Intervista alla band ExKGB

Due lunghi brani, un sound sempre più definito, la copertina di un noto fumettista, testi impegnati e provocatori, un’etichetta curiosa come “avant punk”: False Hope Corporation è il classico “disco che non ti aspetti”, se non dagli ExKGB. Cosa è cambiato dal debutto di I Putin?

La band è maturata in quanto a stile ed affinità. Nel contempo, grazie ad avventure musicali parallele dei membri del gruppo, altri stimoli creativi che se analizziamo, “distraevano” l’energia ed il messaggio, hanno trovato una più precisa appropriata collocazione. Affrontiamo i singoli elementi dell’opera. In primis le due lunghe tracce audio, che non rimandano alle classiche suite progressive ma a un’idea di larghi spazi cara ai Kyuss di Welcome to Sky Valley. Com’è nata questa idea?

FHC cover

La divisione di False Hope Corporation in due tracce, come se fosse un vinile, è dovuta ad una idea di Ronan Chris Murphy. Noi l’abbiamo sposata con entusiasmo per porci in antitesi alla comune moda del comprare in internet una singola traccia di un disco. False Hope Corporation è composto da 10 canzoni e ognuna di esse si completa con le altre creando un disco speciale che non è un concept album di progressive memoria. Pensiamo che sia veramente un disco di grande impatto e vogliamo fare in modo che l’ascoltatore ne venga sommerso senza interruzioni.

Come sempre gli ExKGB ragionano in termini di 33 giri, di vinile e di un’idea di suono lontana dalle produzioni major contemporanee, e questo accade con ogni uscita Prosdocimi. Il vostro produttore Ronan Chris Murphy, con curriculum straordinario e anni di esperienza, che opinione ha di questo modus operandi?

Lavorare assieme a Ronan al Prosdocimi Recording è stimolante e pensiamo, vedendone i risultati ed ascoltando le sue parole, che lo sia anche per lui. (Mike): Lo stimola probabilmente il fatto che con ExKGB, come nei miei precedenti progetti registrati allo studio, sa di poter lavorare in armonia dando sfogo alla fantasia con musicisti che si rispettano e che mirano alla crescita personale. Queste sono le produzioni che personalmente mi interessano e Ronan, come altri fortunatamente, apprezza che ci siano ancora luoghi e persone dove si dia estrema importanza all’elemento umano e all’interazione costruttiva.

Anni fa i Soft Machine suonavano una moto portata sul palco, a voi è venuta voglia di far suonare un Land Rover Defender… una fonte sonora che si aggiunge ad oggetti che raramente trovano spazio in un disco come damigiane e calieri di rame: voglia di stupire o precisa ricerca?

Con False Hope Corporation abbiamo deciso, sin dall’inizio, di realizzare un album che pur mantenendo un radicamento nelle origini proprie ai musicisti, fosse costantemente alla ricerca di spazi sonori e musicali al di fuori di queste. Così, con i vecchi calieri di rame e le damigiane, il Defender con il “roar” del suo V8 è entrato nel disco. L’intuizione è arrivata durante una pausa cena nel mezzo delle registrazioni: Ronan ascoltando il suono del Defender di Mike ha suggerito che il “ruggito” del suo V8 poteva costituire un vero e proprio assolo. Il mattino seguente, dopo aver sperimentato alcune tecniche di microfonaggio per catturare meglio il glorioso sound, abbiamo registrato l’assolo di Defender che duetta con la chitarra che mima il volo di quegli insetti spaziali che il titolo originario suggeriva. Una sorta di duello tra “Insectoids from outer space” e “Defender” che è notoriamente macchina di esploratori e dell’esercito Inglese. Come anticipato in parte, il titolo originale del pezzo era Insectoids’ invasion from Outer Space che, in omaggio alla parte meccanica del brano strumentale che stavamo terminando è mutato in The Defender.

False Hope Corporation è un disco di impatto ma anche sfuggente, non legato a una precisa area sonora ma figlio di diversi generi. Non è un caso che abbiate usato un ‘tag’ intrigante ma curioso come avant punk…

Nella necessità promozionale di inquadrare il lavoro abbiamo pensato che “avant punk” fosse un termine che poteva coprire l’unicità di questo nuovo lavoro. Vogliamo però invitare tutti ad ascoltare False Hope Coporation nella sua interezza per apprezzarne le sfumature delicate e la sua violenza esplosiva. Dietro a queste due parole si nasconde un articolato universo sonoro, buon ascolto.

Questa volta si ha la sensazione che le ex spie facciano sul serio, soprattutto per le posizioni espresse nei testi. D’altronde il titolo – la “corporazione delle false speranze” – allude a qualcosa di preciso…

Anche se con approcci diversi sia io, Mike, che Emanuele, abbiamo questa vena sognatrice e rivoluzionaria che trova sfogo nei testi delle nostre composizioni. Se con I Putin e le sue rivelazioni erano “ex spie”, con False Hope Coporation gli ExKGB sono estremamente incazzati e intenti a denunciare in maniera forte il marcio ci circonda. Sappiamo di essere scomodi e ci piace, non abbiamo peli sulla lingua e non abbiamo interesse a moderarci; che si aprano le orecchie e che gli impianti stereo suonino forte fino a notte inoltrata!

In linea con il concept c’è anche la copertina firmata da Hurrican Ivan, noto e apprezzato fumettista: com’è nato questo incontro? Quando abbiamo iniziato a pensare alla cover era chiaro da subito il bisogno di una rappresentazione artistica che traducesse per l’occhio quello che l’orecchio sarebbe andato ad ascoltare. Volevamo un’opera d’arte, forte, vivida che prendesse a schiaffi l’occhio del passante dagli scaffali dei negozi di dischi. Ivan è stato fenomenale, il suo lavoro illumina, colpisce.

Siete una delle poche band italiane ad avere un respiro e un approccio internazionali, come ha notato Tony Levin in un recente vostro concerto d’apertura agli StickMen: quali sono i vantaggi e quali i limiti del fare musica in Italia?

La più grande differenza tra l’Italia e gli altri paesi è che qui da noi è molto difficile e dispendioso il lato organizzativo da parte dei locali che propongono musica dal vivo. Si è creato purtroppo un clima di terrore tra i gestori che, anche se propositivi e interessati a promuovere nuova musica, devono far fronte a denuncie di vicini, controlli delle forze dell’ordine e, dispiace dirlo, avventori che non si possono certo definire responsabili. Abbiamo però anche il sentore che queste cose stiano cambiando, l’entusiasmo di certi gestori è forte e soprattutto il pubblico assetato di buona musica qui in Italia, come nel resto del mondo, non manca, e sta chiedendo di essere dissetato il prima possibile. C’è da scavare per creare nuovi pozzi, questo è vero, e di aridità ce n’è molta, ma noi come band siamo pronti a imbracciare il badile.

Il live è il vostro asso nella manica, vista la vostra capacità di unire impatto e complessità, energia e raffinatezza: cosa bolle in pentola nel reparto concerti?

La musica vive solo se ha un interlocutore, non esiste la musica fatta per se stessi, quella in cameretta. Per i primi tempi sono gli tessi musicisti ad assistere alla magia della musica, dopo non molto questa magia ha bisogno di essere rigenerata, ha bisogno di nuovo pubblico. Ora gli ExKGB stanno cercando nuova energia, nuovi interlocutori per far pulsare le idee di False Hope Corporation, quindi tenetevi forte, stiamo per distruggere Corporazioni di False Speranze anche nella vostra città.

Gli ExKGB si formano nel giugno 2009 per volontà di tre musicisti provenienti da diverse esperienze: Alberto Stocco (Batteria – Percussioni), Emanuele Cirani (Chapman Stick – Basso – Voce), Mike 3rd (Chitarra – Voce e Cori). L’avant punk degli ExKGB è un singolare mix di Funk, post punk, Groovy e art rock ed è caratterizzato dalla personalità timbrica del Chapman Stick, portato alla notorietà da Tony Levin (celebre bassista di John Lennon, Pink Floyd, Peter Gabriel, King Crimson etc.). Lo stesso Levin in più occasioni ha suonato con la band e con il chitarrista Mike 3rd, apprezzandone l’energia e l’originalità. Un’altra collaborazione significativa per il trio veneto è quella con Ronan Chris Murphy: il popolare produttore di Los Angeles (ha lavorato per King Crimson, Steve Morse, Terry Bozzio, Steve Stevens, Ulver, The California Guitar Trio, Chucho Valdes etc.) è una sorta di quarto elemento visto il suo lavoro per il primo singolo Dangerous Toys, per il disco d’esordio I Putìn e anche per il secondo, attesissimo album False Hope Corporation. Dopo il successo di pubblico e critica di I Putìn, accolto da lusinghieri apprezzamenti della stampa (Mucchio, XL, Rockerilla, Ondarock, L’isola della musica italiana etc.) e da un fortunato tour in giro per l’Italia, gli ExKGB tornano con il secondo album. False Hope Corporation presenta il trio in splendida forma, complice la fitta stagione live alle spalle e la forza delle idee: il drumming solido e diretto di Stocco, l’unicità dello Stick di Cirani, i suoni analogici e i riff di Mike 3rd, tutto contribuisce alla peculiarità di questo inossidabile avant punk. I lavori degli ExKGB sono tutti registrati in pieno regime analogico ai Prosdocimi Recording Studio (Carmignano di Brenta – PD) e pubblicati dalla Prosdocimi Records con distribuzione mondiale Ma.Ra.Cash. Records. ExKGB personnel Alberto Stocco: Batteria – Percussioni Emanuele Cirani: Chapman Stick – Basso e Voce Mike 3rd: Chitarra e Cori

Donato Zoppo

Vásáry, musica e scuola

Tamás Vásáry, artista completo e grande direttore incontrato a Budapest, racconta con semplicità, in un italiano quasi perfetto, le esperienze che l’hanno condotto dal pianoforte ad un successo significativo in molti paesi fra cui l’Italia, dove è stimato sia come pianista che come direttore.

