Un film intenso e leggero, reso divertente da rapporti di famiglia che, spesso, sono carichi di conflitti, anche tra chi si vuole e si è sempre voluto molto bene (o almeno pensa così, fino a quando non dovesse scontrarsi con la realtà). Facilmente ci si identifica in due cugini, così inseparabili che si sono separati per lungo tempo; così legati che forse si odiano; così incapaci di dirsi la verità alla luce di un latente “devo volergli bene” imparato in famiglia. È una situazione ricorrente. I due cugini, però, sono ebrei. E ottant’anni dopo la liberazione dei campi di sterminio nazisti, ci troviamo in una storia che sa molto dell’umorismo ebraico, della loro capacità di sorridere o di far sorridere anche nelle avversità. Adesso non si sa se si crede ancora in Dio, se la questione religiosa ha ancora importanza, se c’è ancora il timore di persecuzioni: si parla soltanto di affetti di famiglia, di sensi di colpa, di depressione, di una nonna alla quale si è voluto molto bene. Soltanto una famiglia come tante. Benji Kaplan è fortemente depresso per la perdita della nonna alla quale era legatissimo, in un rapporto conflittuale con i genitori. La nonna ha lasciato una piccola eredità affinché i suoi due nipoti, anche David che raggiunge infatti Benji all’aeroporto di New York, possano andare ad incontrare i loro fantasmi, e a conoscere il loro Paese d’origine, la Polonia. La nonna è nata e vissuta in Polonia ed è sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Questo scuote la sensibilità di Benji che è davvero affranto, davvero in sintonia con quel dolore che ha attanagliato l’Europa del Novecento, lasciando strascichi nelle persone. Perché se anche la nonna era sopravvissuta, una parte di lei era rimasta ferma a quella guerra e a quella persecuzione di cui non si sarebbe mai liberata del tutto e che diventa, con questo film, con la memoria, molto più di un semplice ricordo. È proprio questo il valore di “A Real Pain” di Jesse Eisenberg, regista e interprete. Benji (Kieran Culkin, premio Oscar come migliore attore non protagonista) rappresenta colui che davvero partecipa di un dolore e non che guarda alla tragedia dell’Olocausto (come viene definito nel film) come a qualcosa che si deve sapere, che si deve commiserare e poi basta, si torna ad essere esattamente come prima. È il ruolo degli altri partecipanti al gruppo privato che si reca a Varsavia per una sorta di pellegrinaggio dell’anima. Mark e Diane sono due pensionati americani di Shaker Heights che non hanno rapporti con l’Europa, se non che lui si dice discendente dei migranti del Main Flower; Marcia che vuole ripercorrere il dolore ebraico per esorcizzare il suo recente divorzio dal quale ancora non si è ripresa; Eloge è un ebreo di recente conversione, attento ad ogni segnale che gli proviene dall’esterno come ogni neofita fa: si è convertito perché ruandese aiutato da una comunità ebraica e trova attinenze tra il suo dramma e quello del popolo eletto. La guida del gruppo è James, che cerca di spiegare e di creare momenti di riflessione, ma viene contestato presto da Benji perché si tratta di distaccate nozioni, non di un “vero dolore”. Il film sembra dirci che non dobbiamo soltanto compiere un atto dovuto nei confronti di una tragedia che dobbiamo ricordare almeno una volta l’anno. Dobbiamo partecipare con quel cuore umano che, almeno una volta l’anno, in occasione della Giornata della Memoria, dovremmo ricordarci di avere verso che soffre. Benji soffre, il suo dolore e quello di sua nonna; soffre la perdita del cugino che si sente inadatto nei suoi confronti, perché non si sente all’altezza di aspettative e di affetto che Benji rappresenta. Eppure è il senso di colpa imperante nella pellicola: David non era lì con suo cugino quando questi ha cercato di togliersi la vita. Non era con lui nel suo dolore, nel suo tormento, in quella depressione che spesso è sinonimo di delicatezza, gentilezza, sensibilità. Così fuori moda nel mondo di oggi. Così fuori moda sempre. I due cugini di ritrovano e si perdono ancora: David è un padre di famiglia, preciso e metodico, bisognoso di certezze, che svolge un lavoro così di moda oggigiorno che suo cugino lo considera un non lavoro, e così diverso da Benji, libero, schietto, solitario. Interessante come Benji voglia sdrammatizzare il Monumento agli eroi del ghetto, a Varsavia, impersonando dei combattenti per la libertà, mentre si ferma a riflettere sul viaggiare in treno verso Lublino: proprio in treno, come erano costretti a fare gli ebrei deportati. Il ragazzo sente tutto il peso di un dramma, tutto il legame con la nonna, tutto quello che ha lui rispetto al fatto che la nonna poteva morire per un niente e invece ha portato lui a nascere. Ecco infine la visita al campo di concentramento di Majdanek, ben conservato perché i nazisti non erano riusciti a farlo saltare in aria come accaduto in altri casi. Sono pertanto ben visibili le camere a gas e i forni. La fotografia del film è ottima, con interpretazioni molto interessanti. Infine i due cugini riescono a trovare la casa della nonna a Krasnystaw e questo compone un ricordo inconscio, dà forma ad una vita che rappresenta quella di tutti i morti dei campi di sterminio: erano persone a tutto tondo, non una stele, una pietra d’inciampo, non bidimensionali da chiudere in un cassetto di ricordi. Alla fine i due Kaplan si ritrovano e si salutano rientrando a New York, dove presumibilmente le loro vite torneranno a svolgersi nello stesso modo di prima del viaggio. Questo “vero dolore” è interessante, ben orchestrato e ben recitato. Da vedere.
Alessia Biasiolo