La Rosa Bianca

Nell’ambito della Rassegna Altri Percorsi 2013/2014, presso il Teatro Sociale di Brescia, è andata in scena la commedia “La Rosa Bianca”, a cura del Teatro Stabile di Bolzano, per la regia di Carmelo Rifici. La drammaturga americana Lilian Groag ha scritto il bel testo della storia di un gruppo di ragazzi tedeschi tra il 1942 e il 1943, tradotto da Angelo Dellagiacoma, per metterlo in scena per la prima volta a San Diego, in California, nel 1991. Rappresentato in Italia per la prima volta alla fine del 2012 a Bolzano, il testo si presenta intenso, carico di interessanti note umane e vissute, capace di rendere davvero partecipe il pubblico della vicenda eroica e drammatica di studenti universitari tedeschi stanchi di sentirsi oppressi dall’oppressione nazista. La rosa bianca era il fiore preferito di Sophie Scholl, ventenne studentessa di biologia e filosofia all’università di Monaco di Baviera. Scopre che il fratello Hans, anch’egli studente universitario, di venticinque anni, reduce della battaglia sul fronte occidentale e tuttora studente medico dell’esercito tedesco, e un gruppo di amici, tra i quali uno padre già di due figli, sta organizzando qualcosa. Quando a forza viene a sapere di cosa si tratta, non vuole tirarsi indietro, anche se donna. È vero che Hans la deve proteggere, anche per obbedire ai genitori, ma lei è grande, adesso, e non vuole saperne di stare a guardare. Cosa? Hans dirà durante un interrogatorio “Voglio avere indietro i miei vicini di casa ebrei”: voleva vedere il latte sui gradini della loro abitazione e avere allo stesso tempo risposte circa quegli strani agglomerati di case, chiuse da filo spinato, che aveva costeggiato tornando dal fronte, nei pressi di Dachau. Vuole sapere ma, soprattutto, non vuole fingere di non sapere. E così sua sorella e i suoi amici. Uno di questi è stanco di nascondere di essere cattolico praticante, l’altro vuole essere libero. Vogliono parlare di Freud e Goethe senza timore di essere arrestati. Vogliono la Germania bella e forte di Wagner, ma senza il fraintendimento nazista. Vogliono risposte alle stelle gialle sui vestiti di certa gente. Vogliono sapere perché non li vedono più. La protesta silente comincia verso il luglio del 1942, a pochi mesi dalla terribile decisione della “soluzione finale del popolo ebraico”. Siamo in presenza di ragazzi di buona famiglia, ariani a tutto tondo, di provata fede nazista, che vogliono ballare sulle canzoni di Frank Sinatra e pensano che F. D. Roosevelt sia un buon presidente. Non vogliono essere arrestati per questo. Così si impossessano di una stampante e cominciano a produrre volantini. Riescono, nel giro di alcuni mesi, a contattare la resistenza tedesca, ma soprattutto quella di altre città e di altri paesi, tra cui Francia e Italia, per creare una rete di coscienza che li riscattasse dall’essere tedeschi in quel particolare momento storico. Così, un giorno di febbraio, lanceranno i volantini all’università, verranno fermati e arrestati da un civile, il bidello dell’università stessa, in cambio di un encomio e della ricompensa di tremila marchi. Dopo interrogatori e perquisizioni domestiche, verranno scoperte le loro responsabilità e i nomi degli amici coinvolti e così verranno condannati a morte per decapitazione.

I nomi di Sophie e Hans Scholl, Alexander Schmorell, Christoph Probst, Wilhelm Graf diverranno il simbolo della coscienza antinazista germanica e, allo stesso tempo, riscatto di una nazione che sembrava cieca e sorda, apatica più che inerme dinanzi alle atrocità che il governo perpetrava ai danni dei propri cittadini.

Il loro pensiero di libertà era quello che soltanto la perdita della guerra avrebbe dato la forza per rovesciare Hitler, pertanto le recenti sconfitte tedesche, in Russia e nel nord Africa, erano salutate come mezzo per ritornare ad essere liberi da un giogo che pestava i tedeschi anziché elevarli. Le proteste c’erano state, anche contro i militari della Gestapo, ma erano state soppresse nel sangue e con gli arresti, quindi non restava che ai giovani, e a quelli universitari che si mantenevano distanti dall’indottrinamento della gioventù hitleriana, spronare alla riscossa i conterranei per riappropriarsi non solo della propria patria, ma soprattutto del loro futuro.

Sophie, Hans e i loro amici credevano in un’Europa federale che aderisse ai principi di tolleranza e di giustizia; che permettesse di citare la Bibbia, Lao Tzu, Aristotele e Novalis, ma anche Goethe, Schiller, Spinoza, Beethoven, appellandosi all’intellighenzia tedesca certi che si sarebbe opposta al nazismo.

Quando il 18 febbraio 1943 i due fratelli Scholl (Irene Villa e Alessio Genchi) distribuirono il sesto volantino (come gli altri cinque precedenti che portavano dappertutto in treno, da Berlino ad Augusta fino all’estero) dal titolo “Il movimento di resistenza in Germania”, vennero fermati e quindi arrestati, cercarono di difendersi prima e di assumersi da soli le responsabilità poi, ma in breve anche gli altri complici (Christoph Probst-Tindaro Granata, Wilhelm Graf-Christian Mariotti La Rosa e Alexander Schmorell-Enrico Pittaluga) vennero arrestati e poi processati da un tribunale del popolo.

“…Io non voglio sopravvivere, voglio vivere. E’ la cosa giusta da fare!” dirà Sophie, e cercherà di farsi sentire soprattutto da Robert Mohr impersonato da Andrea Castelli, chiamato a interpretare l’ambigua e tormentata figura del capo della Gestapo di Monaco, in bilico tra la volontà di salvare la giovane ragazza e il terrore di fatali ripercussioni sulla sua carriera. I cinque giovani capivano che tanti la pensavano come loro, ma la paura e l’opportunismo avevano il sopravvento. Speravano che la loro forza, il loro urlare contro il potere costituito, insieme alle sconfitte sul campo di quell’esercito che soltanto due anni prima era sembrato invincibile, fossero sufficienti per dare voce anche ad altri. In effetti era così, ma non abbastanza da organizzare una sollevazione in grado di battere le squadre antisommossa; non abbastanza per salvare loro la vita.

Grazie alla cocciutaggine dell’investigatore della Gestapo Anton Mahler (Pasquale di Filippo) si trovarono prove sufficienti alla condanna che verrà comminata il 22 febbraio 1943. La scena si chiude sulla certezza che nulla era stato vano: Bauer, aiutante di Mohr (Gabriele Falsetta) brucerà l’elenco di altri sospettati a dimostrare che, volendo, si poteva dare una mano alla verità e alla libertà.

Belle le scene di Guido Buganza: tubi Innocenti capaci di fungere da guardina, da stanze, da università, allo stesso tempo permettendo al pubblico di non perdere mai di vista gli attori. Fondamentali le luci di Giovancosimo De Vittorio, interessanti le musiche di Daniele D’Angelo e perfetti i costumi di Margherita Baldoni.

 

Alessia Biasiolo
 

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