Il bel libro di Rosetta Loy, che ho letto come un romanzo – avvincente e terribile allo stesso tempo, dato che non potevo viverlo come un noir di quelli che leggo spesso – e anche come un saggio, ma anche come un testo di scuola, o un approfondimento universitario, tanto l’ho sottolineato e meditato, non poteva restare privo di una voce.
Ho avuto, così, la fortuna di poter intervistare l’autrice e di sentire, oltre che i respiri dietro ogni singola parola che ha scritto nel suo “Gli anni fra cane e lupo” (chiarelettere, Milano, 2013), la sua calda e profonda voce che parlava della sua creatura.
Senza svolazzi, rispondendo ad una lettrice curiosa e attenta, perché affascinata da quella storia narrata, ambientata tra il 1969 e il 1994. Mi sono ritrovata nella voce di Rosetta perché mi ha detto “Ho capito quello che è successo scrivendolo”. Forse è per quello che gli anni chiamati di piombo mi interessano tanto, ora che posso capire. Che voglio capire.
Perché il tempo del vissuto, mentre si vive la Storia, non lo puoi vedere tutto, non certo con occhi bambini. E così, ero una persona come tante, presa dalla sua vita, incapace – anche per ragioni anagrafiche – di dare un senso a quell’ansia, quel senso di vuoto e di impotenza, che aleggiava dappertutto, che rendeva gli adulti seri, preoccupati, indifferenti, soprattutto incerti sull’avvenire.
Oggi si può leggere di quel periodo. E Rosetta Loy ne ha scritto in modo pacato e documentato da cronachista, cercando di non cadere nella tentazione di fare proprio la scrittrice, anche se la sua straordinaria penna sbuca qua e là, e non soltanto nei ricordi privati. Le pennellate di vita e di interpretazione del reale non la tradiscono e arricchiscono il testo di luce. Del suo ottimismo.
Veniamo allora all’intervista.
“Signora Loy, ha provato disagio nello scrivere di quei fatti di cronaca italiana che vanno dalla strage di Piazza Fontana, a Milano, nel 1969, transitando per uno spaventoso numero di morti fino al 1994?”.
“Quando ho deciso di scrivere questo libro non avevo idea di come mi sarei inoltrata nella storia, è stato come un viaggio per me. Non sono partita con un’idea precisa, se non quella di scriverlo. Mi sono lasciata guidare dai fatti. Il disagio veniva dagli episodi di vita personali che avrebbero dovuto essere più di quelli riportati nel testo; ma mi sembravano insignificanti gli episodi della mia vita, dinanzi a quello che mi trovavo a dover raccontare, riscoprendolo e scoprendolo proprio mentre lo scrivevo”.
“Conosceva le persone coinvolte nei fatti di sangue di quegli anni, delle vittime, ad esempio?”.
“Sì, una, l’architetto Sergio Lenci”.
“Pensa di continuare a scriverne, ora che siamo in quelli che vengono considerati gli anni storici adatti per rivisitare quanto accaduto?”.
“No, non ho intenzione di continuare a scriverne. È stato bello, soddisfacente, ma anche stancante. È bello capire, ma stanca”.
“Ritiene che siano davvero i tempi adatti per leggere di quanto accaduto, seguendo ricostruzioni storiche? Siamo abbastanza maturi nell’Italia di oggi per prendere coscienza di quegli anni terribili?”.
“Penso di sì, che sia il momento giusto. Abbiamo molte possibilità, oggi, per capire. Molte più di un tempo. Molti più modi, volendo, per documentarci. Siamo anche più capaci di capire di quanto non lo fossimo decenni fa: molto più istruiti, molto più perspicaci, ma anche viziati dal tipo di informazione alla quale siamo abituati. Da quanto ci vuole essere comunicato. Ma se vogliamo, possiamo informarci, oggi è più facile. Ciò che è importante, e che più conta, è la curiosità. La voglia di sapere. Bisogna suscitare la curiosità della gente, affinché cerchi l’informazione di cui ha bisogno per capire”.
“Secondo lei ci sono ancora strategie in atto, da parte di qualche forma di potere “occulto”, tipo quelli dei decenni scorsi (P2, Gladio, servizi deviati…), per non farci conoscere la verità?”.
“Secondo me, c’è una strategia per non farci sapere, in altre forme ma simile a quella di un tempo, tuttavia non si è rivelata una strategia vincente. Questo è un grande momento. Vedo che questa nuovissima generazione, quella dei ventenni/trentenni, è molto attenta, perché ha paura del futuro che le abbiamo preparato. Spesso vuole sapere e vuole conoscere. La gioventù attuale è meno ideologica, mentre la generazione precedente ha avuto come ideologia il successo e quella prima ancora era stata devastata dall’ideologia che fosse lecito ogni atto terroristico per raggiungere il traguardo”.
