Settanta anni fa il bombardamento di Brescia

Ricorre il prossimo 13 luglio l’anniversario di uno dei più terribili bombardamenti subiti dalla città di Brescia durante la seconda guerra mondiale. In ricordo delle vittime e delle sofferenze di quell’anno di guerra, pubblichiamo le poesie della Sezione a Tema “1944. Ricordi, speranze, lezioni di vita”, premiate durante la quindicesima edizione del premio internazionale di Poesia “La Leonessa. Città di Brescia”, ad iniziare da un ricordo di bambina, la poesia scritta da Anna Maria Lavarini di Verona. Lirica che ha il pregio di non cercare una forma perfetta, ma di comunicare, alto esempio di “memoria”, la verità dei fatti accaduti e filtrati in due modi diversi, altamente lirici nel loro sofferto vissuto: quello della donna adulta e quello della bambina. Grazie ai genitori italiani di allora, molti bambini hanno vissuto la guerra come un momento di passaggio nel quale venivano comunque riposte speranze in un avvenire migliore. E questa poesia ne è esempio.

PIPPO

Erano veramente brutti anni,

quelli della guerra e d’inverno poi…

A Verona era tutto un fioccare di bombe

e con la contraerea dietro le spalle

là sulle Torricelle dove abitavamo noi,

c’era poco da stare allegri.

Mi avevano mandato dai nonni in collina

così a casa un figlio di meno

da dare da mangiare, e fuori dai pericoli,

dai nonni la guerra faceva meno paura

sembrava più lontana,

era l’inverno del quarantaquattro.

Un giorno però,

siamo dovuti scappare in rifugio,

(una grotta vicino casa), quel giorno Pippo

ci aveva spaventato per bene,

a dir la verità aveva spaventato i grandi.

Io lo guardavo meravigliata dalle fessure

di una tavolato che chiudeva l’entrata,

battevo le mani e mi incantavo

nel vedere quelle striscioline argentate

che lasciava al suo passaggio.

Dentro tutti pregavano, io non capivo perché,

dal momento che era appena sera

e non in stalla come si faceva dopo cena

e no capivo perché la nonna

sospirando diceva “Beata innocenza”,

solo perché io facevo festa,

guardando Pippo passarci sopra la testa.

Roberto Mestrone, di Volvera, Torino, ha dedicato la sua poesia ad un episodio del 23 settembre 1944: i contadini Fernando e Giovanni Guidi, Decimo e Ottavio Bacci furono trucidati dalla Brigata Nera Mussolini e sul luogo dell’eccidio, recintato, furono poste quattro croci in memoria dell’episodio.

QUATTRO BIANCHE CROCI

Resterà inerme, la Brigata Nera!

Chiuso è il recinto, e quattro bianche croci

la tengono per sempre prigioniera

nel prato verde, accanto a spente voci.

Oggi la Patria ha immune la frontiera,

e gli anni cupi scorrono veloci;

il sangue più non macchia la bandiera,

ma dentro i cuori serba giorni atroci.

I giovani fratelli contadini

periron senza colpe, e in quel momento

il Cielo mise al bando gli assassini.

Ora sull’erba giace lo sgomento

e sacri marmi innalzano i confini

tra l’odio infame e il Popolo redento.

Lirica intensa di profonda memoria e commozione, capace di trasferire all’oggi il senso del passato, sublimato nell’alto concetto di Patria per il quale, solo, tutto ciò acquisisce un senso propositivo per il futuro.

Molto bella la poesia di Vanes Ferlini di Imola, Bologna che, in memoria delle stragi naziste, utilizza delle significative metafore, cariche di intensa partecipazione emotiva per tutto ciò che è stato e al quale va il senso di vuoto che assale il Poeta. La lirica incarna il senso poetico stesso: il Poeta è colui che è in grado, per afflato interiore e studio della parola, di percepire il senso delle emozioni che si avvertono dentro e che, come in questo caso, diventano significati semantici profondi e partecipativi per ogni lettore. Allo stesso tempo, Ferlini propone un’importante considerazione sul senso della memoria che non deve essere affidata a pagine ingiallite e portata al presente ogni tanto, in qualche commemorazione, e non deve restare ingessata tra le mura di qualche museo, ma deve diventare senso civico profondo, formazione vera e senza vincoli ideologici affinché, davvero, il sangue versato sia servito ad edificare e ad edificarci.

STANZE DESERTE

Sedie vuote

intorno a me

Spiragli di vento secco

spazzano la polvere

dai candelieri

Una riga rossa

attraversa il calendario

Seduto

in questa stanza

dalle pareti di ghiaccio

a guardare foto ingiallite

volti estranei

sepolti nel passato

Resurrezioni di voci lontane

uno zio mai conosciuto

mi guarda severo

mi domanda perché

Ma io non so

le risposte

ci sono solo

stanze deserte nella memoria

Quanto inchiostro sprecato

e libri rimasti negli scaffali

Vorrei aprire le finestre

per far uscire il dolore

per far entrare una speranza

per non lasciare

il nostro sangue

imprigionato in un museo.

Rosa Leone, di Gottolengo (Brescia), ha interpretato il sacrificio di migliaia e migliaia di soldati come un ponte tra due terribili guerre, accomunate dal senso di inutilità di giovani vite umane, immolate sull’altare dell’incapacità dell’uomo di non provare odio. Incisiva, infatti, la lirica su ciò che non dobbiamo dimenticare per evitare di trovare nella guerra soluzioni che diventano soltanto pianto.

 

COME FILI D’ERBA

Rude era la voce

là sul Carso

del giovane in mostrine

L’ordine preciso

-attaccare di notte il suolo nemico-

Marciavamo sfiniti dentro stivali di marmo

gambe nel pantano ubriachi di fatica

volgendo le spalle alla trincea

Striscianti fianco a fianco verso l’ignoto

moschetto sulla spalla e vuoto nello stomaco

Fu il fuoco improvviso a spaccare il silenzio

poi quel forte boato ci inchiodò alla terra i teneri corpi

Grida e carne

ossa e sangue

disseminati lungo il fiume come miseri fili d’erba…

Or qui noi giaciamo rivolti sopra fango e neve

atonici immobili

forse aspettando un carro che ci riporti a casa

o forse resteremo cibo per concimar la terra

Ricorderan di noi le nostre glorie

di noi parleranno i libri e poi le genti?

Contarono i morti da una parte e l’altra del confine…

Di cento e cento mai se ne seppe il nome

Scorsero tra le labbra nelle case preghiere e veli neri

e d’occhi negli occhi ormai smarriti legati alle persiane

infiniti

Oh madre che attendesti invano il suo ritorno…

e tu figlio che mai baciasti il viso di tuo padre…

a voi rimase l’immagine sbiadita

una fotografia ingiallita

o forse una medaglia da incorniciar sul muro

ma liquido è il ricordo che sgorga tra le dita

Or là sul Carso aleggiano le ombre

Or là sul Carso vaga

una pietra incisa…

 

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