Venne chiamato Gianluigi, come il nonno morto di influenza Spagnola nel 1919, detto poi Luisin o Gigi o Giangi, Giangiòn, Bigio. In America veniva chiamato Gaianluki e in altri modi per noi ridicoli. La famiglia era originaria di Bologna, ma il suo polo di vita è stata Milano. “Sono come uno che sia tornato da un grande viaggio e sia ora solo nella sua stanza, coi ricordi di quel che è stato e non tutto viene alla mente come era…”. Particolareggiata è invece la descrizione di Milano come la vedeva da bambino. Una vita intensa che ha attraversato tutta la storia d’Italia come l’abbiamo ora, con il referendum per la repubblica o la monarchia, il voto alle donne, le bevute di slivowitz. La grappa fatta con le more di gelso, anche se gli esperti sanno non esser grappa, ma che per tutti si chiamava così, sia che derivasse da frutta o da vinacce, bastava fosse un liquido uscito da un alambicco. Oggetto misterioso e magico allo stesso tempo. E poi le redazioni giornalistiche, la cronaca, i primi esperimenti di stile. Un libro spesso come un racconto del nonno, e cadenzato, come i ricordi che ci si può permettere di ricordare con un sorriso. La Chiesa senza Vangelo, dove il numero delle uova raccolte dal prete nella cerca autunnale era importante più d’altro. Con i peccati rimessi a carrettate, sempre gli stessi, sempre alle date di Pasqua e Natale; una Chiesa in cui cercavano di fare del proprio meglio, “Dove non succedevano puttanate” e “se qualcuno ti fregava, il prete era sempre dalla parte dei fregati”. Poi nell’Azione Cattolica, dove qualcuno cercava di crearsi feudi di potere sulle anime, tra messe e ribelli impuniti. Quindi un andare e venire della memoria e dei fatti che diventa uno dei punti di forza del romanzo-saggio di vita vissuta-autobiografia di un uomo e di un Paese intero. Giornalista a “il Giorno”, pittori, viaggi, Pomedo dove anche alcuni fascisti andarono a “cambiare aria” intorno al 25 aprile di settant’anni fa. Poi tornano davanti agli occhi gli epurati che vivevano in miseria; i tram vuoti perché la gente non aveva i soldi per pagare il biglietto. Risparmi bruciati dall’inflazione, carta rigenerata giallastra di manifesti pubblicizzanti il prestito della ricostruzione, e alcune donne della vita con i propri sogni e i sentimenti reali della quotidianità. Interessante il confronto con oggi: “I giornali apparivano come bollettini di peste”, non lasciavano spazio ai morti violenti. “Nei giornali non c’era posto per i delitti: ma se tutti i morti di morte violenta di quel periodo risorgessero e marciassero insieme, uno spaventoso esercito apparirebbe sui campi di Lombardia”. Gli ebrei tornavano, ma chi aveva avuto in custodia i loro beni giurava li avessero rubati i tedeschi. “I reduci dai campi di concentramento flottavano dal Brennero come un perenne ricordo, uno spettrale ammonimento di quel che era passato”. E poi gli amori, le donne, Barbara che lo accusa di risucchiarla come forse aveva fatto con tutto e tutti per tutta la vita. Le idee prese a prestito oppure utilizzate dagli altri, ma rielaborate in chiave personale come le impressioni, le immagini, i ricordi appunto. Un Paese che si costruiva come la personalità del giornalista, tra viaggi, commenti, luoghi comuni e rarità. Un libro dal tono coinvolgente, che non si può smettere di leggere.
Gianluigi Melega: “Tempo lungo. Autobiografia del boom”, Marsilio, 2014.
Alessia Biasiolo