend che possano risultare più o meno fruibili, ma che non sono mai prevedibili e scontati. Di segreti particolari non ce ne sono; ho semplicemente messo a punto un mio particolare modo di scrivere e ascoltare musica per capire quali sono generi che vanno più d’accordo, creando un piccolo laboratorio di esperimenti musicali. Non dimentichiamoci poi che il momento delle prove è cruciale perché è la fase in cui ognuno dei musicisti dà il proprio contributo in termini musicali, e viene alla luce la prima vera bozza di quello che sarà il progetto finale.

Quali sono le differenze sonore e stilistiche rispetto al vostro precedente album Versus?

Partirei ancor prima dal mio primo disco One Way…No Way del 2010, incentrato su sonorità classiche e jazzistiche, con aperture all’avanguardia e alla dodecafonia. Da One Way a Versus un primo cambio di formazione ha spinto il tiro verso la musica etnica e i tempi dispari. Mentre quello che differenzia maggiormente Versus da TDSOTW è il rapporto improvvisazione/musica scritta. Mentre Versus è incentrato maggiormente su un discorso d’improvvisazione collettiva, The Dark Side Of The Wall è l’esatto opposto, con molta musica scritta e sezioni d’improvvisazione che lasciano meno spazio ai singoli musicisti. D’altronde l’organizzazione in ventisei brani non poteva esser approcciata con lunghi assoli, altrimenti avremmo rischiato di fare un disco triplo. L’altra differenza è sotto il profilo timbrico, con un’accurata scelta della line-up e degli ospiti che hanno reso possibile differenziare i vari episodi.

Spesso opere del genere diventano ingombranti e le si valuta solo in un’ottica celebrativa: a più di trent’anni di distanza, secondo voi quali sono i pregi e i difetti di The Wall?

Sappiamo tutti della fredda accoglienza riservata inizialmente a The Wall, soprattutto se lo si pensa in relazione al trittico che lo ha preceduto The Dark Side Of The Moon, Wish You Were Here e Animals che lo ha preceduto. Chi adorava i Pink Floyd si è sentito spaesato e spiazzato dalle sonorità imposte dal lavoro di Waters, che virano per l’ennesima volta verso nuovi orizzonti, questa volta meno visionari e molto più realistici e personali. La perfezione in ogni singolo dettaglio di The Wall lascia meno spazio per perdersi nel cosmo, cercando invece di coinvolgere l’ascoltatore all’interno del proprio stato emotivo. Chissà in quanti avranno immaginato allora cosa quel disco avrebbe rappresentato in futuro, ovvero un punto di riferimento e un mattone fondamentale nella storia della musica. Per quanto riguarda i difetti, fino a qualche mese fa avrei detto nessuno, ma ora potrei dirti che il suo unico difetto è The Dark Side Of The Wall

Se doveste cimentarvi con un’altra operazione di rilettura di un classico, a cosa pensereste?

A dire la verità sto già lavorando a del nuovo materiale per la R-Evolution Band, sia con brani originali che con nuovi esperimenti per ulteriori attacchi a un’altra band storica, ma per ora è top secret. Una testata americana a proposito di TDSOTW ci ha definito una anti-tribute band, forse non allontanandosi troppo dalla realtà. Vorrei solo chiarire che il nostro modo di approcciare la musica altrui va visto come un amore profondo che nasce da un rispetto infinito e da tanto studio sulle band che andiamo a ‘manomettere’. In futuro non escludo che Led Zeppelin, Metallica e Beatles entrino a far parte di questo universo parallelo, così come qualche cantautore e compositori quali Mozart e Brahms.

Donato Zoppo