Lei si sente più solista o direttore? E la musica ha sempre fatto parte della sua vita?

A cinque anni ho ascoltato alla radio il famoso minuetto di Boccherini. Avevamo un pianoforte, ho provato a suonarlo, dopo averlo ascoltato due o tre volte alla radio, davanti alla professoressa di mia sorella. La professoressa mi domandò: “Sai leggere la musica?” Ho risposto di no. Così lei iniziò a darmi lezioni.

A otto anni ho tenuto il mio primo concerto in conservatorio in cui, fra l’altro, veniva eseguita anche la serenata KV 525 Eine Kleine Nachtmusik. Così ho incontrato l’orchestra ed ho deciso di diventare anche un direttore. Ma in Ungheria fare il direttore d’orchestra era molto difficile perché esistevano soltanto due orchestre.

Ma cosa è accaduto nella sua vita poco prima della rivolta ungherese che le ha consentito di proseguire nella sua attività?

Studiavo pianoforte e quando ci fu la rivoluzione in Ungheria mio padre era un politico avverso ai comunisti. Venne messo in prigione dopo la rivoluzione. In quel periodo vinsi il concorso internazionale regina Elisabetta e in seguito fui invitato per un concerto con la Wiener Symphoniker Orchestra e così lasciai il mio paese grazie a un passaporto ufficiale perché invitato in Belgio. Proprio la regina fece in modo che mio padre e mia madre venissero liberati, così i miei cari lasciarono l’Ungheria in due giorni.

Quindi l’arte musicale in quel momento ha acquistato anche un potere politico?

Assolutamente sì! Quel periodo fu molto duro e difficile, dal momento che, al di fuori del mio paese, ero conosciuto solo in Belgio. Io e la mia famiglia vivevamo in esilio. Un giorno la Deutsche Gramomphon mi offrì un’incisione che ebbe un grandissimo successo specialmente in Inghilterra. In seguito ho continuato a incidere per la stessa casa e nel 1960-61 ho debuttato a Londra al Royal Festival Hall con la Royal Philarmonic Orchestra interpretando il primo concerto di Chaicovski e quello di Listz.

Che differenza ha notato fra le orchestre ungheresi e quelle del resto d’Europa?

La differenza riguardava soprattutto la qualità degli strumenti.. Mentre gli archi erano migliori in Ungheria, i fiati lo erano in Inghilterra e in America.

Quali sono stati i più grandi direttori con cui ha svolto il suo percorso pianistico?

Ferenc Fricsay, Ernest Ansermet, Georg Solti, Antal Dorati, Claudio Abado, André Cluytens, Rudolf Kempff, grandissimo direttore. Dal 1961 in poi ho iniziato a dare circa 100-120 concerti l’anno. Ma volevo dirigere. E nel 1969 ho diretto per la prima volta la Lizt Ferenc Orchestra di Budapest al festival di Mantova. Successivamente ho iniziato a dirigere tutte le più grandi orchestre del mondo. Ne ho dirette circa 120.

A proposito, qual è stata l’orchestra che maggiormente l’ha impressionata?

Difficile dirlo, ma ho trovato una bella orchestra a Torino. Un giorno sono arrivato per provare con il quintetto d’archi per una prova d’assieme. Il primo violoncello e il primo contrabbasso hanno suonato con me le parti orchestrali e guardando le partiture conoscevamo bene la musica prima della prima prova. Tutte le prove sono andate bene, per me è stata un’idea fantastica!

Quando riesce a comprendere fino in fondo la partitura?

Quando preparo una partitura preferisco fare passeggiate in un bosco e camminando riesco a capire l’analisi formale e armonica. Cosa che raccomanderei a tutti i direttori. Se ho interiorizzato la partitura posso controllare meglio tutti i musicisti. Ci sono due tipi di direttori: uno che ha la testa nella partitura e l’altro che ha la partitura nella testa.

Ha un aneddoto simpatico accaduto con gli orchestrali?

Una volta dovevo dirigere la filarmonica di Berlino, quando Karajan per un incidente non aveva potuto continuare la sua incisione con questa orchestra, perché ammalato e mi ha chiesto di preparare l’incisione di due concerti mozartiani da un giorno all’altro. Ero sicuro della parte orchestrale. La casa discografica Deutsche Grammophon mi ha chiesto di preparare  l’Incoronazione di Mozart che avevo eseguito solo una volta e quindi non ero tanto sicuro della parte del pianoforte. osì abbiamo inciso questo concerto a Berlino, l’orchestra era molto simpatica, gentile, entusiasta.

Il giorno successivo abbiamo iniziato ad incidere la stessa opera e intanto mi chiedevo: “Come suonerò il pianoforte?” Nel corso dell’incisione l’orchestra si comportava in modo, mi prendevano in giro per come parlavo, facevano della satira ed ho capito che non c’era l’intesa come il giorno precedente. Ho così domandato a mia moglie: “Forse c’è un intrigo contro di me” E mia moglie mi ha detto “Chi è differente sei tu”. Io ho risposto che l’unica cosa differente era che avevo paura del pianoforte. E mia moglie mi ha detto: “Non pensare più a questo: è più importante avere un buon contatto con l’orchestra, dimenticati dei problemi con il pianoforte, prova a suonare tranquillamente”. Così ho continuato senza concentrarmi e senza avere paura del pianoforte; era importante che l’orchestra fosse contenta della mia direzione. Entrati in scena ho potuto verificare la sensibilità di un’orchestra come i Berliner. Difatti l’orchestra percepisce anche il solo pensiero del direttore ed agisce di conseguenza. Questo è stato un grande insegnamento per me nella mia vita.

Com’è la vita musicale in Ungheria oggi?

Come sempre molto intensa. A Budapest, che è una piccola capitale, non paragonabile ad altre grandi come Londra, Roma o New York, ci sono cinque grandi orchestre sinfoniche, quella della Radio, da me diretta, dello Stato (oggi Filarmonica Nazionale), del Festival, dell’Opera e infine quella di Matav, sponsorizzata dalla compagnia telefonica.

Purtroppo lo Stato aiuta molto meno la nostra orchestra rispetto all’orchestra nazionale, perché il Ministero della Cultura ha un budget per sostenere tutte le istituzioni che portano il nome “nazionale”. Questi musicisti vengono retribuiti con un salario quattro volte superiore al nostro ed ho deciso che l’anno prossimo offrirò una donazione per il mio ensemble.

So che spesso viene in Italia: come sono state le sue esperienze?

Ho avuto molti contatti con l’orchestra da camera di Santa Cecilia ed anche con quella della Radio di Torino. Per la RAI ho inciso in video con Uto Ughi tutte le sonate di Beethoven per violino e pianoforte ed è stata una cosa molto bella.

Bruno Bertucci

 

 

Cibo per i giovani. Il nuovo libro di Rosetta Loy

Il bel libro di Rosetta Loy, che ho letto come un romanzo – avvincente e terribile allo stesso tempo, dato che non potevo viverlo come un noir di quelli che leggo spesso – e anche come un saggio, ma anche come un testo di scuola, o un approfondimento universitario, tanto l’ho sottolineato e meditato, non poteva restare privo di una voce.

Ho avuto, così, la fortuna di poter intervistare l’autrice e di sentire, oltre che i respiri dietro ogni singola parola che ha scritto nel suo “Gli anni fra cane e lupo” (chiarelettere, Milano, 2013), la sua calda e profonda voce che parlava della sua creatura.

Senza svolazzi, rispondendo ad una lettrice curiosa e attenta, perché affascinata da quella storia narrata, ambientata tra il 1969 e il 1994. Mi sono ritrovata nella voce di Rosetta perché mi ha detto “Ho capito quello che è successo scrivendolo”. Forse è per quello che gli anni chiamati di piombo mi interessano tanto, ora che posso capire. Che voglio capire.

Perché il tempo del vissuto, mentre si vive la Storia, non lo puoi vedere tutto, non certo con occhi bambini. E così, ero una persona come tante, presa dalla sua vita, incapace – anche per ragioni anagrafiche – di dare un senso a quell’ansia, quel senso di vuoto e di impotenza, che aleggiava dappertutto, che rendeva gli adulti seri, preoccupati, indifferenti, soprattutto incerti sull’avvenire.

