The Jugde

Un interessante argomento sta alla base della sceneggiatura del film drammatico “The Judge”, nelle sale cinematografiche da ottobre. Su soggetto di David Dobkin e Nick Schenk e sceneggiatura di Nick Schenk e Bill Dubuque, per la regia di David Dobkin, scelto come film d’apertura del Toronto International Film Festival, vede nel cast Robert Duvall e Robert Downey Junior. Protagonista Henry Hank Palmer, avvocato di successo originario dell’Indiana che, figlio di un rigido giudice, ha lasciato il suo paesino per la metropoli dove è famoso per non avere mai perso una causa, anche se soprattutto in favore di criminali sicuramente colpevoli. Costretto a tornare a casa per il funerale dell’amata madre, ritrova le sue origini drammaticamente lasciate e si trova, suo malgrado, a dovere affrontare e cercare di superare i conflitti interiori e con il genitore. La malinconia e la nostalgia che accompagnano il viaggio di ritorno di Hank sono dovute al desiderio di ottenere, finalmente, la considerazione paterna, di quel giudice Joseph che l’ha allontanato da sé, rinchiudendolo in un riformatorio, perché temeva stesse prendendo una brutta piega. Quel giudice così severo con i figli e così comprensivo con i colpevoli, che cercava di aiutare, fino a quando aveva salvato da una pena severa un ragazzo poi colpevole dell’omicidio di una donna. I sensi di colpa attanagliano entrambi, padre e figlio. Il padre per non avere compreso il reo, vedendo in lui il figlio che non incontrava da anni; Hank perché aveva evitato di tornare a casa così a lungo da non avere più rivisto la madre fino al giorno del funerale, nella bara. Tornano alla memoria gesti, frasi, piccole complicità ormai perdute, proprio nel momento in cui Hank deve fare i conti con la sua coscienza e con un matrimonio fallito, immolato sull’altare del successo.

Torna il senso di colpa per avere rovinato la carriera di giocatore di baseball del fratello Glen (Vincent d’Onofrio), per avere guidato ubriaco ed avere causato un incidente nel quale erano rimasti coinvolti con definitive conseguenze per il congiunto. Ci troviamo davanti ad una commovente storia maschile, di rapporti padre/figlio raramente visitati e non tanto con il confronto con un padre capace, integerrimo, giudice della cittadina da quarantadue anni, quanto con il padre malato terminale, che perde la memoria, fragile nelle manifestazioni della malattia. Il figlio, ancora legato all’idea del padre forte che lo portava a pescare, si trova a dovergli essere padre a sua volta, scoprendo nel genitore atteggiamenti inattesi: la tenerezza verso la nipotina, impensabile in un uomo così severo (con alcune reminiscenze del piccolo Lord in versione femminile), la capacità di voler bene oltre ogni aspettativa. La comprensione messa in atto da parte del fratello maggiore, incapace di provare rancore, malgrado ne avesse ogni ragione, avvalora ancor più il senso di appartenenza. La dolcezza dell’atteggiamento di Glen che non solo ha perdonato il fratello minore Hank per avergli stroncato una promettente carriera, ma che si dimostra depositario di valori profondi, legati al concetto di famiglia, di bontà, di tolleranza, rendo il film unico. Aspetti diversi del maschile, interpretati da tre personaggi completamente diversi, eppure accomunati dal legame familiare, capace di non spezzarsi anche se deve affrontare una bufera o l’uragano che costringe nello scantinato. Il collante è il fratello minore Dale, ritardato, che continua a sorridere cercando l’affetto degli altri e per gli altri, anche quando tutto il male si scatena contro una famiglia provata dal dolore e dal lutto. La mancanza di memoria del padre anziano e malato è l’archetipo della mancanza di memoria per il passato, senza il quale, tuttavia, il presente non ha significato. Le figure femminili aleggiano sullo sfondo, ma mantengono un ruolo di sostegno e di conforto, senza entrare nella trama se non come pinza complessiva. La capacità della sceneggiatura di indagare sul rapporto tra uomini è forte, delicata. Il carattere virile impersonato dal giudice, dal braccio forte del giocatore di baseball, si stempera nello sguardo perso di Glen, costretto dalla vita a vendere pneumatici, oppure nelle pellicole di Dale, che grazie alla sua passione diventa fondamento dei ricordi familiari. Un atteggiamento già visto nel cinema americano quello della persona affetta da handicap che riesce a costituire una parte importante del vissuto presente e passato, dimensionando in modo fondante il carattere di chi, altrimenti, verrebbe soltanto visto con la necessaria, sterile, compassione sociale. Dale è l’occhio dello spettatore, la pazienza del suo tempo rallentato, eppure forse l’unico in grado di avere davvero un senso. Chi si occuperà di lui, una volta che il padre non ci sarà più? Ma in realtà, non è lui che si occupa degli altri, appoggiando la sua mano sulla spalla dei fratelli disperati? Il suo ruolo apparentemente defilato nella società in effetti costituisce la velocità esatta del tempo che scorre inesorabilmente. È lui il vero protagonista della storia familiare, lui che ricorda la mamma, i fratelli che scartavano i pacchi di Natale, che ricorda ai nipoti il lato bello della famiglia, che pensa alla morte con i santini in mano da distribuire ai partecipanti al funerale. Non è Hank il vero artefice della storia Palmer, con il suo irruente temperamento e la volontà di assomigliare al padre almeno un po’ e di ottenerne la considerazione e l’affetto, ma è Dale, realizzatosi senza strafare, anche davanti al gigante giudice. Hank ritrova la sua ragione di esistere nell’aula di tribunale che fu per anni del padre, scopre che Joseph in realtà gli voleva più bene di quanto volesse ammettere a se stesso. Tuttavia, la drammatica sdolcinatezza di questa trama sarebbe tale senza il vero motivo che costringe Hank ad affrontare la realtà, dandole in suo giusto contributo. Lasciata la casa paterna dopo il funerale della madre, Hank è costretto e tornarvi per prendersi carico della difesa del giudice dall’accusa di omicidio. Il giudice probabilmente ha investito con l’auto un uomo e l’ha ucciso. Ora è il giudice a trovarsi dall’altra parte della sbarra, è lui a dover provare quanto provato per anni ed anni da tanta gente che lui stesso ha giudicato. È lui a dovere fare i conti con una pubblica accusa spietata. Il suo potere si sbriciola perché, se tanti in paese lo ammirano, sono anche tanti a provare rancore nei suoi confronti. Finisce un’era, un potere, sotto i colpi del fato e della giustizia umana che non vuole guardare oltre l’apparenza. Che forse è anche la verità. E il figlio diventato bravo a difendere i colpevoli ora è il solo a poter salvare il padre dal carcere, pur nello scontro titanico tra il difensore a tutti i costi e l’integrità morale del giudice che ammette la colpa. Insomma, l’indagine magistralmente condotta sui rapporti interni al maschile familiare si arricchisce di temi fondanti della carriera, della costituzione della personalità di ciascuno in relazione e indipendentemente dagli altri. Un bellissimo film, molto ben strutturato, molto significativo. Da vedere.

Alessia Biasiolo

One thought on “The Jugde

  1. Avatar di wwayne wwayne ha detto:

    Di Robert Duvall ho adorato anche quest’altro film: https://wwayne.wordpress.com/2015/01/22/mettiti-nei-miei-panni/. L’hai visto?

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