“Come vede il mondo, allora?”.
“Anche se non sembra a leggermi, io in fondo sono un’ottimista. Vorrei essere uno stimolo per i giovani proprio a capire di più quello che li circonda, la situazione che vivono”.
“L’ha scritto per loro il suo ultimo libro?”.
“Sì, assolutamente, vorrei che lo leggessero. Per loro ho cercato di scrivere i fatti senza aggiungere le digressioni tipiche di una scrittura più letteraria”.
“E che per fortuna si riconoscono, tra un capitolo e l’altro, le sue digressioni. Questo ha arricchito molto il suo libro, senza, convengo, distogliere dalla lettura della storia degli anni italiani sviluppatasi in un quarto di secolo. Come ha condotto la sua ricerca?”.
“Mi sono lasciata condurre dagli eventi, cercando legami tra le pagine di cronaca, nei libri consultati”.
“Non ha pensato che avrebbe dato fastidio a qualcuno il suo modo di riannodare i fatti?”.
“Non me ne sono preoccupata, non ho scritto pensando a cosa avrebbero pensato gli altri. Mi sono attenuta ai fatti il più rigorosamente possibile, senza volere scrivere un libro ‘politicamente corretto’. Mi sento molto libera, non condizionata da nulla. Gli intellettuali devono credere in quello che fanno. Può sembrare un’utopia, e allora crediamo nell’utopia. Senza credere in questo l’umanità non avrebbe futuro”.
“Si dice che per andare avanti l’umanità deve anche basarsi su una buona dose di oblio, senza la quale non potremmo procedere, stramazzati sotto le responsabilità che nascono dal ricordo di quanto già avvenuto. È d’accordo?”.
“No, affatto. Il ricordo è doveroso. Non bisogna fossilizzarsi nel ricordo, rendendolo sterile, questo sì, ma si deve ricordare. E appunto capire”.
“Lei, scrivendo queste preziose pagine, ha avuto dei ricordi dolorosi?”.
“Alcuni sì, pensando ad amici che tornavano vivi nel ricordo”.
“E ci sono stati dei ricordi piacevoli, invece, relativi a qualcosa che pensava di avere dimenticato?”.
“Qualcuno sì, ad esempio il viaggio a Praga che è ancora vivo nella memoria”.
“Alcune persone, anche vittime del terrorismo, dirette o indirette, nel tempo hanno lamentato il fatto che troppo spesso sia stato dato molto più spazio ai terroristi che alla loro voce. Cosa ne pensa?”.
“Penso sia vero, soprattutto perché il negativo fa più notizia, fa più audience. Ci si lascia guidare da questo molto spesso. Penso invece a persone che fanno strada senza show, come il figlio del giudice Ambrosoli, degno figlio di suo padre: si è presentato in politica senza usare il suo passato, quasi in punta di piedi”.
“Quanta paura aveva negli anni di piombo?”.
“Nessuna. Ho capito pochissimo, allora, di quanto stava accadendo. Ero molto presa, come scrivo anche nel libro, dai miei figli adolescenti, dal lavoro, avevo molto da fare. Forse per questo avevo poco tempo per soffermarmi su quanto stava accadendo. O forse non si riesce ad avere una visione vera e propria di ciò che accade mentre accade. Questo l’ho capito scrivendolo, anche perché avevo modo di avere tutta la storia davanti. Anche se certi episodi sono indelebili nella mia mente: la strage di Bologna, ad esempio, quando vidi cos’era successo direttamente sul posto”.
“In che mani siamo, oggi? Si parla tanto di polizia che deve avere un volto più vicino alla gente…”.
“Penso che ci sia ancora molto pericolo. Il giudice Di Matteo è in pericolo e molti uomini difendono i giudici con il volto coperto, per non farsi riconoscere. Segno evidente che c’è ancora pericolo e paura. Credo non ci sia altro Paese in Europa dove i poliziotti devono andare in giro a volto coperto mentre proteggono un magistrato, per non farsi riconoscere.
Siamo in mano a dei veri eroi ai quali sono molto grata. E vorrei esprimere loro tutta la mia riconoscenza per quello che fanno. È una parte dello Stato che combatte la criminalità organizzata, una criminalità che si è ben insediata in tutto il nostro Paese, anche profondamente nel Nord. Molti magistrati sono davvero degli eroi. Per fortuna esistono”.
Alessia Biasiolo