Oggi si può leggere di quel periodo. E Rosetta Loy ne ha scritto in modo pacato e documentato da cronachista, cercando di non cadere nella tentazione di fare proprio la scrittrice, anche se la sua straordinaria penna sbuca qua e là, e non soltanto nei ricordi privati. Le pennellate di vita e di interpretazione del reale non la tradiscono e arricchiscono il testo di luce. Del suo ottimismo.

Veniamo allora all’intervista.

“Signora Loy, ha provato disagio nello scrivere di quei fatti di cronaca italiana che vanno dalla strage di Piazza Fontana, a Milano, nel 1969, transitando per uno spaventoso numero di morti fino al 1994?”.

“Quando ho deciso di scrivere questo libro non avevo idea di come mi sarei inoltrata nella storia, è stato come un viaggio per me. Non sono partita con un’idea precisa, se non quella di scriverlo. Mi sono lasciata guidare dai fatti. Il disagio veniva dagli episodi di vita personali che avrebbero dovuto essere più di quelli riportati nel testo; ma mi sembravano insignificanti gli episodi della mia vita, dinanzi a quello che mi trovavo a dover raccontare, riscoprendolo e scoprendolo proprio mentre lo scrivevo”.

“Conosceva le persone coinvolte nei fatti di sangue di quegli anni, delle vittime, ad esempio?”.

“Sì, una, l’architetto Sergio Lenci”.

“Pensa di continuare a scriverne, ora che siamo in quelli che vengono considerati gli anni storici adatti per rivisitare quanto accaduto?”.

“No, non ho intenzione di continuare a scriverne. È stato bello, soddisfacente, ma anche stancante. È bello capire, ma stanca”.

“Ritiene che siano davvero i tempi adatti per leggere di quanto accaduto, seguendo ricostruzioni storiche? Siamo abbastanza maturi nell’Italia di oggi per prendere coscienza di quegli anni terribili?”.

“Penso di sì, che sia il momento giusto. Abbiamo molte possibilità, oggi, per capire. Molte più di un tempo. Molti più modi, volendo, per documentarci. Siamo anche più capaci di capire di quanto non lo fossimo decenni fa: molto più istruiti, molto più perspicaci, ma anche viziati dal tipo di informazione alla quale siamo abituati. Da quanto ci vuole essere comunicato. Ma se vogliamo, possiamo informarci, oggi è più facile. Ciò che è importante, e che più conta, è la curiosità. La voglia di sapere. Bisogna suscitare la curiosità della gente, affinché cerchi l’informazione di cui ha bisogno per capire”.

“Secondo lei ci sono ancora strategie in atto, da parte di qualche forma di potere “occulto”, tipo quelli dei decenni scorsi (P2, Gladio, servizi deviati…), per non farci conoscere la verità?”.

“Secondo me, c’è una strategia per non farci sapere, in altre forme ma simile a quella di un tempo, tuttavia non si è rivelata una strategia vincente. Questo è un grande momento. Vedo che questa nuovissima generazione, quella dei ventenni/trentenni, è molto attenta, perché ha paura del futuro che le abbiamo preparato. Spesso vuole sapere e vuole conoscere. La gioventù attuale è meno ideologica, mentre la generazione precedente ha avuto come ideologia il successo e quella prima ancora era stata devastata dall’ideologia che fosse lecito ogni atto terroristico per raggiungere il traguardo”.

“Come vede il mondo, allora?”.

“Anche se non sembra a leggermi, io in fondo sono un’ottimista. Vorrei essere uno stimolo per i giovani proprio a capire di più quello che li circonda, la situazione che vivono”.

“L’ha scritto per loro il suo ultimo libro?”.

“Sì, assolutamente, vorrei che lo leggessero. Per loro ho cercato di scrivere i fatti senza aggiungere le digressioni tipiche di una scrittura più letteraria”.

“E che per fortuna si riconoscono, tra un capitolo e l’altro, le sue digressioni. Questo ha arricchito molto il suo libro, senza, convengo, distogliere dalla lettura della storia degli anni italiani sviluppatasi in un quarto di secolo. Come ha condotto la sua ricerca?”.

“Mi sono lasciata condurre dagli eventi, cercando legami tra le pagine di cronaca, nei libri consultati”.

“Non ha pensato che avrebbe dato fastidio a qualcuno il suo modo di riannodare i fatti?”.

“Non me ne sono preoccupata, non ho scritto pensando a cosa avrebbero pensato gli altri. Mi sono attenuta ai fatti il più rigorosamente possibile, senza volere scrivere un libro ‘politicamente corretto’. Mi sento molto libera, non condizionata da nulla. Gli intellettuali devono credere in quello che fanno. Può sembrare un’utopia, e allora crediamo nell’utopia. Senza credere in questo l’umanità non avrebbe futuro”.

“Si dice che per andare avanti l’umanità deve anche basarsi su una buona dose di oblio, senza la quale non potremmo procedere, stramazzati sotto le responsabilità che nascono dal ricordo di quanto già avvenuto. È d’accordo?”.

“No, affatto. Il ricordo è doveroso. Non bisogna fossilizzarsi nel ricordo, rendendolo sterile, questo sì, ma si deve ricordare. E appunto capire”.

“Lei, scrivendo queste preziose pagine, ha avuto dei ricordi dolorosi?”.

“Alcuni sì, pensando ad amici che tornavano vivi nel ricordo”.

“E ci sono stati dei ricordi piacevoli, invece, relativi a qualcosa che pensava di avere dimenticato?”.

“Qualcuno sì, ad esempio il viaggio a Praga che è ancora vivo nella memoria”.

“Alcune persone, anche vittime del terrorismo, dirette o indirette, nel tempo hanno lamentato il fatto che troppo spesso sia stato dato molto più spazio ai terroristi che alla loro voce. Cosa ne pensa?”.

“Penso sia vero, soprattutto perché il negativo fa più notizia, fa più audience. Ci si lascia guidare da questo molto spesso. Penso invece a persone che fanno strada senza show, come il figlio del giudice Ambrosoli, degno figlio di suo padre: si è presentato in politica senza usare il suo passato, quasi in punta di piedi”.

“Quanta paura aveva negli anni di piombo?”.

“Nessuna. Ho capito pochissimo, allora, di quanto stava accadendo. Ero molto presa, come scrivo anche nel libro, dai miei figli adolescenti, dal lavoro, avevo molto da fare. Forse per questo avevo poco tempo per soffermarmi su quanto stava accadendo. O forse non si riesce ad avere una visione vera e propria di ciò che accade mentre accade. Questo l’ho capito scrivendolo, anche perché avevo modo di avere tutta la storia davanti. Anche se certi episodi sono indelebili nella mia mente: la strage di Bologna, ad esempio, quando vidi cos’era successo direttamente sul posto”.

“In che mani siamo, oggi? Si parla tanto di polizia che deve avere un volto più vicino alla gente…”.

“Penso che ci sia ancora molto pericolo. Il giudice Di Matteo è in pericolo e molti uomini difendono i giudici con il volto coperto, per non farsi riconoscere. Segno evidente che c’è ancora pericolo e paura. Credo non ci sia altro Paese in Europa dove i poliziotti devono andare in giro a volto coperto mentre proteggono un magistrato, per non farsi riconoscere.

Siamo in mano a dei veri eroi ai quali sono molto grata. E vorrei esprimere loro tutta la mia riconoscenza per quello che fanno. È una parte dello Stato che combatte la criminalità organizzata, una criminalità che si è ben insediata in tutto il nostro Paese, anche profondamente nel Nord. Molti magistrati sono davvero degli eroi. Per fortuna esistono”.

Alessia Biasiolo

 

Intervista ai Roccaforte

Abbiamo definito il vostro nuovo album Sintesi come una “antologia di inediti”: com’è nata l’idea di riprendere dodici pezzi dei Roccaforte e rivisitarli?

L’idea è nata in collaborazione con l’etichetta discografica Keep Hold di Andrea Fresu. Si trattava di iniziare un nuovo percorso musicale cercando di arrangiare alcuni brani visti da un’ottica esterna ai Roccaforte. Sintesi è nato con un taglio più pop-rock/radiofonico rispetto alla nostra linea rock ma a fine lavoro abbiamo dovuto ammettere che tutti i pezzi scelti risultano più scorrevoli all’ascolto e soprattutto con una struttura dinamica che rende ogni parte del brano diversa con piccoli arrangiamenti. Questo lavoro ha aperto nuovi orizzonti sulla stesura di una canzone e, nonostante non seguiamo delle regole precise quando scriviamo i testi, ci ha fatto capire l’importanza di mettere in evidenza un ritornello piuttosto che un bridge o una strofa.

È interessante anche l’idea di “work in progress” che avete voluto comunicare, affidando a tre Ep il lavoro preparatorio verso Sintesi.

