“Miseria e nobiltà” sempre attuale al Teatro Sociale di Brescia

Replicherà al Teatro Sociale di Brescia fino a domenica prossima, 19 gennaio (da giovedì a sabato alle ore 20.30, domenica alle ore 15.30) “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta. Il testo, diventato capolavoro cinematografico nel 1954 grazie all’adattamento di Eduardo De Filippo, protagonisti Totò, Carlo Croccolo e Carlo Campanini, con una bravissima Sophia Loren, è stato adattato da Geppy Gleijeses che ha curato anche la regia.

Messo in scena da Teatro Stabile di Calabria e Teatro Quirino di Roma, “Miseria e nobiltà” nel cast vede, oltre a Geppy Gleijeses nel ruolo di Felice Sciosciammocca, Gigi De Luca che interpreta Semmolone, Lello Arena nel ruolo di Pasquale, Marianella Bargilli nelle vesti di Luisella, la compagna di Felice. Affiancati da Antonietta d’Angelo (Pupella, figlia di Pasquale), Gina Perna (Concetta, sua madre), Luciano D’Amico,Gino De Luca, Leonardo Faiella, Jacopo Costantini (Eugenio, innamorato di Gemma), Silvia Zora (Gemma), Liliana Massari, Vincenzo Leto.

Testo che si presta ad essere interpretato dai migliori caratteristi del teatro napoletano (vedi Gigi De Luca, Gina Perna, e altri), ha suscitato risate scroscianti, come poi gli applausi, nel teatro sold out.

E tanti ricordi, perché in platea molti spettatori ricordavano il ruolo dei mattatori capeggiati da Totò, soprattutto nella celeberrima scena della congrega di morti di fame che si abbuffano per l’insperata terrina di spaghetti al sugo che un pomposo cuoco porta loro, grazie alla bontà di un innamorato.

La verve di Gleijeses si riconosce ancora, come già in altri lavori napoletani (e non solo) così come la bravura di tutto il cast, accuratamente scelto, che rende la commedia ancora amata e vivace, dopo molto tempo. Il quadro è dei più disperati e penosi, richiama, ahimè, molte situazioni odierne di sconforto e disperazione davanti alla nullità di quanto si può fare quando manca il lavoro, mancano i soldi, non si ha più niente da impegnare per avere qualche spicciolo per comperarsi da mangiare.

Si favoleggia di tesori che si possono impegnare, ma si tratta solo di un vecchio soprabito già rivoltato in origine, usato per il proprio matrimonio di almeno due decenni prima, quindi pochi sarebbero stati i denari in prestito per pensare di riempire la pancia. Della propria famiglia e di quella del vicino, compagno di sventure e di avventure.

Si sa, la differenza la fa il clima napoletano: le donne che litigano, tra disperazione, fame e reciproci insulti per il marito più inconcludente e la sorte più avversa. È che ci si può fare, del resto? Lello Arena, nei panni di Pasquale, si lagna ancora perché i medici, e la legge, hanno vietato l’uso delle sanguisughe, quello era il suo mestiere, il salassatore, e adesso è rimasto senza nulla da fare, troppo povera la gente per poter avere qualcosa da spendere. E l’amico/vicino di casa Felice non ha niente da scrivere per quei poveracci che venivano in città, perché nessuno ha soldi per pagare lo scrivano. Povertà nera e governo che chiede sempre più tasse, che spreme e spreme, anche “se non c’è rimasta più nemmeno la scorza”.

Le allusioni alla contemporaneità sono implicite. Eppure sono tante anche le risate, tant’è che si ha la netta impressione che proprio quella società perduta possa trovare in sé, e nella propria verve, nella propria abitudine a tirarsi su le maniche e sperare in meglio, la capacità di ripresa da quest’ultima batosta denominata crisi.

Ecco allora che, se san Gennaro fa la grazia, c’è il segreto innamorato della figlia che manda i famosi spaghetti e si impegna a pagare le cinque mesate di affitto arretrato che il padrone di casa dice di non poter più aspettare, pur essendo consapevole che quei poveracci non hanno più nulla da impegnare, anche se dovesse mandare il messo a pignorare i beni per rifondersi del mancato guadagno.

Poi c’è la sorte, che gira. E allora arriva il marchesino Eugenio che chiede un favore a Pasquale, in nome della vecchia amicizia di famiglia. Lui e i suoi amici devono impersonare il padre marchese Favetti che non vuole lasciargli sposare una ballerina, Gemma, ricca ma non di lignaggio, e tutti i blasonati parenti. Pasquale, Felice e donne al seguito capiscono solo che per recitare la pantomima di nobili che devono incontrare il padre della futura sposa, Giacomo, un cuoco diventato molto ricco, riceveranno da mangiare: non si reggono in piedi e per la fame non si pongono problemi di sorta. I vestiti verranno presi in prestito dal Teatro dell’Opera San Carlo e tutti sembreranno davvero nobili, Felice un principe addirittura.

Il tutto si snoda poi tra frasi senza senso che scimmiottano l’italiano forbito e la tribù di squattrinati si presenta agghindata all’appuntamento. Una sembra un lampadario, uno ha il vestito delle pompe funebri, l’altra donna ha un cappello impossibile che la rende bellissima: insomma, un cast formidabile con i bei vestiti di Adele Bargilli, su scene essenziali ed efficaci di Francesca Garofalo.

Il colpo di scena è che Felice incontra sul posto la moglie che aveva lasciato sei anni prima per un’altra; la figlia di Pasquale si scopre che è innamorata, ricambiata, del figlio del famoso e ricco cuoco; il padre di Eugenio, il marchese Favetti, in realtà è invaghito della bella e brava ballerina e la frequenta sotto il nome di Bebè. Insomma, alla fine, pur nella confusione generale, nell’impossibile e assurda situazione che tutto possa finire, e finisce, per il meglio, la situazione si mette a posto e tutti vissero felici e contenti. Pasciuti, soprattutto.

Salva anche la sceneggiatura di Mario Mattoli che parte del pubblico ricercava tra le pieghe di questa bella commedia che a Brescia si può ancora ammirare per alcuni giorni, per ridere di gusto dello specchio che riflette, in fondo, noi stessi.

I valori di onestà, sincerità, amicizia sono alla fine l’unico cemento che tiene insieme la società, malgrado le difficoltà, e la società napoletana sottolineata dal lavoro teatrale è poi quella che, senza farsi mancare liti furibonde, accapigliamenti per i capelli e parolacce, è unita e solidale per far fronte alle avversità. E se c’è profumo d’arrosto, come dice un vecchio adagio, il profumo è poi un po’ per tutti. Anche se un attimo prima si stavano azzannando gli arti scoperti gli uni degli altri. E lo rifarebbero se la sorte dovesse girare male ancora.

Divertente, riuscita, la commedia dimostra la vitalità di testi senza tempo, pur se hanno centoventisei anni, lo smalto di Arena/Gleijeses/ Bargilli e l’ottima scelta del cast nel suo complesso.
Viene da pensare: ma con tutto il nostro progresso, dopo ben oltre un secolo, siamo ancora nelle stesse condizioni? Fuori dai bassifondi, ma con gli stessi problemi di sbarcare il lunario? Gli spunti scelti da Gleijeses un po’ ci rispondono.

Alessia Biasiolo

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