Aldo Moro

Un saggio che apre alla “Politica, filosofia, pensiero” dello statista, scritto da Danilo Campanella, con una prefazione di Giulio Alfano per i tipi Paoline di Milano. Un uomo, Aldo Moro, noto per il sequestro di Via Fani che portò alla sua prigionia e al suo omicidio da parte delle Brigate Rosse, ma meno approfondito dal punto di vista dello statista, della persona mite e capace di cercare quella via di dialogo con tutti che, probabilmente, l’ha portato all’odio politico che gli costò la vita. Una vicenda umana interessante, che attraversa il secondo dopoguerra italiano fatto di persone di varia appartenenza, ma di grande levatura, ancora oggi portata ad esempio. Moro, Spadolini, Almirante, Berlinguer, per citarne solo alcuni. Persone che tanti non hanno conosciuto se non dai documentari storici e che pure vengono segnate come spartiacque tra un mondo politico colto, riflessivo, pieno di idee ed uno diverso. Al di là delle appartenenze, delle fedi politiche, questi nomi sono indice di chi aveva un’opinione certa, maturata anche (se non soprattutto) dall’incontro politico con l’altro, con chi aveva ideali differenti, idee diverse e che era disposto a mettersi in gioco parlando, scrivendo, urlando, se necessario, ma sempre nel rispetto dell’interlocutore. Oggi siamo di fronte troppe volte a persone che sembrano agire da sole in uno scenario visto a misura propria, senza un vero “scontro” ideologico che non significa di quelle ideologie che hanno portato, riferendoci a quegli anni, allo scontro armato di stampo terroristico, ma che significava voler imparare, sapere, scoprire se le proprie idee erano veramente tali stando in mezzo a quelle di tutti gli altri uomini e donne del proprio tempo. Abbiamo quindi ora un libro che propone le scelte di un uomo che credeva di agire nel modo giusto, non il solo, non il più giusto, ma quello che riteneva il meglio in quel momento, in quello scenario. Un uomo credente, che metteva in campo una novità: la partecipazione dei corpi intermedi dello Stato, la famiglia, le associazioni, i sindacati, che pensava fondamentali “affinché si mantenesse vivo il dialogo fra le parti, favorendo il dinamismo e limitando il rischio di statolatria. I corpi intermedi avrebbero permesso ai partiti di costituirsi in partiti programmatici, senza il rischio di divenire centri di potere”. Pertanto, i cittadini, secondo Moro, non andavano semplicemente accontentati, ma guidati senza, e questa era la sua vera novità, la vera rivoluzione, ingerenze ideologico-politiche o confessionali. La sua innovazione era la laicità e la politica, ritenute un tutt’uno all’interno del limite istituzionale. Questi erano i suoi discorsi all’interno del suo partito, la Democrazia Cristiana, nel 1978. In quegli anni, negli Stati Uniti era al potere Kissinger. I due uomini furono “interpreti di due modi diversi di intendere la politica, il potere e, in definitiva, il postmodernismo”. Moro vedeva il potere come un mezzo, Kissinger come un fine. Mentre Kissinger usava l’instabilità per affinare il proprio potere e quello degli Stati Uniti, Moro riteneva che l’ordine sociale fosse il collante primario per la coesione di una comunità di nazioni. L’analisi proposta è ampia, completa e interessante e permette di conoscere e di capire il personaggio Moro, l’uomo che stava dietro al politico, colui che cercava di mettere in atto i valori nei quali credeva. Egli aveva individuato nella legittimizzazione del più radicale individualismo, un grave pericolo: la teoria di una volontà generalizzata che, emanando dal Parlamento, giustificava il rifiuto dell’autonomia delle strutture intermedie dello Stato, considerate tutte nate dalla suprema volontà dello stesso. “È in questa estremizzazione assai pericolosa che Moro individuava le radici complessive di quel terrorismo estremo di carattere politico, ma anche di un certo fanatismo religioso, che prescindeva dalla centralità creaturale dell’uomo. Il carattere ‘liberale’ di Aldo Moro si può considerare il profilo della più avanzata cultural postmoderna”. Argomentazioni quanto mai di moda, per motivi diversi da allora, ma che ruotano intorno alle stesse piccolezza umane.

L’analisi del compromesso storico, il ricordo di nomi ed episodi, la contrarietà di Ford con le idee di Moro, l’approfondimento dei suoi rapporti con Mosca, fino al 16 marzo 1978. Il testo è incalzante, profondo e di facile lettura. Quella mattina, prima di rapire lo statista democristiano, vennero uccisi i suoi uomini di scorta Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi. In Parlamento Giulio Andreotti si accingeva a presentare il suo nuovo governo. I giorni della prigionia di Moro, di cui sono riportate le sue lettere, furono sconvolgenti per tutta l’opinione pubblica e i passi riportati nel testo lo fanno capire molto bene, divisi tra aspetti umani e scelte politiche. Poi la comunicazione del luogo in cui sarebbe stato trovato il cadavere.

“Non si assisterà ad alcuna manifestazione pubblica, ad alcuna cerimonia, ad alcun discorso, alcun lutto nazionale. La famiglia si isolò nel dolore e nel silenzio. Il corpo dello statista verrà tumulato a Torrita Tiberina, in provincia di Roma. Il governo terrà ugualmente un funerale simbolico, celebrato dal Papa, ma senz ala bara. La famiglia non partecipò a quelle esequie, forse per non accettare la vicinanza “morale” di quegli uomini politici che, nel momento del bisogno, avevano lasciato solo il Presidente. Probabilmente, erano ancora ancorati alle logiche non sempre comprensibili del potere, come anche ai “giochi” di partito, pregni di quel machiavellismo politico che lascia molto spazio alla strategia e poco spazio alla carità”.

Adatto ai giovani, agli studenti, a chi c’era in quegli anni, a chi ha vissuto l’ansia dell’attesa, a chi vuole capire. Un libro da non perdere.

 

Alessia Biasiolo