Durante tutto il periodo di registrazione, durato 14 mesi, abbiamo fatto uscire tre EP che hanno avuto un’importanza fondamentale: raccontare la storia dei Roccaforte. ORIGINE rappresenta l’inizio di tutto. Il colore bianco della copertina è simbolo di purezza, nascita e rinascita. Rinascita perché siamo entrati in studio dopo un mese dall’ultimo cambio di line-up alla batteria. METAMORFOSI rappresenta, come il viola della copertina, la trasformazione veloce che dall’inizio ha modificato il nostro sound, il nostro modo di scrivere e di suonare. Tutto questo grazie anche alle persone che precedentemente hanno suonato e collaborato con noi. EVOLUZIONE, rappresentato dal colore giallo in copertina, è un po’ quello che vorremmo raggiungere dopo un lungo percorso iniziato tanti anni fa con un’impronta tendenzialmente pop e che si è evoluto nel tempo, crescendo e maturando, verso una venatura più progressive rock. SINTESI rappresenta la confezione finale di questo percorso e la copertina mostra una mano piena di lettere che, nel suo gesto (immaginate di parlare con qualcuno e di rappresentare “in sintesi” con un movimento), scivolano come sabbia fra le dita realizzando i tre EP e quindi la nostra storia.

Con quale criterio avete selezionato i pezzi da destinare a Sintesi?

Il criterio è stato molto semplice. Abbiamo selezionato i brani che più ci rappresentano soprattutto per il discorso fatto prima. Alcuni di essi, tipo Vetrine e Giubbotto in pelle nera, sono stati scritti circa 16 anni fa. Altri, come 20mq di libertà, ci hanno regalato premi importanti a livello Nazionale. L’unica canzone inedita è Avatar che ha una storia molto particolare. Non è stata scritta da noi ma da un carissimo amico / fan  che ha voluto raccontare, in parole, una sua tragedia e noi l’abbiamo trasformata in musica.

Che tipo di rivisitazione avete voluto realizzare confrontandovi con brani chiave della vostra carriera?

Sembrerà strano ma spesso, durante i concerti, i brani datati sono quelli che rimangono più impressi nelle persone che ci ascoltano per la prima volta. Questo ci fa confrontare fra noi ma, pur essendo consapevoli che suoni e struttura sono tipici anni 90, vogliamo mantenerli tali e in live non li suoniamo con gli arrangiamenti del CD proprio per questo motivo. Ma si sa, in live, tutto è permesso.

Roccaforte è principalmente una live band, che da anni macina concerti su concerti: qual è la differenza tra i Roccaforte in studio e dal vivo?

In studio si può fare di tutto. Incisioni, sovraincisioni, cori, correzioni, ecc. Nei live no. Non facciamo uso di basi o sequenze. Suoniamo quattro strumenti e una voce e vogliamo rimanere cosi. Il live esprime ciò che veramente è una band con la sua potenza, con il suo groove e anche con i suoi errori. Oggi non sbaglia più nessuno. L’esperienza dei palchi ci ha insegnato come correggere gli errori in tempo e non fermarsi mai e spesso dalla parte di chi ci ascolta non si accorge di alcune imperfezioni. Il live ti regala il contatto umano e quando osserviamo persone che cantano i nostri brani non c’è prezzo o soldo che compensi l’emozione e la soddisfazione di ciò che si è fatto.

Se dal vivo emerge il vostro animo più rock, in studio si nota l’insieme di influenze: pop, progressive, funk etc. Qual è il segreto per far convivere pacificamente questi elementi?

Non c’è segreto. Una critica che ci viene fatta è che la nostra musica non è collocabile in un genere ben definito. Ma è quello che vogliamo. Infatti ci definiamo eclettici. Cosa vuol dire? Ognuno di noi arriva da esperienze e gusti musicali diversi e abbiamo voluto mantenere queste caratteristiche. Il difficile è stato nel miscelare questi ingredienti e fonderli insieme armonizzandoli in una nuova sintesi. Il fatto che non possiamo essere definiti vuol dire che il nostro lavoro è riuscito con successo.

Dal disco si nota anche una pluralità di tematiche, ancora più chiare poiché espresse in italiano: quali sono gli argomenti che stanno più a cuore ai Roccaforte?

La maggior parte delle nostre canzoni raccontano storie di vita e tematiche sociali. Bambino è un brano molto crudo e racconta la storia di bambini abbandonati. Successe una sera, di alcuni anni fa, in cui un bimbo appena nato venne abbandonato in un cassonetto adiacente alla nostra vecchia sala prove. Africa è un classico racconto di viaggio che abbiamo fatto in Tanzania e in Kenya. Tempo di scappare, nonostante possa ingannare, parla del tempo che scappa via, si prende gioco di te e non lo riprendi più. Non scriviamo d’amore, anche se i Roccaforte all’origine hanno toccato questa tematica, non perché sia un argomento sottovalutato o altro ma per il semplice fatto che non ne siamo capaci.

Sintesi è anche un momento di riflessione sulla vostra storia, partita nel 1993, esattamente 20 anni fa: sulla base di questa lunga esperienza, che tipo di consigli vi sentite di dare a giovani gruppi indipendenti?

Dare dei consigli vuol dire porsi a livelli e piani diversi. Ci riteniamo persone semplici e umili quindi l’unica cosa che possiamo dire è: se fate musica tanto per fare è un conto ma se come principale ingrediente c’è la passione allora lottate con tutte le forze fino in fondo affinché il vostro progetto non venga distrutto e sepolto. Inoltre bisogna essere consapevoli dei propri limiti e cercare di non oltrepassarli.

Ovviamente Sintesi è anche un disco di ripartenza: oltre ai nuovi concerti, quali saranno le prossime tappe dei Roccaforte?

Carne sul fuoco ce n’è molta. Abbiamo appena terminato, su commissione, un Inno Ufficiale delle squadre femminili di pallavolo di Alessandria. Stiamo lavorando su brani nuovi perché l’idea è quella di rientrare in studio di registrazione entro la fine del 2014 per un nuovo album di inediti con una venuta molto prog. Tutto ciò lo vorremmo fare dando sempre importanza ai live perché il palco è un po’ come una droga … quando non lo si frequenta si rischia una crisi di astinenza.

 Intervista di Donato Zoppo

 

Intervista allo scrittore Giampaolo Rol

D: Giampaolo Rol, si considera un avvocato prestato alla scrittura, o uno scrittore avvocato?

Nel mio caso la professione di avvocato e il diletto dello scrittore sono due amanti: hanno bisogno l’una dell’altro, anche se a volte litigano. La professione di avvocato non è certo semplice, e la fantasia che metto in quel che narro costituisce il mio “buen retiro” dalle esperienze professionali. Spesso si dice degli scrittori che questi vivono due vite: una è quella reale, l’altra è quella della storia che stanno scrivendo. Anche per me è così: mi ritengo privilegiato nel poter frequentare un mondo parallelo a quello reale, dove il mio sherpa personale è la fantasia che mi concede totale libertà sui miei personaggi, sulle loro azioni e pensieri, sulla loro vita o sulla loro morte, e che mi fornisce il respiro necessario per la vita di tutti i giorni.

D: Un lavoro considerato difficile, quello di avvocato, in questi ultimi anni, cosa ne pensa? Qual è lo stato del sistema giustizia italiano?

Il mio primo istinto di risposta sarebbe un “no comment”, dove il “no comment” starebbe a significare un’opinione molto negativa, soprattutto per quanto riguarda la riorganizzazione della geografia giudiziaria.

D: I saggi affermano che soltanto chi ha vissuto molto può narrare con cognizione di causa, e soprattutto, continuare a produrre lavori interessanti. Rol come si considera sotto questo aspetto?

Io ripeto sempre che “la sofferenza è il calamaio dello scrittore”. Ma a mio modo di vedere è possibile discernere sofferenza e/o eventi che la provocano ad ogni angolo di strada frequentata quotidianamente, sofferenza che non è solo esclusiva dei grandi traumi della vita che ognuno di noi conosce anche troppo bene. Cose che ad alcuni pongono riflessioni severe, e che altri ripongono nel cassetto del “non mi riguarda”, o del “non ci posso fare niente”.

D: L’opera prima è un’eccellente esempio di legal thriller ambientato negli Stati Uniti. Che esperienza ha vissuto negli USA?

In una intervista rilasciata per un’emittente locale pinerolose, ribadivo il concetto che per quanto riguarda New York City: la sensazione è quella del “It feels like home”, che ti fa sentire a casa. Strano a dirsi, ma ho provato questa sensazione anch’io, nonostante mi trovassi nel bel mezzo del formicaio umano di una metropoli. Ma ho anche percepito il limite dell’impersonalità che una massa di persone così smisurata ti lascia addosso, e dell’esigenza di andare oltre ai limiti di un’omologazione pressoché totale degli individui che la popolano, esigenza che ho cercato di sviluppare nel secondo romanzo “Come una rondine, come una quercia”.

D: Caratteristica di pregio di Giampaolo Rol è sapere scrivere generi differenti con la stessa eleganza e una buona leggiadria di stile. È una scelta cambiare soggetto, una strategia di vendita o una necessità profonda?

Penso che cambiare genere possa risultare controproducente ad uno scrittore, posto che il lettore spesso si “fidelizza” al genere che ha fatto conoscere lo scrittore stesso. Per quanto mi riguarda non è assolutamente una strategia di vendita, in quanto la mia prima esigenza è divertirmi a scrivere. Se non mi divertissi a scrivere storie credo che potrei imbattermi nel classico ostacolo della “pagina bianca”, quando il trattino del computer lampeggia sullo sfondo bianco e le parole non arrivano, solo perché dovrei scrivere una storia che possa compiacere il lettore su un genere di maggior vendita piuttosto di un altro. Spesso a chi me lo chiede rispondo che sono le storie a scegliere me, e non il contrario… e le parole vengono da sole.

D: Qual è, secondo lei, lo stato della produzione letteraria italiana?

Penso che la produzione letteraria italiana sia sempre stata molto buona, ma la riflessione deve svoltare in un’altra direzione, poiché su questa interviene un collo di bottiglia che ancora oggi non sembra evitabile, vale a dire le case editrici tradizionali che producono in cartaceo, e che probabilmente negano il passo a scrittori molto più bravi di me. Penso alla mia esperienza diretta con queste ultime e alle loro richieste assurde. Naturalmente non posso fare nomi, ma mi è successo di ascoltare risposte del tipo “Il suo romanzo? Può inviarci il primo e l’ultimo capitolo, e lo valuteremo…” oppure “Il suo romanzo è interessante, ce ne tolga settanta, ottanta pagine, perché così sono troppo lunghe e costose produzione e distribuzione, poi ne riparliamo…”. Ecco, queste sono le case editrici tradizionali, che si dipingono come le dispensatrici di letteratura ma che poi, non si sa come, sono pronte a pubblicare le vicende amorose del tal bellimbusto e o dell’ultima showgirl, dove, naturalmente per mia colpa o mio limite, non riesco proprio a trovare sostanza letteraria. Purtroppo i lettori acquistano ciò che vedono reclamizzato, e forse a volte non vanno oltre le operazioni di marketing. Per questi motivi ho svoltato verso l’e-book, con prezzi per opera decisamente irrisori rispetto al cartaceo, e alcuni lettori mi hanno anche scritto per farmi i complimenti. Ecco, per me va bene così, anche perché per me scrivere è un’esigenza alla quale non rinuncio, lo farei anche se non ottenessi alcun tipo di riscontro. Bisogna anche ammettere che in Italia esistono più scrittori che formiche e non è sempre facile individuare il tipo di opera che possa cucirsi perfettamente addosso al lettore.

D: Tornando alla produzione personale, sono molte le persone che vengono ringraziate alla fine del testo scritto. Ad esempio in “Come una rondine, come una quercia”. Gli amici per lei sono importanti…

Gli amici sono importantissimi, anche se con l’andare del tempo si affina la selezione delle persone che possono veramente “darti qualcosa”, nel senso naturalmente meno venale dell’espressione.

D: Ho trovato interessante, sempre in “Come una rondine, come una quercia” la citazione di molte filosofie lontane dalla nostra. Ci spiega il perché di quella scelta?

Reputo l’apertura della mente in ogni direzione come condizione indispensabile della condizione umana. Io sono cristiano cattolico apostolico romano, ma tutto questo non mi impedisce di riconoscere la bellezza assoluta di alcune pagine del Corano o di vari passaggi del Buddhismo e così via. Non riesco a comprendere l’ingabbiatura che l’essere umano costruisce della propria conoscenza per poi rimanerne schiavo, privandosi di possibilità che potrebbero contribuire in altissima percentuale sulla cifra intellettuale del singolo. Sono sempre affascinato quando la sicurezza di alcune mie convinzioni vengono poste in dubbio da un’interpretazione diversa, altrettanto concreta e credibile, figlia di un punto d’osservazione completamente diverso, diametralmente opposto. E che innesca dentro di me la magia del dubbio, il dubbio che costituisce la vera forza motrice della ricerca, di quella ricerca che pone domande e ne costruisce altre, in un cammino che raramente vede la fine, pur sapendo che è quello stesso cammino il valore aggiunto, non necessariamente arrivare ad una soluzione, che potrebbe essere valida ma solo a livello soggettivo.

Sono comunque lusingato della domanda, poiché buona parte dei racconti attribuibili a filosofie lontane sono in realtà frutto della mia fantasia, e l’accostamento non può che farmi piacere.

D: Sia nell’opera prima “Il mercante di destini” che in “Come una rondine, come una quercia” la voce narrante fondamentale è di una donna. Perché immedesimarsi in un mondo diverso da quello proprio?

L’alchimia che s’innesca tra un romanzo e il lettore è sempre unica ed irripetibile, e forse in questo caso a livello subconscio si sviluppa una certa empatia con alcuni dei personaggi che sconfina anche nei confronti della voce narrante. Sicuramente nel caso de “Come una rondine, come una quercia” la voce narrante è quella di Vivian, che guida le due gemelle Asha e Gloria sullo sfondo dell’intera vicenda. Alcune considerazioni e sottolineature della voce narrante ne “Il mercante di destini”, erano volutamente più sottili ed emotive, indispensabili per guidare il lettore nel complesso intreccio di vicende. Probabilmente, e fortunatamente, sono state colte dalle persone più sensibili, prerogativa sicuramente attribuibile ad un pubblico femminile. 

D: Adesso Rol si sta dedicando ad una storia affascinante ambientata nel 1129. Perché?

Non lontano dalla mia città, è situata una costruzione di matrice cristiana, ma che denota contaminazioni e caratteristiche ben lontane dai canoni del cattolicesimo, lasciando adito a domande succulente che alimentano la mia curiosità letteraria. Domande che partoriscono risposte che rimbalzano ad altre domande, come piace a me. Il risultato è quello della ricerca, ed ovunque mi porti, come sempre mi avrà arricchito. Anche in questo caso il registro del romanzo è completamente diverso dai primi due, e allo stesso modo rinnova il mio divertimento nel cercare risposte a domande così complesse. Risposte che avranno soltanto valenza di riscontro romanzato, non possiedo certo il dono della scienza infusa…

In realtà anche un’altra storia mi ha trovato: quella di un pescatore dal profilo psicologico semplice semplice, modo di esprimersi elementare, ma con una ricchezza interiore notevole, che dovrà scontrarsi con un mondo che non gli appartiene per tentare di risolvere un problema che gli sta molto a cuore, con tutte le complicazioni che il suo modo semplice d’intendere la vita gli comporteranno.

D: Quanto dedica alla ricerca al fine di scrivere le sue storie?

Per cercare di fornire una risposta grettamente matematica e che riguarda il mio lavoro, la ricerca sta alla storia in un rapporto che potrei ragionevolmente soppesare in un 90 a 10, sia che la ricerca sia volta a reperire i dettagli necessari al suo confezionamento nel mondo reale, sia che la ricerca sia volta all’interno di me stesso.

D: Quale formazione si sente di suggerire a dei genitori per far sì che i figli amino il mondo letterario, entrino da protagonisti nelle storia narrata attraverso la lettura e diventino i nuovi lettori?

Pur non avendo il merito d’essere genitore, e senza ripercorrere l’utilità di distogliere i propri figli dal ruolo passivo di uno schermo di computer o di un televisore,  penso che un bimbo debba essere stimolato in modo che con il tempo la sua sete di lettura e di giochi nei quali sia lui stesso il protagonista attivo e non passivo delle proprie attività ludiche diventi naturale, e che evolva con l’esigenza di conoscere prima, e magari di creare poi. La creatività di un piccolo potrebbe sfociare non solo nei pregi di un lettore, ma di un autore stesso, o di uno straordinario  artista di mosaici o vetrate multicolori, nelle visioni di un architetto o di una nuova tecnica di pittura o di disegno. Leggere molto significa rendere fertile il campo dell’arte che potrebbe fiorire nell’animo di ogni bambino e portare frutti di cui potrebbero godere tutti quanti nei campi più diversi, e non solo frequentatori di mondi letterari. Il tutto sotto lo sguardo vigile dei genitori pronti ad assecondare e coltivare le sue capacità innate, senza costringerli per forza a giocare solo a calcio… 

D: Quanto ha letto Giampaolo Rol da bambino?

Tantissimo, dalle fiabe per i più piccini prima, traghettato da Kipling poi, per   percorrere in seguito le rotte più varie degli scrittori più noti e meno noti.

D: E quanto legge oggi?

Ancora oggi mi diverto a leggere tutto quello che posso, spesso consigliato da amici, ma che rigorosamente non si trovi nelle classifiche dei giornali. E vi assicuro che raramente mi pento.

D: Secondo lei, che spazio c’è per la cultura letteraria occidentale?

Torno a dire che non bisogna aver troppa fretta nel giudicare quale produzione letteraria sia migliore o peggiore, o di quale collocazione geografica sia figlia. Il genio dello scrittore deve fare i conti con il gusto del lettore. Credo sempre che un romanzo sia come un vestito: non è detto che il miglior Armani possa piacere a tutti. Alle volte i lettori trovano a loro confacenti un paio di jeans senza griffe particolari, ma che gli calzano a pennello perché nonostante tutto sono confezionati con pregio e cura.

D: Hanno ancora un ruolo attuale le fiere e le manifestazioni in favore del libro e della lettura?

Se fiere e manifestazioni hanno come scopo il marketing dei soliti noti assolutamente no. Se invece case editrici cartacee e digitali si distinguono per aver scoperto talenti nuovi, certo che sì, e tutto a vantaggio della credibilità di queste.

D: Cambia il tipo di scrittore nell’era dell’e-book o no?

Il tipo di scrittore a mio avviso non cambia certo con l’avvento dell’e-book, ma cambia certamente il tipo di lettore. Osservazioni più comuni contro gli e-book? Il profumo della carta, la magia della carta, il contatto della carta…

Dall’altra parte si può controbattere che gli stessi soggetti non sembrano sottolineare gli stessi pregi quando si parla, che so, di e-mail. In questo caso le e-mail sono comode, immediate, veloci, digitali, gratis. Gli stessi pregi che potrebbero avere gli e-book, con costi notevolmente inferiori ai libri cartacei. Improvvisamente la lettera di carta, scritta a mano o al computer, imbustata, francobollata e con tanto di tragitto alle poste perde ogni attrattiva. A volte quindi mi sembra solo di trovarmi davanti a preconcetti, o a difficoltà in nuove abitudini.

Non vorrei comunque essere frainteso: non sono certo il palafraniere dell’e-book e non voglio nemmeno diventarlo. Al singolo deve essere concessa l’assoluta libertà di poter scegliere il veicolo migliore per entrare in contatto con il romanzo in genere, scettro che al momento resta saldamente in mano alla carta. Penso al contempo che la stessa libertà debba essere concessa a chi non subisce alcun fascino particolare dall’esperienza profumo / tattile della carta, con notevole risparmio economico e stessa fruizione di contenuti. Un esempio semplice, che ricordo benissimo: l’ultimo lavoro di Dan Brown in cartaceo, fresco di stampa, era a disposizione del pubblico in cartaceo al prezzo di € 25,00 e l’e-book a € 9,90. Non vedo perché non debba essere garantita altrettanta libertà a chi ha scelto un approccio più tecnologico ad un romanzo e di risparmiare quindici euro su di una singola copia di  un romanzo, tutto qui.   

Credo inoltre che il lettore tradizionale si lanci in invettive (a volte sterili) opinabili. Se ben ricordo è stato Beppe Severgini (con beneficio d’inventario) ad affermare che il lettore sembra dare più importanza al contenitore che non al contenuto. Un buon romanzo non diventa certo peggiore se digitale e non cartaceo.

Personalmente se mi offrissero aranciata in un elegante flute o uno squisito Chateau La Tour in un bicchiere di carta, sceglierei sicuramente il secondo.

Anni fa, recandomi allo Stadio, leggevo sempre una scritta a spray sopra un muro. Così diceva: ”Tifosi, voi siete la merce privilegiata del capitalismo”. Pur condannando il fatto che qualcuno avesse danneggiato il muro con quella scritta, il messaggio mi era arrivato. Era una frase che (almeno personalmente) mi faceva riflettere. Eppure era spray su di un muro. Conta quindi il contenitore o il contenuto? (mi raccomando, cari writers, non scrivete più sui muri, usate i blog, che possono arrivare molto più lontano e non costituiscono danneggiamento passibile di pena…).

Preciso inoltre che spesso le valutazioni sull’edizione cartacea prendono solo in considerazione il punto di vista del lettore, ma non certo quello dell’autore, che dopo aver prodotto con ogni suo sforzo disponibile il suo elaborato, trovato con fatica un editore cartaceo, firmato un contratto dove gli vengono riconosciuti diritti risibili, vede esposto il suo libro nell’ultimo scaffale della libreria per venti, trenta giorni al massimo per poi venire sostituito con i nuovi arrivi. Al massimo ordinabile su prenotazione.

E-book? Reperibile on line con brevissima ricerca, sempre, qualsiasi ora del giorno e della notte, sulla piattaforma preferita, acquistabile con pochi click. Abbiate pazienza se anche gli autori vi mettono al corrente del loro punto di vista.

D: Quando pensa di pubblicare il prossimo lavoro e in che forma?

I miei due e-book sono in vendita praticamente su ogni piattaforma, con la possibilità di scaricare un’anteprima gratuita che varia da quaranta a sessanta pagine, che possono essere lette in tutta comodità per comprendere se acquistare il libro (non credo che nessuno possa recarsi in una libreria tradizionale e poter leggere una quarantina di pagine prima di decidere sull’acquisto).

Per questi motivi non rinuncio all’e-book, e su quale delle due storie di cui prima pubblicherò… dipende da quella delle due che più insistentemente me lo chiederà.

Intervista di Alessia Biasiolo

Intervista a Stefano Brondi, direttore musicale di Spring Awakening

Spring Awakening si presenta subito come un’opera originale e anticonformista: che cosa ti ha colpito maggiormente delle musiche di Duncan Sheik?

Non sono tanto le musiche ad avermi colpito, evoluzione naturale dei suoi esordi negli anni ’90 (Barely Breathing nel 1996 è stata praticamente una hit onnipresente nelle radio americane), quanto il loro inserimento all’interno di una prosa complicata e soprattutto assolutamente inconciliabile, almeno nelle premesse stilistiche, con l’epoca storica di cui tratta. Solo entrando nello specifico della produzione si capisce come quello che a molti è sembrato un azzardo, nato come scommessa dal rifiuto di Sheik di scrivere un Musical propriamente detto per non tradire la sua storia musicale, sia in realtà la chiave vincente che apre allo spettatore due piani di visione paralleli: l’estremo (come superlativo di esterno) freddo e censurato delle regole di una società fortemente conservatrice, e l’intimo (come superlativo di interno) della psiche dei ragazzi, totalmente in disaccordo e precursore di un sentire che vedrà la luce solo molti anni più tardi.

La versione italiana di Spring ha le sue peculiarità nella struttura e nel cast: per le musiche hai aderito in toto alle originali o ti sei preso delle libertà?

L’idea principale sulla quale abbiamo costruito questa avventura è sempre stata caratterizzata da una forte adesione all’originale, al limite del didascalico, anche solo per una questione di rispetto: in questo mondo “Americans do it better”, e chiudiamo là il discorso. Ciò nonostante, quando musicalmente sono state chiamate in causa sonorità e qualità artistiche che hanno la loro culla musicale nel nostro paese, mi è sembrato giusto porle in evidenza anche forzando, se necessario, alcuni aspetti come la scelta di tenere gli archi in evidenza nel sound design creato in coppia con l’eccezionale Simone Lazzarini di Amandla, e alcune decisioni legate al movimento musicale nei brani più “emozionali”.

Un elemento chiave dell’opera è l’unione di linguaggi classici con moduli rock: in che modo hai interpretato questa caratteristica?

L’ho interpretata prendendomi un rischio: accentuare, o in certi casi crearla in toto, un’agogica (il moto musicale portato avanti dalla bacchetta del direttore d’orchestra che determina frequenti cambi di tempo) più vicina al mondo classico, in particolare nei brani dove è l’emozione a portare avanti la musica e non l’imperativo metronomico. Una difficoltà ulteriore è stata conciliare il tutto con i video che campeggiano nella scena, a loro volta predeterminati nella durata.

C’è chi parla di musical tout court, chi di opera rock, chi trova difficile definire e inquadrare Spring: tu che idea ti sei fatto?

Le definizioni stanno strette a qualsiasi opera, se la si conosce nel profondo. Sto tentando di rispondere a questo e molti altri quesiti compilando il programma di studi del prossimo anno alla SDM di Milano per i miei corsi di Storia del Musical, e so per certo che una definizione ragionata potremo darla solo a posteriori, quando la polvere si sarà posata da tempo su questo titolo.

Gli stessi storici di Broadway faticano a trovare una collocazione per Spring, così come negli anni ’70 per le Opere Rock che debuttavano nei teatri o negli anni ’80 quando videro la luce i POPsicals come Cats o Les Miz. Si tratta di un poligenere vivo, che è capace di leggere la musica del suo tempo e non chiudersi di fronte a nessuna novità. Credo che tra qualche anno salterà fuori una categoria per spettacoli come questo, che hanno il piano narrativo e quello cantato in parallelo senza mai incontrarsi. Per adesso, e fin quando è possibile, consiglio di godersi semplicemente l’energia di uno spettacolo che ha decisamente smosso le acque, e sta svolgendo questo compito proprio adesso anche qui in Italia.

Spring gode di una rock band dal vivo, a differenza dei musical che usano basi registrate: che opportunità offre questa presenza?

L’opportunità di respirare musicalmente l’opera e godere di uno spettacolo nuovo ogni sera. Pensateci: i cantanti adesso sanno di avere non basi meccaniche ma persone vive che viaggiano battuta per battuta a fianco a loro, che si emozionano se loro cantano una frase nel pieno delle loro sensazioni, e che sanno stupire con dettagli sonori sempre più vividi approfondendo la conoscenza dell’opera replica dopo replica.

Tutto ciò produce un’energia potentissima per la quale mi sono battuto a tutti i livelli: alla produzione ho chiesto di non ridurre il numero dei musicisti e di poter dirigere personalmente le repliche; agli attori ho richiesto la lettura degli spartiti, l’unica chiave di raccordo e dialogo tra loro e chi crea la musica; con i musicisti mi sono soffermato su ogni battuta dei brani, spiegando loro tutti i termini di uso corrente nella “musica da teatro” che generalmente loro non incontrano avendo un background (magnifico, aggiungerei) di musicisti “puri”; con i tecnici audio ho collaborato per disegnare ogni brano ed ogni intersezione musicale in linea con la storia che, insieme al nostro regista Emanuele Gamba, stiamo raccontando. Se quello che percepite è ben fatto, è anche frutto di questi e di altri innumerevoli particolari che costellano la storia produttiva di quest’opera, nella quale crediamo veramente al di là di ogni retorica.

Gli argomenti, le caratteristiche, il rapporto con la musica: Spring è un lavoro sui generis. A tuo avviso quali sono i maggiori elementi di originalità di questo spettacolo?

La funzione drammaturgica nuova delle musiche in quest’opera, la lettura senza tempo dei rapporti tra le generazioni, e la sana voglia di mostrare al pubblico le cose come sono, senza alcuna edulcorazione. Questi sono i suoi punti di forza, soprattutto in questo tempo storico dove la gente ha un bisogno sano di verità, anche se può far male. Spring Awakening è in grado di esorcizzare chiunque ne abbia bisogno, e abbia il coraggio del cambiamento, semplicemente dicendo “Touch me… all is forgiven”.

Spring è un’opera coraggiosa: è una scelta coraggiosa anche il portarla sui palchi italiani o pensi che il nostro pubblico sia pronto?

Spring è un’opera coraggiosa negli Stati Uniti, in Italia è semplicemente folle. In un paese dove generalmente non si ha il coraggio di dire niente che infranga un sistema fermo a non so più quali anni, arriva una compagnia sconosciuta, con un titolo impronunciabile, nessun “nome” mediatico propriamente detto e argomenti che farebbero saltare sulla sedia qualunque benpensante. Il tutto condito con una musica rock a livelli acustici non proprio teatrali. Spring è un’opera di coraggio, il coraggio della produzione di Pietro Contorno che si è avvalso di professionisti coraggiosi come me e tutti i miei colleghi, ha cercato in giro attori giovani e coraggiosi, e ha potuto contare sull’appoggio di gestori teatrali coraggiosi come Alessandro Longobardi del Brancaccio di Roma, dove lavoro come Direttore Musicale anche e soprattutto grazie al lavoro fatto su questo titolo.

Che tipo di ascoltatori immagini per Spring?

Chiunque può rispecchiarsi ed immergersi nel “bagno di realtà” che quest’opera ti offre. Io direi solo: dateci l’occasione di stupirvi, e di raccontarvi che il teatro musicale non è stantio e ammuffito, ma vivo e roboante come non mai. Spring is coming. It’s up to you.

Intervista di Donato Zoppo

 

Intervista a Pietro Contorno, direttore artistico di Spring Awakening

Spring Awakening è un’opera coraggiosa: è una scelta coraggiosa anche il portarla sui palchi italiani oppure pensi che il nostro pubblico sia effettivamente pronto?

Una scelta coraggiosa al limite del temerario e dell’incosciente. È vero. Ce lo dicono tutti. Specialmente in un anno cosi difficile per la società e la cultura italiana in genere. Ma come si dice: se non ora, quando? Il cambiamento deve essere cavalcato “prima”, deve essere anticipato, assecondato, stimolato. E questo noi vorremmo che accadesse. Vorremmo che il panorama teatrale dedicato all’entertainment scoprisse che esiste anche altro con cui “intrattenere” il pubblico. Il giudice resta sempre lui, inappellabile. Deciderà lui se veramente le scene sono troppo “forti” o i temi indigeribili. Noi vogliamo semplicemente ampliare il menù…

I temi, le caratteristiche, il rapporto con la musica: Spring Awakening è un lavoro che farà parlare di sé: secondo te quali sono i maggiori elementi di originalità dello spettacolo?

Dobbiamo distinguere. Se parliamo dell’effetto innovativo che ha avuto lo spettacolo negli USA, possiamo sottolineare gli aspetti preminentemente artistici: l’ambientazione minimalista, l’uso del doppio registro prosa/rock-show, l’impatto emozionale sul pubblico, etc.

Se parliamo dell’Italia invece le cose cambiano. Non stiamo portando ovviamente in scena un’opera d’avanguardia o particolarmente trasgressiva per il teatro di ricerca, ma per il mondo del musical e del teatro mainstream rischiamo di essere veramente uno shock. Giovani attori “fusi” in un progetto lungo due anni. Un team creativo dedicato all’opera in maniera intensiva. Temi di assoluto spessore umano, sociale e politico. Una comunicazione che prova a smarcarsi dai media tradizionali. Potrei continuare…

Un musical, un’opera rock, una pièce teatrale: che cos’è Spring?

Voglio parlare da spettatore perché in fondo, oltre al mio ruolo produttivo, é questo che sono. La sera della prima ho guardato lo spettacolo cercando di “sentire” ciò che dal palco mi arrivava, ed é stato devastante. Tecnicamente Spring é uno spettacolo teatrale con dei brani inseriti nella drammaturgia e l’ausilio di una grafica intelligente e non invasiva. In realtà é una girandola di emozioni forti, fortissime, che dura due ore e ti lascia scombussolato.

La giovinezza e il conflitto generazionale sono la chiave di lettura dell’opera: oggi la conflittualità tra genitori e figli, studenti e scuola, singolo e istituzione, sembra essersi affievolita. Secondo te Spring è un lavoro anacronistico oppure Sater ha avuto la capacità di intravedere nuovi dati sociali difficili da scorgere?

Come a seguito della caduta dei regimi ideologici di fine secolo scorso si é frettolosamente teorizzata la consunzione dei conflitti e delle contrapposizioni politiche e sociali, così spesso ci convinciamo che autoritarismo, tabù e assenza di corrette informazioni non abbiano più cittadinanza nella nostra società. Ce lo vedete oggi un insegnante punire “fisicamente” un alunno per comportamento irrispettoso, o degli adolescenti arrossire parlando di sesso? Certo che no. Ma a mio avviso il conflitto si é semplicemente spostato.

L’assoluta assenza di autorità e credibilità del modo della scuola oggigiorno ad esempio, é l’esatto opposto della scuola autoritaria del Ventennio da noi descritta. Ma come si suol dire, gli opposti alla fine coincidono, perché in realtà quello che occorre oggi, come ieri, é autorevolezza dell’istituzione scolastica e di chi la rappresenta. Cieca e acritica osservanza delle regole formali di ieri, indifferenza verso una forma autentica del sapere di oggi. Quanto é cambiato?

Riguardo al sesso. Spesso mi é stato detto: “I ragazzi ormai sanno tutto, anche troppo”. Poi scopriamo che il più alto tasso di gravidanze indesiderate in Italia di under 16 viene riscontrato in Lombardia, o che un ragazzino si toglie la vita a causa delle sue scelte affettive. Può bastare?

TodoModo Music-All ha una grande esperienza nel campo delle opere rock: Spring è sulla falsariga di quanto avete già prodotto o è una novità anche per voi?

Direi che senza i 15 anni di produzioni alle spalle che la compagnia può vantare, questo lavoro non avrebbe potuto aver vita. É un metodo complesso, faticoso, che vive dell’adesione direi anche etica di tanti professionisti. Parte dalla condivisione di un progetto che si fortifica ben prima che inizi la produzione esecutiva. Dedizione, cura del particolare, minuziosità. Quello che noi chiamiamo “lavorare per bene”. E in questo TodoModo può vantare su professionalità e umanità ormai cementate negli anni.

Quali sono le analogie e quali le differenze tra la versione americana dell’opera e la vostra?

Io sono partito da una sorta di venerazione dell’opera originale. Il mio dubbio maggiore é sempre stato: “Riusciremo mai ad essere così intensi, così credibili?”. Spring é fatto apparentemente di poche cose. Niente effetti speciali, niente costumi sgargianti, niente coreografie. Quindi non avevamo paracaduti. Io mi sono sforzato di far passare l’idea di un’ambientazione negli anni ‘30 dello scorso secolo in Italia. Dopodiché ogni volta che ciascun responsabile di settore portava i propri elaborati, tutti compartecipavano e interloquivano anche sugli altri aspetti. Ma soprattutto la regia. Devo dire che Emanuele Gamba ha veramente dato un’anima tutta nostrana all’opera. Persino la nostra orchestra é guidata da Stefano Brondi in maniera del tutto personale. Pur essendo cantata in inglese il nostro Spring Awakening é veramente un pezzo di teatro italiano.

Oltre ad essere un professionista affermato in campo teatrale, tu sei anche un musicista di grande esperienza: quali sono le peculiarità della componente musicale di Spring?

Non voglio togliere il mestiere al mio direttore musicale, Stefano Brondi, che é il vero guru in materia, ma di certo la commistione tra rock e arrangiamenti classici, le superlative armonizzazioni vocali e l’orecchiabilità radiofonica assolutamente virale di certi ritornelli. Inoltre i testi sono, a differenza ahimè di molti altri musical, di assoluto valore poetico, densi di richiami a simbologie classiche, dalla tradizione greca a Shakespeare, il tutto farcito di slang MTV-style, doppi sensi adolescenziali e qualche parola “forte”. Grandissima sinergia artistica e umana quella tra Steven Sater e Duncan Sheik. E nell’opera si sente tutta.

Che genere di pubblico immagini per Spring?

Banalmente e semplicisticamente, Spring é considerata un’opera giovanile. Quindi tutti si aspettano un pubblico prevalentemente fatto di adolescenti. Ma a mio avviso l’opera conquisterà esattamente il pubblico adulto. Almeno quello più curioso di vedere e di capire se stesso attraverso i giovani. Come ha ottimamente detto uno dei ragazzi del cast, Spring sembra essere un opera scritta dai ragazzi per gli adulti. Non voglio essere a mia volta ecumenico e scontato, ma credo che tutte le età abbiano da scoprire nell’opera qualcosa che le rappresenti, che le esorcizzi.

Il 29 ottobre al Teatro Pavarotti di Modena partirà il tour italiano di Spring, che toccherà le maggiori città e i principali teatri: che tipo di feedback avete trovato da parte delle strutture locali?

Spring ha una forza sua, magnetica, contagiosa. Si é imposto all’attenzione degli operatori culturali pur non potendo contare su un titolo da cassetta o starlette dell’ultima ora. Chi l’ha visto é rimasto flashato… (Mi passate il termine?). E il meglio credo debba ancora venire…

Il tour terminerà a maggio 2014 all’Auditorium Europa di Bologna: cosa succederà dopo?

Intanto faremo banalmente i conti. Ma certo é che se il pubblico ci avrà gradito Spring sarà on the road anche la prossima stagione. TodoModo intanto affila le armi su un altro paio di soggetti. Ma questo é ancora top secret….

Intervista di Donato Zoppo

Intervista a Emanuele Gamba, regista di Spring Awakening

Per temi e struttura, Spring Awakening si presenta immediatamente come un’opera coraggiosa: che tipo di approccio alla regia hai dovuto impostare?

Ho conosciuto Spring Awakening vedendo un video pirata della versione americana; e mi sono divertito, e molto commosso. Mi parlava di me; di me di quasi 30 anni fa, ma mi ricordavo tutto. E bruciava ancora. Broadway ha prodotto un capolavoro semplice e franco e questo – a mio avviso – ne ha decretato il grande successo. Quella prima visione e il seguente studio del copione ha indicato la via, obbligatoria, l’unica per me che potesse far vibrare quel rigoglio stupito che è il fondamentale humus di questa storia: la semplicità franca dell’emozione, questa era l’unica maieutica capace di far vivere i personaggi.

Il resto, avendo a disposizione il cast che abbiamo, è stato semplice e bellissimo.

Gli argomenti, le caratteristiche, il rapporto con la musica: Spring è un lavoro decisamente sui generis. A tuo avviso quali sono i suoi maggiori elementi di originalità?

Il maggiore elemento di originalità di Spring risiede a mio avviso nell’intuizione dei due autori di “manomettere” un testo cruciale di uno dei massimi drammaturghi europei del XIX secolo. Da questa iniziale spregiudicatezza, da questa iniziale libertà di approccio – qui è proprio il caso di parlare di approccio – derivano tutte le coraggiose scelte stilistiche che compongono la drammaturgia dei testi e della musica. Del testo di Wedekind – ovviamente – rimane un distillato alle volte forse troppo asciutto ma il suo alternarsi ai numeri musicali, permette di riformulare un continuo riequilibrio delle necessità della narrazione.

Dirigere un’opera come Spring significa anche confrontarsi con la versione americana, che ha avuto un incredibile successo: che differenze ritieni ci siano tra l’originale e la vostra?

Forse deluderò qualcuno ma ho visto lo Spring americano soltanto una volta; quella prima volta e neanche tutta d’un fiato. Visto il grande successo volevo sinceramente evitare di rimanere incastrato in una forma di soggezione spaventata e quindi mi sono buttato sullo studio solitario della drammaturgia.

Prima di tutto grazie all’intuizione di Pietro Contorno abbiamo spostato il racconto nei giorni bui del ventennio, da lì siamo partiti per raccontare la nostra storia e ci siamo avvitati per un po’ di tempo su un progetto scenografico che guardasse all’architettura dell’Eur. Dopo settimane di colonne ed emicicli è arrivata l’idea semplice e funzionale: trattandosi di storia in cui la scuola incarna quel conformismo feroce e aggressivo che frustra e violenta i nostri personaggi, perché non ridurre tutto ad un grande banco di scuola semovente. E dietro a questo banco perché non immaginare una grande lavagna, che forse per problemi di autorevolezza si è accidentata incastrandosi nel terreno, perdendo centralità ed equilibrio. E perché su questa lavagna, come si faceva quando si segnava sul retro il nostro dissenso o i nostri segreti… non scriviamo a grandi lettere le ragioni cantate dai ragazzi? Ed ecco nascere l’idea del racconto video che è una specie di traduzione in segni e disegni della traduzione linguistica delle canzoni.

Il resto – che rimaneva addirittura di importanza centrale per me – si sostanziava nella preoccupazione che la parte recitata dello spettacolo fosse preziosa e curata come fosse stata un Wedekind originale.

Un musical, un’opera rock, una pièce teatrale: ti sei fatto un’idea su come poter presentare Spring? E soprattutto, che cos’è?

Sinceramente non mi interessa troppo includere Spring in una categoria; Spring Awakening è semplicemente una storia bella e coraggiosa che narra di giovani vite alla ricerca di un senso. Spring è il “Canto della Natura”, di quella selvaggia che ci circonda coi suoi monti, i suoi boschi, i suoi laghi, i mari, i cieli e di quella intima che visitiamo – e che ci visita – ogni giorno e ogni notte della nostra vita per indicarci la via e spingerci su un cammino di crescita e conoscenza.

Quali sono le componenti di Spring che ti hanno maggiormente stimolato e incuriosito come regista? Quali invece ti hanno messo in difficoltà?

Per me fare una regia significa percorrere parallelamente due strade, realizzando una specie di accerchiamento verticale del testo. La strada che passa sopra il testo me lo fa vedere dall’alto, medianicamente, mi regala una veduta del tutto, mi aiuta più che a capirne il significato ad averne un’impressione, a farmene sentire la temperatura emotiva; l’altra strada che passa sotto il testo mi aiuta ad organizzare un sottosuolo sul quale possa poggiare la traduzione scenica del racconto: il gioco degli interpreti, la loro relazione nello e con lo spazio, la dinamica fra parola e canto. Con gli anni ho imparato a non avere paura delle difficoltà che spesso un testo ti presenta; ho chiesto e ottenuto da tutti onestà, generosità e fiducia e in questo clima nessuna particolare difficoltà ha spaventato né me né i miei attori.

Spring è un’opera coraggiosa: è una scelta coraggiosa anche il portarla sui palchi italiani oppure pensi che il nostro pubblico sia effettivamente pronto?

Portare Spring sui palcoscenici italiani è senz’altro un atto coraggioso; ma il tempismo con cui Stefano Brondi ha tirato fuori il titolo è stato addirittura perfetto, e per certi versi taumaturgico. In Italia siamo alla fine di un altro – l’ennesimo – ventennio e al momento di un bilancio di questa importanza serve da parte di tutti (palco e platea) onestà, verso i temi da affrontare, generosità nel cedere per ricevere qualcosa, e fiducia nel fatto che questa sia l’unica via che meriti di vedere tante primavere.   Che tipo di pubblico immagini per Spring?

Chiunque sia stato adolescente è lo spettatore ideale di Spring; unica altra condizione è che se ne ricordi e si intenerisca per quella imbarazzante sconvolgente età dello slancio e del disagio che ci ha fatto sentire tutti sulle montagne russe. Un giorno fra le nuvole e il giorno dopo – o anche 5 minuti dopo – sottoterra.

La giovinezza e il conflitto generazionale sono la chiave di lettura dell’opera: oggi la conflittualità tra genitori e figli, tra studenti e scuola, tra singolo e istituzione, sembra essersi affievolita. Secondo te Spring è un lavoro anacronistico oppure gli autori hanno avuto la capacità di intravedere nuovi dati sociali difficili da scorgere?

Risveglio di primavera (1891) di Wedekind era pura avanguardia, sconvolgente e scandaloso e infatti dovette aspettare 15 anni e un grandissimo ed influente regista come Max Reinhardt per essere messo in scena; Spring Awakening è la sua metamorfosi rock più di 100 anni dopo e l’amore che decine di migliaia di “giovani adolescenti e adolescenti vecchi” gli hanno regalato è la dimostrazione che il conflitto – seppur magari sotterrato di gran fretta – rimane aperto e doloroso.

Azzardo ? Se Frank Wedekind fosse nato a New York negli anni ‘60, non avrebbe scritto Risveglio di primavera; ne sono sicuro, avrebbe scritto Spring Awakening.

Intervista di Donato Zoppo